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“Somehow I Am Different”: storie identitarie dall’Ungheria ebraica

Identità come scelta e responsabilità: 21 voci dalla città di Budapest nel libro di Alyssa Petersel. La recensione.

Tra le pieghe della persona che sei e del posto in cui vivi, c’è una storia da scovare. Così si potrebbe riassumere l’essenza di Somehow I Am Different: Narratives of Searching and Belonging in Jewish Budapest [In qualche modo sono diverso: storie di ricerca e appartenenza nella Budapest ebraica], un’antologia di interviste a ventuno ebrei ungheresi raccolte e pubblicate dall’autrice statunitense Alyssa Petersel. Edito da Acorn Publishing (2016), il libro è stato premiato per la categoria “Biography/Autobiography” al New York Book Festival del 2016. Ma la sua storia è più complicata di così: nessuno, tra sponsor e borse di studio a cui l’autrice si era candidata, ha accolto il progetto. Ma lei, newyorchese con una formazione in psicologia, studi internazionali e assistenza sociale, oggi fondatrice e direttrice di una start-up che si occupa di salute mentale, non si è arresa. Ha lanciato con successo una campagna di crowdfunding su Kickstarter che le ha permesso di realizzarlo, con tanto di soggiorno di otto mesi nella capitale ungherese.

Perché ventuno storie? Non è un numero casuale, specifica l’autrice nella prefazione del libro: sta per tre volte sette, un numero sacro nell’Ebraismo.

Gli ebrei in Ungheria: dalla storia al presente

Leader ed educatori di comunità, animatori di iniziative dal basso, un cantante hip-hop, una rinomata chef e pasticcera, un’insegnante di lingue, un docente universitario, e così via: le interviste restituiscono un campione diverso e sfaccettato della vita ebraica di Budapest.

Quella ungherese è, a oggi, la più grande comunità ebraica dell’Europa centro-orientale (le stime, secondo il World Jewish Congress, variano tra 75.000 e 100.000). L’80% degli ebrei ungheresi vive a Budapest e costituisce il 6,4% della popolazione cittadina. Durante il primo dopoguerra e la prima metà della seconda guerra mondiale,  la situazione degli ebrei ugheresi, in confronto con il resto dell’Europa, era relativamente sicura: erano perseguitati, ma non rischiavano lo sterminio. La ragione (paradossale) era che l’Ungheria, riusciva a mantenere una certa autonomia nei suoi affari interni in ragione del suo essere fedele alleata della Germania nazista.

Questo, fino al 1944. Preoccupata dall’evoluzione del conflitto, che prefigurava una prossima sconfitta della Germania, l’Ungheria annunciò di volersi ritirare dalle forze dell’Asse e di voler negoziare una pace separata con gli Alleati. I Tedeschi reagirono con l’occupazione del Paese. Così, la Shoah si abbatté sugli ebrei ungheresi proprio verso la fine della guerra, nel più brutale e scioccante dei modi. I sopravvissuti ai campi di sterminio dovettero affrontare un difficilissimo ritorno. Traumatizzato dalla Shoah e represso dal regime comunista successivo, lo spirito dell’Ebraismo ungherese rimase in una sorta di torpore per diversi decenni. Fino al suo nuovo risveglio.

“Non sapevo di essere ebreo”: ritorno alle radici

L’aspetto più interessante di questo lavoro forse riguarda un tratto ricorrente tra le persone intervistate, cioè l’essersi scoperte ebree. Sono cresciute con una qualche consapevolezza che “in un modo o nell’altro erano diverse”, ma senza sapere esattamente come e perché. Senza avere la minima idea, cioè, di essere ebrei.

In un certo modo, l’intero libro può essere letto come una collezione di storie sulla rivelazione di questa identità nascosta. Alcuni, raccontano, hanno scoperto di essere ebrei al funerale di qualche parente. Alcuni l’hanno saputo dai nonni in punto di morte. Altri lo hanno dedotto dal fatto di essere stati esclusi, a scuola, dalla lezione di religione, o presi di mira dai compagni. Altri ancora, in passato, sono stati addirittura coinvolti in movimenti antisemiti. Tomi, oggi una figura di riferimento nella vita associativa ebraica locale, racconta il modo in cui i suoi genitori (negli anni Settanta, quando chiedere direttamente a qualcuno se fosse ebreo era un problema) scoprirono di essere entrambi ebrei: fu durante uno dei primi appuntamenti, quando andarono a vedere uno spettacolo che parlava della seconda guerra mondiale a Berlino; durante una scena particolarmente drammatica, semplicemente, le loro mani si allacciarono in una stretta più forte.

Dal senso di euforia al senso di responsabilità

Petersel spiega che, dopo molti decenni, la sua generazione (quella nata dopo la caduta del Comunismo) è la prima a voler riportare l’Ebraismo al centro del dibattito. Le persone non solo provano un senso di euforia di fronte alla scoperta della loro ebraicità, ma si sentono anche in dovere di farne qualcosa.

La scoperta così si trasforma da rivelazione da accettare passivamente, a richiamo all’azione. Le storie umane di Somehow I Am Different compongono un mosaico di vita vibrante. La presente situazione politica dell’Ungheria non è esattamente al centro del libro, ma emerge dai racconti personali. Ne è un esempio Ádám, leader di comunità e organizzatore di festival di cultura ebraica, che commenta: “È difficile (…) perché viviamo in una società dove i nonni degli altri hanno davvero ucciso i nostri nonni. O potrebbero averlo fatto. Non è difficile solo per me, ma anche per chi sta dall’altra parte (…). Ciò ci rende anche molto sensibili alla nostra situazione politica e ai nostri problemi con la democrazia”.

Somehow I Am Different è una riflessione corale sull’identità come scelta e, in un certo modo, come resposabilità; identità che deve interagire con gli altri, ma non può essere basata sulle altrui aspettative. Come dice un’intervistata, Devora, citando uno scioglingua del Kotzker Rebbe: “Se io sono io perché tu sei tu e tu sei tu perché io sono io, allora io non sono, e tu non sei. Qundi, cosa siamo noi? Nulla. Ma se io sono perché io sono, e tu sei perché tu sei, allora io sono e tu sei. Allora abbiamo due persone”.

Potete visitare il sito dedicato a Somehow I Am Different per saperne di più.

Silvia Gambino
Responsabile Comunicazione

Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.


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