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Rodi, tra storia e attualità

Un percorso ebraico dell’isola greca

La presenza degli ebrei a Rodi fin dall’antichità è un dato storico, ma non mancano legami con la leggenda. Prima tra tutti quella legata al celebre Colosso, meraviglia del mondo antico eretta nel 293 a.C., distrutta 67 anni dopo da un terremoto e mai più ricostruita.
Pare che i resti di quella statua alta circa 32 metri e dedicata al dio Elio fossero fermi da secoli quando nel 653 d.C. gli arabi conquistarono l’isola. Vi trovarono quei pezzi di bronzo grandi più di qualsiasi altra statua mai realizzata al mondo che giacevano in terra senza che nessuno osasse né rimuoverli né ricostruire l’opera. Come raccontò il professor Richard Freud in occasione di una mostra che qualche anno fa l’Università di Hartford dedicò alla Rodi ebraica, It was paradise, quando il conquistatore musulmano Muawiyah I occupò l’isola e trovò quegli immensi blocchi chiese perché mai nessuno li toccasse. Gli riposero che i rodensi temevano di suscitare le ire del dio e lui in tutta risposta incaricò un appaltatore ebreo di trasportare il metallo della statua a Damasco. Pare che per la missione furono impegnati 980 cammelli.

Al di là del racconto che sfora nel mito, quello che qui risulta interessante è la presenza di ebrei sull’isola almeno fin dal VII secolo e la considerazione in cui questi erano evidentemente tenuti dalle autorità. Cercando altre testimonianze, si va indietro di quasi un altro millennio, dato che nel Libro dei Maccabei si parla di insediamenti ebraici già nel II secolo a.C.. Per farsi un’idea della loro importanza nei secoli successivi basta comunque fare un giro per la città vecchia, tra i vicoli e sotto gli archi di quella che fin dal medioevo era stata la Giuderia. Per quanto il numero di ebrei che vivono oggi a Rodi sia limitato a poche decine, il ricordo dei loro antenati è ancora ben vivo. Lo si ritrova nelle targhe e nelle iscrizioni antiche che punteggiano il centro storico, negli oggetti esposti nel Museo ebraico e, naturalmente, nei resti delle antiche sinagoghe, sei in tutto, che rispondevano ai bisogni di una comunità che nel 1116 contava circa mezzo migliaio di persone e che negli anni Trenta del Novecento aveva superato le quattromila unità.

Di questi luoghi di preghiera oggi ne è rimasto in piedi solo uno, attualmente l’unico in funzione, considerato il più antico di tutta la Grecia. Si tratta della Sinagoga Kahal Kadosh Shalom e si trova in via Dosiadou. Una targa posta nel cortile dove un tempo sorgeva una fontana, che si pensa costruita insieme al tempio, riporta un’iscrizione datata Kislev 5338 (1577). Volendo tenere per buona questa data, la Kahal Shalom parla di un’epoca in cui gli ebrei erano una realtà importante per la comunità locale. Anche se non senza qualche problema con i governanti. Come quando, nel XVI secolo, dopo aver lottato contro gli Ottomani nel XIV secolo accanto ai Cavalieri di San Giovanni e aver difeso la città nel 1480 riducendosi a sole 22 famiglie, furono espulsi da Rodi dal Consiglio dei Cavalieri, ossia da quegli stessi che avevano aiutato.

Ci avrebbero comunque pensato i sefarditi a far crescere la comunità decimata da guerre ed espulsioni. Scacciati dalla Spagna, molti ebrei raggiunsero le coste di Rodi e qui si fermarono, fondando una congregazione che inizialmente affiancò quella preesistente romaniota per poi inglobarla. I successivi quattro secoli sarebbero stati di sviluppo pressoché ininterrotto, con Rodi ormai diventata un importante centro sefardita con l’istituzione di numerose sinagoghe e di scuole rabbiniche e lo sviluppo di un fiorente commercio, dove ricchi mercanti di tessuti e seta coesistevano con armaioli, artigiani, legatori e tessitori.
La sinagoga Kahal Shalom è un ottimo punto di partenza per conoscere i rodesli, dal termine ladino con cui gli ebrei rodiesi indicavano la propria comunità. Il suo elegante interno, composto da arredi in legno scuro e pavimenti in pietra, segue lo stile tradizionale sefardita nel porre la tevah, ossia il tavolo per la lettura della preghiera, al centro del santuario e rivolto a sud-est, verso Gerusalemme. Il pavimento è decorato con graziosi mosaici in bianco e nero, in un motivo tipico utilizzato in tutta la città vecchia. Dagli anni ’30 del secolo scorso esiste un matroneo, un balcone destinato a ospitare le donne, ma prima di allora queste erano costrette a sedere in stanze adiacenti al muro sud della sinagoga, potendo guardare il santuario solo attraverso aperture finestrate ornate da graticci.

Nel 1997 due di queste sale furono trasformate nel nucleo dell’attuale Museo ebraico. L’idea era arrivata da Aron Hasson, un avvocato di Los Angeles, rodiano di terza generazione, che aveva notato la scarsa consapevolezza sulla storia unica della comunità ebraica. Inizialmente era stata allestita una semplice mostra fotografica che documentava la vita ebraica prebellica a Rodi, poi l’esposizione si era ampliata grazie alla motivazione e al contributo economico della comunità e dei singoli donatori, finendo con l’occupare l’intera ex sezione femminile. Oggi accanto agli ampi pannelli illustrativi vi si possono trovare reperti donati al museo dai rodensi della diaspora come manufatti giudaici, documenti storici, libri religiosi, costumi e tessuti di casa. Aperto al pubblico da aprile a ottobre e su appuntamento nel resto dell’anno, il museo propone anche visite guidate alla sinagoga e al quartiere ebraico.

Chi opta per il fai da te può comunque seguire le indicazioni fornite dal sito della comunità, eventualmente con l’ausilio della App scaricabile dalle sue pagine. Senza troppa difficoltà si percorrerà così la parte orientale della città murata immaginando i luoghi in cui per secoli vissero gli ebrei rodensi delle più diverse classi sociali, dai sontuosi alti palazzi in pietra alle più umili case in mattoni di fango. Uscendo dalla sinagoga e raggiungendo via Pindarou e quindi via Byzantinou, all’altezza del numero 4 si troverà anche una targa, datata Nisan 5637 (1837), che benedice in ebraico tutti coloro che passano sotto il suo arco.
L’itinerario proseguirà poi fino alla vecchia Puerta de la Mar e quindi lungo i bastioni di via Kisthinou, dove un tempo sorgeva la Grande Sinagoga, la Kahal Kadosh Gadol. Si trattava del tempio romaniota che accolse i sefarditi giunti a Rodi dopo la conquista turca del 1523. Più volte rimaneggiata e diventata in seguito luogo di culto anche per gli ebrei spagnoli, la sinagoga finirà bombardata dagli alleati al termine della guerra a causa della sua prossimità con il porto. Rimasta precariamente in piedi fino a una ventina di anni fa, franerà poi definitivamente mostrando oggi di sé solo i pavimenti e alcune tracce dei muri. Non troppo lontano dalla Sinagoga Grande sorgeva anche la Scuola dell’Alleanza Ebraica Universale. Una targa ricorda l’esistenza di questa istituzione, fondata all’inizio del secolo grazie a una donazione del barone Edmond de Rothschild, che visitò Rodi nel 1903. Si trattava della prima scuola mista, con insegnamento condotto interamente in francese. Anche questa fu distrutta dai bombardamenti durante la guerra.

Il tema della guerra non si può aggirare e incombe un po’ ovunque. Sottointeso nel caso dei ruderi di quanto le bombe hanno distrutto, reso esplicito dalle targhe e dai memoriali. Questi ricordano quella che era stata la comunità rodiota prima che i tedeschi occupassero l’isola nel 1943, prendendo il posto degli italiani presenti dal 1912. Fino a quel momento in molti si erano illusi che l’isola si sarebbe salvata all’orrore e a parte pochi ardimentosi che erano fuggiti in tempo, la gran parte degli ebrei di Rodi era rimasta nelle proprie case. La catastrofe sarebbe arrivata di lì a poco, con la deportazione dell’intera popolazione ebraica compiuta dai nazisti a partire dal 18 luglio 1944. Dopo una prima convocazione dei soli uomini presso l’ex sede dell’Aeronautica Militare, nei giorni successivi si sarebbe giunti alla creazione di un vero e proprio campo di concentramento, con 1600 persone tra donne, uomini, bambini e anziani che il 23 luglio furono inviate in condizioni indicibili al porto del Pireo. Da qui, il 3 agosto i sopravvissuti al viaggio furono trasferiti in Polonia sui carri da bestiame, raggiungendo Aushwitz il 16 agosto. Di quelle persone solo 150 sarebbero sopravvissute, 120 donne e 30 uomini, anche se la maggior parte solo per poco tempo a causa delle condizioni terribili in cui versavano al momento della liberazione.

 

Alle vittime della seconda guerra mondiale provenienti da Rodi e da Kos è stato dedicato il Memoriale dell’Olocausto, in un piccolo parco istituito al posto delle case degli ebrei che furono distrutte dalle bombe. La piazza in cui questo si trova è stata intitolata agli Evreon Martyron, ossia ai Martiri Ebraici, da Gabriel Haritos, il primo sindaco di Rodi dopo la fine della guerra e dopo che l’isola era stata integrata al resto della Grecia. Per quanto riguarda invece il monumento, questo è più recente, visto che è stato inaugurato il 23 luglio 2002 per ricordare la data della deportazione. Si presenta come un poligono incompleto a sei facce di marmo bianco e nero con sopra inciso lo stesso testo commemorativo in lingue diverse (greco, francese, italiano, inglese, ebraico, ladino).

Per visitare l’ultimo dei luoghi chiave della comunità rodiota è necessario a questo punto uscire dalle mura antiche, dato che il cimitero ebraico si trova oggi nella città moderna. Prima, si estendeva in un vasto terreno leggermente in pendenza che da Porta Koskinou andava a La Puerta de la Sivdad, raggiungendo il retro della Torre d’Italia. Nel 1938 il gerarca fascista Cesare De Vecchi ebbe la brillante idea di costruire dei giardini pubblici nella zona in cui per secoli gli ebrei di Rodi avevano sepolto i propri cari. Per tentare di fare ammenda dell’oltraggio, le autorità italiane concessero alla comunità di portare le tombe presso un nuovo cimitero, accanto a quello musulmano, lungo la strada per Kalithea. Naturalmente solo quanti avevano qualche possibilità economica, spesso aiutati dai familiari che vivevano all’estero, furono in grado di provvedere al trasferimento, che riguardò comunque migliaia di sepolture, mentre tutte le altre finirono distrutte. Per quanto riguarda le lapidi, un centinaio delle più belle furono sottratte per decorare il palazzo del governatore, mentre le altre furono spostate e disperse nel nuovo cimitero. Molte di esse sono state fortunatamente restaurate alla fine del secolo scorso, perlopiù grazie all’interessamento di ebrei americani discendenti degli antichi rodioti. Oggi possono essere visitate insieme a quelle delle vittime della seconda guerra e a un Memoriale dell’Olocausto eretto dalla Comunità nel 1949 e recante i nomi delle famiglie deportate da Rodi.

 

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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