Cultura Cinema
“Le chagrin et la pitié”: lo sguardo di Ophüls sul nazismo in Francia

Storia di una denuncia in forma di pellicola, a cinquant’anni dall’uscita

Alla fine degli anni sessanta il regista Marcel Ophüls lavora a un film sulla Francia nel periodo dell’occupazione nazista e di Vichy. Nel 1967 la televisione ha mandato in onda un suo documentario sugli accordi di Monaco ed è previsto che trasmetta il nuovo lavoro appena ultimato. Ophüls, figlio del grande regista tedesco ed ebreo Max (Oppenheimer all’anagrafe), conserva lo pseudonimo scelto dal padre, emigrato nel 1933 in Francia e poi nel 1941 negli Stati Uniti. Nel 1969 il documentario è pronto: oltre quattro ore di pellicola a cui viene dato il titolo Le chagrin et la pitié (il dolore e la pietà), riprendendo la frase del farmacista Verdier, intervistato nel film, che dice: “I due sentimenti che ho provato più spesso durante quel periodo sono il dolore e la pietà”. Qualche anno più tardi l’opera viene citata in una scena cult di Io e Annie di Woody Allen. “Non ho voglia di vedere un documentario di quattro ore sui nazisti”, protesta Annie (Diane Keaton) in coda davanti al cinema.

Al di là della battuta di Annie, Le chagrin et la pitié non è un documentario sui nazisti, ma come spiega il sottotitolo scelto da Ophüls la cronaca di una città francese sotto l’occupazione. La città scelta è Clermont-Ferrand, in Alvernia, a breve distanza da Vichy nel cuore della Francia profonda. In ogni caso le testimonianze, i documenti e le immagini d’archivio, uniti dal montaggio, restituiscono uno spaccato della vita in una località rappresentativa della storia di Francia e, in certa misura, anche d’Europa durante la seconda guerra mondiale. Che si tratti non di un semplice documentario sui nazisti, bensì sui francesi, è confermato dalla complicata storia della sua diffusione. Nell’autunno 1969 il film viene mandato in onda in Germania e in Svizzera, invece in Francia la direzione del servizio nazionale di radiodiffusione pubblica (ORTF) rifiuta di acquistarlo. Si dice che metta in discussione la narrazione gollista degli anni dell’occupazione, quella secondo cui i francesi non si sono piegati e fin da subito hanno opposto resistenza ai tedeschi. Di questo racconto pacificatore, secondo la ORTF, “i francesi hanno ancora bisogno”. Come dirà il regista più avanti, l’opera è vittima di “censura per inerzia”. Anche al cinema la distribuzione a dir poco stenta e solo nel 1971, esattamente cinquanta anni fa, una piccola sala lo proietta a Parigi. Come in Io e Annie le file fuori dalla sala del Quartiere latino si allungano e convincono altri cinema a lanciarlo.

In effetti l’opera di Ophüls scuote la mitologia neogollista di una nazione fiera e compatta contro l’occupante. Il documentario è diviso in due parti, dedicate al crollo della Francia nel 1940 e alla scelta compiuta in modo esplicito o implicito da ogni cittadino nei quattro anni successivi. Ophüls utilizza filmati d’archivio inediti e soprattutto interviste, con le quali cerca di rappresentare tutti gli ambienti sociali, politici e professionali senza alcuna gerarchia. Ascoltiamo così la versione di due agricoltori socialisti resistenti della prima ora, commercianti, un aristocratico di estrema destra volontario nelle SS, agenti segreti inglesi, ex soldati e ufficiali tedeschi accanto a personaggi di spicco come il ministro degli esteri di Churchill Anthony Eden e il politico Pierre Mendès-France. Tutti i dialoghi si svolgono in contesti informali per permettere agli intervistati di esprimersi più liberamente possibile. Il regista non valuta quello che dicono, le loro verità e menzogne, sicurezze e incertezze, suo compito è semplicemente di favorirne l’emersione dopo decenni di censura e autocensura, almeno negli spazi pubblici, e lasciare agli spettatori il giudizio. Rifiutando il ruolo di giudice, il regista rifiuta anche quello di protagonista perché la sua funzione è maieutica, con le domande cioè aiuta a fare emergere il pensiero degli intervistati e con il montaggio suscita domande negli spettatori. Non stupisce dunque che il documentario sia stato accusato di essere antipatriottico da ambienti nazionalisti e neogollisti, e attaccato frontalmente dall’estrema destra. Più in generale, Ophüls mette in dubbio non solo il mito nazionale, ma anche il fatto stesso che possa esistere qualcosa come una memoria collettiva. Le memorie, ci accorgiamo nel corso della visione, sono sempre individuali, espressioni di punti di vista per definizione parziali e discutibili anche se naturalmente non tutti equivalenti. La scelta di non commentare fuori campo, ma di fare domande e lasciare parlare gli interlocutori rispetta e valorizza l’individualità di ogni voce. È in questo modo, d’altronde, che emergono naturalmente aporie, contraddizioni e rimozioni.

Il crollo dell’esercito francese nel maggio del 1940 è uno choc. Eppure, nell’arco di poche settimane, la Francia sarà l’unico Paese dell’Europa occupata con un proprio governo, cioè un governo francese con relativa autonomia anche dopo la sconfitta, mentre gli altri governi sono in esilio a Londra. Tutte le voci degli intervistati francesi – ben diverso il discorso per i tedeschi, nei quali spesso si avverte la difficoltà a fare i conti con il proprio passato – concordano nel delineare i contorni di una tragedia. Le reazioni però vanno in direzioni anche molto diverse. Per un aristocratico di estrema destra che si arruola volontario nella divisione SS “Carlomagno” la disfatta è conseguenza naturale di una politica, quella della democrazia e del socialismo del Fronte popolare. Il regime di Vichy guidato da “Le maréchal” Pétain, l’acclamato e attempato eroe di Verdun, si impegna fin da subito per identificare i responsabili della disfatta. Sul banco degli imputati salgono allora il cosmopolitismo, il comunismo, l’influenza straniera e inglese in particolare (in un momento in cui il Regno Unito è unico argine alla Germania in Europa) e le trame ordite dagli ebrei. Insieme al desiderio di autorità, perfettamente rappresentato nella persona di Pétain, dilaga quello di ricominciare a vivere pensando alle esigenze della quotidianità, al lavoro e alla famiglia. Nell’immaginario propugnato da Vichy e fatto proprio da molti, l’Europa del futuro si fonda sulla collaborazione di Francia e Germania all’insegna dell’antiparlamentarismo. “Siamo uniti, siamo disciplinati” e “Lavoro, famiglia, patria” alcuni degli slogan in voga. Per milioni di francesi d’altronde Hitler è un pericolo, ma Léon Blum – ebreo e socialista – è un pericolo più grande. Di particolare significato le testimonianze del volontario nelle SS e di una coppia di contadini attivi nella resistenza, che da punti di vista opposti denunciano l’opportunismo di coloro che sostenevano Pétain e Laval per poi aderire di colpo alla vulgata imposta da De Gaulle al momento della liberazione. Una mitologia utile per riguadagnare la pace interiore e nel caso di compromissioni con il regime anche esteriore, ma appunto una mitologia. “Chi voleva aderire al Maquis [la resistenza francese] poteva farlo facilmente”, dice un partigiano: anche in questo caso, le stesse parole usate dall’aristocratico filonazista, che pure ha fatto una scelta diametralmente opposta. In mezzo si delinea così quella zona grigia di cui scrive Primo Levi in relazione al Lager con un’espressione oggi entrata nel lessico politico e giornalistico ma del tutto assente all’epoca del film.

Anche nell’atteggiamento verso gli ebrei dominano le tonalità del grigio. Come giudicare la scelta del commerciante Klein di fare pubblicare un’inserzione sul giornale locale per specificare che, nonostante il nome, lui non è ebreo “ma francese”? Nel suo caso l’intreccio tra timore di perdere la clientela, desiderio di ben figurare alla luce della dottrina di Vichy e paura per la propria incolumità è difficile da districare. Se è relativamente facile giudicare l’azione diretta della polizia in episodi come la Rafle du Vel d’Hiv a Parigi, quando al convoglio per Auschwitz vennero aggiunti per iniziativa francese migliaia di bambini ebrei che i tedeschi non avevano previsto di deportare, come giudicare i silenzi prevalenti di fronte alla deportazione? Alla domanda rivolta ad alcuni studenti del liceo di Clermont se l’antisemitismo esista ancora nel 1969 in Alvernia la risposta è affermativa: la parola “ebreo” è utilizzata spesso come insulto. Non sarà dovuto anche al fatto, suggerisce il regista, che si parla troppo poco dell’occupazione?

In Francia, dopo la prima uscita al cinema nel 1971, bisognerà aspettare ancora dieci anni prima che la televisione si decida a trasmettere Le chagrin et la pitié. In questo decennio la percezione e la narrazione del periodo dell’occupazione cominciano lentamente a evolvere, anche grazie a nuove testimonianze, pubblicazioni e nel 1979 alla larga diffusione della serie americana Olocausto (peraltro discutibile per molti aspetti). La presa di coscienza degli atteggiamenti tenuti nel periodo dell’occupazione dai francesi, ma anche dagli italiani e dagli europei in genere, non è certamente un processo oggi concluso. È certo invece il contributo dato a questa presa di coscienza dal film di Ophüls.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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