Cultura
Reuven Rivlin esce di scena: chi sarà l’undicesimo Presidente di Israele?

Il 2 giugno la Knesset sarà chiamata ad eleggere il nuovo presidente. Tra i candidati più probabili, Yehudah Glick, già parlamentare del Likud, Michael Bar-Zohar e l’ex ministro del Lavoro Shimon Sheetrit

In giorni convulsi e di nuovo difficili per Israele arriva la notizia che si procederà all’elezione del nuovo presidente dello Stato – l’undicesimo in ordine di successione – il 2 giugno prossimo, con un mese circa di anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato di Reuven Rivlin, la cui conclusione è calendarizzata al 5 luglio 2021. L’annuncio è stato dato lunedì dallo speaker della Knesset Yariv Levin, dopo avere raccolto l’assenso sui tempi elettorali dei deputati. Il voto, che coinvolge tutti i membri eletti del parlamento, avverrà come di prassi a scrutinio segreto, determinando il successore secondo il presupposto che la sua scelta debba rispondere a criteri di coscienza personale dei deputati elettori e non di mera appartenenza politica dei candidati. Poiché l’alta magistratura deve incarnare il senso dell’unità del Paese in tutte le sue componenti (non a caso, annunciando la data delle elezioni, Levin ha affermato di sperare «che in questi giorni complessi, il presidente eletto sia una persona rappresentativa di tutte le parti della società israeliana») – e posto che, al pari di omologhi di altre nazioni, tra cui la stessa Italia, essa ha assunto negli ultimi anni un ruolo più interventista di quanto non fosse previsto in origine – la sua nomina assume quindi un significato peculiare, rivelandosi più delicata di quanto non lo sia stata nel passato.

Formalmente, il  Nasì («Principe» o «Patriarca»), ovvero il Presidente dello Stato d’Israele, che porta l’antico titolo del capo del Sanhedrin (l’«Alta Corte»), svolge funzioni circoscritte e può contare su uno scarso numero di poteri sostanziali, tutti regolati dalla Legge Fondamentale su il Presidente della Repubblica (del 1964). Per ogni suo atto, infatti, necessita la controfirma ministeriale, essendo politicamente non responsabile del suo operato istituzionale, con l’eccezione della nomina del Primo ministro, in genere il leader del partito di maggioranza relativa nella coalizione vincente alle elezioni. Concretamente al Presidente sono demandate quelle funzioni di rappresentanza dell’unità nazionale e di preservazione «cerimoniale dei suoi simboli», sulla scorta del modello formale che si attaglia al sovrano inglese. Concretamente, i suoi ripetuti interventi nel merito non del dibattito politico – dal quale deve risultare comunque estraneo, non potendo esercitarvi un’influenza diretta – bensì in tutte quelle materie e situazioni che abbiano stretta attinenza con l’unitarietà istituzionale del Paese, hanno reso la figura presidenziale un soggetto di garanzia dello stato di diritto.

Già il 22 aprile, ad esordio della ventiquattresima legislatura, il deputato Merav Michaeli del partito laburista aveva presentato un disegno di legge con il quale si impedisce la candidatura di chiunque sia indagato o inquisito per fatti criminali. L’obiettivo dichiarato era di impedire all’attuale premier Benjamin Netanyahu, attualmente sotto giudizio da parte della magistratura, di avanzare la sua candidatura. Tuttavia, la proposta non è stata adottata dal parlamento. Rimane comunque improbabile che Netanyahu si presenti come candidato, anche se in Israele c’è chi ha pensato ad una sua ipotetica elezioni per ottenere due piccioni con una fava: un settennato nel quale l’eletto non sarebbe perseguibile a fronte della sua estromissione dai giochi politici.

L’elezione del presidente dello Stato, per l’appunto, si svolge alla Knesset. Ogni deputato ha diritto al suo solo singolo voto. Che deve esercitare personalmente. Il sistema elettorale prevede due turni: se un candidato non ottiene la maggioranza assoluta al primo turno, si procede quindi al ballottaggio. Per la peculiare natura della carica istituzionale, qualsiasi cittadino israeliano può candidarsi alla presidenza. Nel novembre 2013, il procuratore generale Yehuda Weinstein ha tuttavia stabilito che ai candidati sarebbe stato impedito di raccogliere fondi per finanziare le loro campagne, affinché queste non si trasformassero in un girone elettorale surrettizio, al pari delle elezioni politiche e amministrative. C’è quindi ancora una settimana (fino al 19 maggio) per raccogliere le firme di almeno dieci membri della Knesset per ogni candidatura.

Al momento, parrebbero certi i nomi di Yehudah Glick, già parlamentare del Likud, di Michael Bar-Zohar, anch’egli già membro della Knesset per i laburisti, dell’ex ministro del Lavoro Shimon Sheetrit. Ad essi si aggiungono quelli della farmacista arabo-israeliana Elham Khazen, già testa di lista femminile del partito Kahol Lavan e precedentemente candidata del partito laburista nonché di Yosef Abramowitz, attivista ed esponente del mondo imprenditoriale nel campo delle energie rinnovabili (altrimenti definito come «solar energy pioneer», in quanto presidente e Ceo di Energiya Global Capital e cofondatore di Arava Power Company). Plausibile, a dare credito alle voci correnti, che possano concorrevi anche l’ex leader laburista Isaac Herzog (figlio di Chaim, sesto presidente nella successione, tra il 1983 e il 1988) e la vincitrice del premio Israele Miriam Peretz, educatrice e figura di spicco nel panorama civile e culturale nazionale. Peretz ha perso due figli in battaglia, Uriel (durante il 1998, nel Libano meridionale) ed Eliraz (morto nel 2010 nel corso di un’operazione militare a Gaza). La scorsa settimana l’ex ministro e già presidente del Labur Amir Peretz ha invece annunciato la sua indisponibilità a concorrere. La defezione, in tutta probabilità, è dettata dal riscontro della caduta della sua popolarità dopo avere accettato di entrare a fare parte del governo di unità nazionale promosso nella precedente legislatura da Netanyahu e Gantz.

Con l’elezione del 2 giugno (data che in Italia coincide con la festa della Repubblica), Reuven «Ruvi» Rivlin uscirà quindi di scena. Avvocato e politico di lungo corso, nato a Gerusalemme il 9 settembre 1939, ha servito come presidente della Knesset in due tornate, dal 2003 al 2006 e dal 2009 al 2013. L’anno successivo, il 10 giugno, è stato quindi eletto presidente d’Israele. Proveniente dai ranghi del Likud, ha seguito la traiettoria tipica di molti leader politici israeliani. Figlio di una famiglia innervata nell’ebraismo della Palestina mandataria, antecedente alla nascita dello Stato d’Israele, ha prestato servizio nelle forze armate impegnandosi nell’intelligence. Laureatosi all’Università ebraica di Gerusalemme, è stato consulente legale e membro dei consigli di amministrazione di diverse società, tra le quali la Beitar Jerusalem Sports Association, il Beitar calcio, l’El Al. L’elezione di Rivlin alla presidenza d’Israele è avvenuta con il voto di 63 deputati, durante il ballottaggio contro lo sfidante Meir Sheetrit. All’epoca, era riuscito a fare convergere sul suo nome gli assensi dei deputati arabi e di una parte di quella della destra, tra i quali Naftali Bennett. Come di prassi, secondo la legge, una volta entrato in carica (per la precisione il 24 luglio 2014), aveva cessato di essere membro del parlamento, non potendo sommare le due cariche.

Benché Rivlin sia stato sempre un sostenitore dell’opzione annessionista rispetto ai territori della Cisgiordania, ha tuttavia connotato il suo intero mandato per la costante presa di posizione a favore dell’intera nazione israeliana, considerata senza distinzioni di origine e appartenenza. Dinanzi alle obiezioni di natura elettorale nei confronti degli arabi israeliani avanzate da Netanyahu, ha avuto modo di replicare che «chi ha paura dei voti nelle urne alla fine vedrà sassi lanciati nelle strade»; così come, riferendosi all’instabilità politica del Paese, ha dichiarato che il ruolo di qualsiasi governo deve essere quello di garantire «la guarigione delle ferite, la riparazione delle dolorose fratture, che si sono aperte negli ultimi anni e si sono ulteriormente ampliate nel corso di queste recenti elezioni». Nei confronti delle violenze esercitate da alcuni gruppi radicali ebraici, Rivlin ne ha denunciato a più riprese la pericolosità, ricevendo come risposta minacce di morte. Poiché, sebbene sia un nazionalista di antica generazione, è anche un aperto sostenitore dei diritti delle minoranze, a partire da quelli degli arabo-israeliani. Ragion per cui, le sue aperte prese di posizione, assunte «come democratico ed ebreo», hanno spesso sollevato dibattiti e discussioni in seno alla società.

In linea generale, ha adottato un profilo oltranzista rispetto a tutti quegli atteggiamenti che enfatizzano l’opposizione pregiudiziale alla componente araba d’Israele. Nel 2010 aveva comunque affermato che avrebbe preferito «accettare i palestinesi come cittadini israeliani piuttosto che dividere Israele e la Cisgiordania in una futura soluzione di pace a due Stati». Un’ipotesi, quest’ultima, alla quale non crede, poiché gli pare improbabile che i palestinesi possano riconoscersi in un situazione in cui «uno stato è una superpotenza invincibile e l’altro è sub-autonomo», dichiarando inoltre che «gli insediamenti della Cisgiordania sono israeliani quanto Tel Aviv». Pur non riconoscendosi appieno nell’ebraismo ortodosso, tuttavia Rivlin è sempre stato molto scettico, se non a tratti polemico, rispetto ai movimenti non ortodossi presenti nell’ebraismo. Ancora nel 2014 aveva avuto modo di dichiarare che se fossero stati adottati standard di conversione non ortodossi, lo status ebraico si sarebbe basato su «una definizione civica piuttosto che su una definizione religiosa». Malgrado questa sua convinzione di fondo, divenuto presidente ha attenuato le prese di posizione al riguardo, ricevendo in più occasioni leader del mondo riformato e conservative. Si vedrà, ora, chi gli succederà nello scranno più autorevole del Paese.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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