Cultura
Shoah: la testimonianza del silenzio e le generazioni successive

Intervista a Sara Cividalli, la pediatra fiorentina che guarda al futuro

Si potrebbero definire testimonianze mancate, ma sarebbe una faciloneria. Tutte quelle storie legate alla Shoah che non sono mai state condivise con le persone più care, con i figli, con i famigliari, in effetti si sono radicate lo stesso. La testimonianza è stata resa e depositata proprio negli animi di quei cari, di quei figli e di quei famigliari che hanno vissuto il silenzio, rispettato la scelta di non dire o di dire solo parzialmente, in forza di una trasmissione quasi involontaria, per via empatica, epidermica o forse, addirittura, genetica come alcuni recenti studi scientifici dimostrano. Di questo genere di testimonianza è stata partecipe Sara Cividalli, pediatra fiorentina, già presidente della locale comunità e attualmente attiva al suo interno come consigliera Ucei e come insegnante di ebraismo della scuola materna e al Talmud Torà.  Delle peripezie di sua madre e sua nonna durante la Guerra non ha mai saputo nulla, come non ha mai saputo nulla di quanto coraggio la professoressa Nella Bichi e suor Benedetta avessero dedicato alla loro salvezza, rendendo possibile la nascita, dopo la conclusione del conflitto, della stessa Sara Cividalli.

A rompere involontariamente il silenzio è stata la storica Marta Baiardi che, dopo un’accurata ricerca negli archivi delle comunità italiane, ha presentato la storia di Miranda Servi durante un evento organizzato dall’Adei sulle donne nella Shoah. Miranda Servi infatti nel 1944 scrive di suo pugno una testimonianza molto puntuale su cosa avesse vissuto e come si fosse salvata durante la guerra, specificando il ruolo della signora Bichi e di suor Benedetta, che poi deposita alla Comunità di Firenze. Miranda Servi è la madre di Sara Cividalli, che da quel giorno scopre la vera storia della sua famiglia. La madre purtroppo nel frattempo è mancata, insieme alla possibilità di confrontarsi su una storia così a lungo taciuta.

“Mia madre mi raccontava solo i momenti gioiosi di quegli anni”, racconta Sara Cividalli, “In particolare di quando, dopo essere stata espulsa dalla scuola pubblica come insegnante, lavorò alla scuola ebraica di Firenze. Una salvezza e un luogo di eccellenza quella scuola, che raccoglieva professori di prestigio, buttati fuori dalle università e dalle altre istituzioni. Un luogo di normalità, anche, dove i ragazzi facevano gli scherzi agli insegnanti, le birbonate, come mi diceva lei. Mi aveva detto qualche volta di essere stata aiutata da Nella Bichi, ma nient’altro, a parte che mia nonna fosse morta di polmonite. E io mi sono sentita, una volta scoperti i documenti della sua storia, colpevole di essere stata connivente con il suo silenzio”.

Come e quando ha scoperto la verità?
“Vivevo a Milano a quei tempi e mia sorella maggiore, figlia della precedente unione di mio padre, mi chiamò per dirmi che la storica Marta Baiardi aveva raccontato la storia di mia madre. Aveva scelto proprio la sua testimonianza tra molte perché era rimasta colpita dal tono, crudo e per nulla lacrimevole, con cui si narravano i fatti. Ironia volle che fu invitata all’Adei a parlarne e mia madre era stata presidente della sezione fiorentina per diverso tempo. Così ho contattato Marta Baiardi che mi ha fornito la documentazione. Ma non è così lineare in verità la storia”.

Perché?
“Questa storica della resistenza aveva citato la testimonianza di mia madre già in alcuni libri basati appunto su raccolte di documenti. Io quei libri li avevo avuti ed erano precedenti all’incontro all’Adei, ma non avevo letto nulla. Mi dicevo che volevo rispettare il silenzio di mia madre e ancora oggi, che ho raccontato e racconto la sua storia, continuo a non ricordare le parti più dure: devo leggerle per poterle trasferire agli altri. Il rispetto del silenzio è doloroso. Molto. Ma anche parlarne, oggi, lo è”.

La seconda generazione porta un peso enorme, dato dalla sommatoria del silenzio e del bisogno, una volta scoperti i fatti, di elaborarli in qualche modo. Ma quel silenzio forse è la cifra più importante per i figli della Shoah.
“Lia Tagliacozzo ha scritto nel suo libro La generazione del deserto (dove si parla anche di mia madre) di un silenzio che in alcune presentazioni è stato proposto come protettivo e salvifico. Sono contraria: per me il silenzio è mortale perché non sapere rende quasi impossibile combattere contro qualcosa che non si conosce, ma che si percepisce”.

E la terza generazione?
“Spesso la terza generazione, per reazione, è stata inondata di ricordi e testimonianze. Ma quella sofferenza interna si trasmette tra le generazioni e risulta sempre più difficile elaborarla. Perché non è stato possibile farlo prima, non è stato possibile condividere quel dolore con chi lo ha vissuto. Ho conosciuto una persona ebrea ma convertita. La madre l’aveva cresciuta intimandola di tenere segreta la sua identità e ora, in età adulta, la stessa madre, ancora in vita, le ha proibito di leggere il suo diario, scritto durante la guerra, prima della sua morte. Beh, è un divieto terribile, qualcosa di atroce. Che parla di quel che è stato in modo silente. Continuiamo a trasmettere quel dolore, anche ai più giovani. I ragazzi della terza generazione sono molto sofferenti. Ci sono studi di neuropsichiatria infantile che riconducono tante patologie di somatizzazione a una comune causa, spesso non considerata dai medici perché la ritengono troppo lontana nel tempo, la Shoah. Addirittura recenti studi scientifici dimostrerebbero modificazioni genetiche che vengono trasferite alle generazioni, causate da quel trauma”.

Si può, almeno parzialmente, curare con il racconto?
“Adesso sento di avere un mandato. Faccio la pediatra, sono nonna di un bambino di quattro anni e mezzo, insegno ebraismo alla scuola ebraica e, grazie al covid, ho cominciato a fare dei piccoli video-racconti su storie della Torà, ebraismo in generale e figure significative dell’ebraismo sulla pagina FaceBook dell’Ucei. Per me l’universo dell’infanzia è fondamentale e credo sia molto importante cominciare a raccontare quello che è stato ai più piccoli, con un linguaggio adeguato, ma senza traumatizzarli. Come un’introduzione all’argomento, per cui si dicono cose vere, che andranno ampliate nel corso della formazione dei bambini, poi ragazzi e uomini. C’è una storia molto bella che va in questa direzione, quella di Jella Lepmann. Ebrea tedesca e tra le prime donne giornaliste, negli anni 20 lavorava nella redazione di un importante giornale in Germania, poi fugge in Inghilterra dove lavora per la BBC. Alla fine della guerra fu contattata dall’esercito americano per andare in Germania a rispondere ai bisogni dei bambini rimasti orfani. Lei organizza la prima mostra del libro per l’infanzia chiedendo a 21 stati di inviare albi illustrati per bambini. Partecipano tutti a questa iniziativa, ma il Belgio come prima risposta invia un rifiuto. Non vuole fare regali alla Germania, che lo ha invaso già due volte. La risposta della Lepmann è fantastica: per evitare la terza invasione, scrive al governo belga, occorre partire dai bambini. Così riceve la più bella raccolta di libri illustrati per la mostra (si può vedere la storia di Jella Lepman sulla pagina fb di Ucei, ndr). Ecco, io sento il desiderio di cominciare la strada dei più piccoli, che poi sarà proseguita da altri, con le specifiche competenze. Si tratta di costruire il futuro, tenendo in considerazione il mondo, perché quello che succede ci riguarda. Il mondo intero ci riguarda”.

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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