Cultura
The City and The City: il dramma dgli ebrei di Salonicco sul grande schermo

La pellicola rievoca la persecuzione della comunità nella città greca un tempo conosciuta come Gerusalemme dei Balcani

È sempre difficile far dialogare il passato con il presente. Anche perché l’oggi tende a schiacciare quanto è stato, interpretandolo e distorcendone il senso. La storia di Salonicco, un tempo conosciuta come Gerusalemme dei Balcani per la preminenza dalla sua comunità ebraica o come Madre di Israele, è una prova evidente di questa difficoltà narrativa. Hanno pensato anche a questo i registi Syllas Tsoumerkas, già autore di Homeland del 2010, e Christos Passalis, attore al suo debutto dietro la macchina da presa, quando hanno ideato e quindi realizzato The City and the City. Presentato all’ultima Berlinale, nella sezione Encounters, si tratta di un film non semplicissimo da seguire, ambizioso nello stile così come negli intenti. Che sono quelli di illuminare quella zona d’ombra della storia della seconda città della Grecia, quella dell’annientamento della sua comunità più importante. E non si parla qui solo di nazisti, che pure hanno sterminato la quasi totalità dei 55mila ebrei di Salonicco.

Fino agli anni Venti del Novecento, la popolazione ebraica era stata non solo dominante per numero e impegno a tutti i livelli della società, ma anche favorita dallo stesso governo, che da una parte ne promuoveva l’integrazione locale e dall’altra vedeva di buon occhio lo sviluppo del sionismo. Le cose sarebbero cambiate con l’afflusso dei rifugiati greci dall’Asia Minore, che capovolsero la composizione etnica di Salonicco e misero gli ebrei in una situazione di inferiorità sia numerica sia politica ed economica. Sostenuta dal primo ministro Venizelos e dai giornali locali, la popolazione che già prima non condivideva le posizioni governative e boicottava appena possibile le attività degli ebrei, mise in atto una vera persecuzione, giungendo a gesti come il pogrom di Camp Campbell del 1931, quando un intero quartiere ebraico fu incendiato e 500 famiglie lasciate senza un tetto, o la profanazione di decine di tombe del cimitero ebraico. Fu in questa situazione già sfavorevole per gli ebrei che la Germania nazista occupò il paese nel 1941 spingendo la popolazione in un ghetto nel 1943 per poi assassinarla ad Auschwitz.

Per affrontare un materiale tanto drammatico e complesso tentando di superare le narrazioni fino a qui sperimentate al cinema, i registi hanno compiuto delle scelte stilistiche piuttosto azzardate. Mescolando la fiction al documentario e al filmato d’essai, The City and the City segue una struttura cronologica suddivisa in sei capitoli dove si può leggere la descrizione degli eventi chiave, ma cerca anche di collegare le diverse epoche passando continuamente da un momento storico all’altro. Una delle linee temporali proposte si distingue perché è girata per lo più in bianco e nero, inizia negli anni Trenta e segue le vicende di una famiglia ebrea, interpretata tra gli altri dagli attori Vassilis Kanakis, Angeliki Papoulia e Niki Papandreou.

L’altro percorso narrativo si snoda nella Salonicco dei giorni nostri, presumibilmente una delle due City del titolo, anche se negli scenari contemporanei vengono fatti rivivere gli eventi degli anni Quaranta. In una delle parti più forti del film si assiste a quanto avvenuto del 1942, quando 9.000 uomini ebrei furono umiliati per ore dagli ufficiali tedeschi. La scena è stata girata nello stesso luogo in cui si trovava Piazza della Libertà, teatro dei fatti di 80 anni fa, facendo così in modo che il presente si affacci sul passato. Nella prima inquadratura, in bianco e nero, si nota che oggi il luogo è un cantiere, mentre sullo sfondo si distinguono automobili e autobus indiscutibilmente moderni. L’immagine successiva è a colori e inquadra una persona sotto costrizione, mentre i bulldozer girano intorno agli attori. Anche qui, così come nella scena in cui uno dei personaggi ritorna dal campo di concentramento e abbraccia la sorella su un marciapiede della città di oggi, il dialogo tra presente e passato vuole restare aperto, e solo i costumi ricordano l’epoca alla quale i fatti fanno riferimento.

C’è infine un’altra sezione, meno determinata dal punto di vista spazio-temporale, che solo all’ultimo si scopre collocata nei primi anni Ottanta. Questa potrebbe essere definita come una sorta di terra della memoria, anche considerando il fatto che entrambi i registi, nati a Salonicco nel 1978 ma poi trasferitisi altrove, in quel periodo vivevano ancora nella città greca e che le immagini a tratti indistinte potrebbero essere i lori ricordi. Nel parlare del proprio lavoro a Variety, i due hanno dichiarato di essersi concentrati su quello che Tzoumerkas ha descritto come un “punto cieco” nelle rispettive educazioni, uno spazio in cui la sofferenza e il quasi annientamento della comunità ebraica non sono stati praticamente mai menzionati.

«Per noi è sia un ritorno a casa, sia un atto di riesumazione, nel senso di far risorgere i morti in città», ha detto. Ed è sempre per far conoscere il passato condannando anche chi lo ha cancellato dalle memorie che gli autori avrebbero scelto uno stile narrativo fluido, che mescola i piani temporali. «Abbiamo pensato che sarebbe stata un’idea interessante, visivamente e filosoficamente, avere soldati nazisti che camminavano nella Salonicco contemporanea. Volevamo che la storia fosse nel film come una forza piuttosto che come sfondo», ha detto Passalis, che già in passato aveva collaborato come interprete con Tzoumerkas, dal debutto di questi con Homeland fino al più recente The Miracle of The Sargasso Sea del 2019. «Questi strati di storia, prima di tutto, sono presenti in tutta la città. E inoltre, poiché questo tragico evento non è stato riconosciuto, ci sono ancora ricordi che devono essere riconosciuti. Sono vivi nella vita di tutti i giorni». Gli fa eco Tzoumerkas, che dichiara di aver voluto creare un dialogo tra il contemporaneo e lo storico, per dare voce a una parte della storia «che non ha trovato giustizia».

 

 

 

 

 

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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