Cultura
Sugli ebrei italiani #4  

Un’attenta e approfondita analisi sulla composizione e la distribuzione territoriale degli ebrei italiani

Oltre alle peculiarità storiche e cultuali del bimillenario insediamento ebraico in Italia, trasfusesi poi nei processi d’integrazione conseguenti all’emancipazione giuridica dell’Ottocento, se si deve ragionare sulla sua modernità bisogna allora rifarsi ad alcuni trend sociodemografici consolidatisi nel tempo. Dall’Unificazione in poi, infatti, si è misurato un rilevante processo di redistribuzione territoriale della popolazione comunitaria.

Sul piano dei numeri, basti indicare le serie statistiche già studiate da Sergio Della Pergola, che indicavano per il XII secolo la presenza di 15mila ebrei su una popolazione complessiva di 7,3 milioni (a fronte di 2 milioni di ebrei in tutto il mondo); nel XVI secolo, 120mila soggetti (su una popolazione di 10 milioni circa di peninsulari: il saldo eccezionale era dovuto all’espulsione dei sefarditi iberici); nel XVIII secolo, 26.750 (13,3 milioni di italiani, due milioni di ebrei in tutto il mondo); nella prima metà del XIX secolo, circa 40mila elementi (circa 30 milioni di connazionali, 5 milioni di ebrei sul pianeta); nel 1900, 43.128 (33 milioni di italiani, più di 10 milioni di ebrei mondiali); nel 1920, 43.128 (37,9 milioni e 14,5 milioni di ebrei nella Diaspora); nel 1938 – l’anno delle leggi razziali – 45.270 (44 milioni di italiani, 16 milioni e mezzo di ebrei in tutto il mondo); per poi discendere a 28.445 nel 1945 (46 milioni di connazionali, 11 milioni di ebrei); risalire lentamente nel 1955 (29.660 ebrei), nel 1965 (32mila), nel 1975 (35mila, su una popolazione ebraica mondiale di 13,4 milioni).

Se il XIX secolo segna una vera e propria transizione demografica nella popolazione dei paesi a sviluppo avanzato (e non solo), di fatto raddoppiando la popolazione ebraica mondiale (il combinato disposto tra drastico ridimensionamento della mortalità, soprattutto infantile, e alti livelli di natalità), con il Novecento si consuma il processo di redistribuzione mondiale della medesima: alla fine del secolo, infatti, i due grandi nuclei dell’ebraismo diventano gli Stati Uniti (più di 5 milioni) e Israele (attualmente circa 6 milioni), mentre in quelle aree di tradizionale insediamento, ossia l’Est europeo e i paesi arabo-musulmani, le uscite o le fughe si sono succedute nel tempo, fino quasi a svuotare le locali comunità.

In Italia, se si considerano le cosiddette confessioni «acattoliche» dall’Unificazione agli anni Ottanta del secolo successivo, quando il Paese diventa terra di immigrazione, la crescita dell’insediamento ebraico è molto più contenuta (da 33mila elementi a 35mila) di quello valdese (da 21mila a 35mila). Nel censimento del 1938, ordinato dal regime fascista in preparazione delle tragiche leggi razziste, la distribuzione territoriale risultava essere la seguente: Lazio, 12.943; Lombardia, 11.559; Venezia Giulia e Zara, 8.285; Toscana 5.931; Piemonte, 5.439; Veneto, 3.822; Emilia, 2.964; Liguria, 2.770; Marche, 1.218; Venezia Tridentina, 989; Campania, 714; Umbria 224; Sicilia, 202; Abruzzi e Molise, 138; Puglie, 122; Sardegna, 67; Calabria, 24 ed infine Lucania con 10 elementi. Le prime dieci province risulavano essere, nell’ordine: Roma, 12.799; Milano, 10.219; Trieste, 6.085; Torino, 4.060; Livorno 2.332; Firenze, 2.326; Genova, 2.263; il Carnaro, 1.782; Ancona, 1.031; Bologna, con 1.000 soggetti. L’arrivo di immigrati, in parte minore naturalizzati italiani e in possesso della cittadinanza, ha quindi concorso a mutare ulteriormente i rapporti tra i gruppi di appartenenza. Al riguardo si calcoli che, posto come termine indice l’inizio del 2019, con 60.359.546 abitanti l’Italia è attualmente il terzo paese dell’Unione europea per popolazione (dopo la Germania e la Francia, calcolando l’uscita del Regno Unito).

La distribuzione della medesima ha caratteristiche specifiche: metà di essa vive in zone pianeggianti e il 40% in aree collinari; l’indice di vecchiaia è pari al 161,4 (ovvero: siamo una nazione anziana), con un basso tasso di fecondità (1,34), una speranza di vita media di circa 83 anni. Circa 4.200mila nostri connazionali conservano la cittadinanza italiana pur vivendo stabilmente all’estero. All’inizio del 2019, secondo le rilevazioni Istat, gli immigrati in Italia erano 5.255.503 unità (8,7% della popolazione residente) oltre a mezzo milioni di irregolari e clandestini. A tutt’oggi le comunità straniere di maggiore rilievo sono quella romena (1.206.938 residenti, perlopiù ortodossi, ed in misura di molto minore cattolici e musulmani, questi ultimi derivanti dalle famiglie radicatesi con la colonizzazione ottomana); quella albanese (441mila soggetti, cattolici, ortodossi e musulmani) e marocchina (423mila elementi, quasi tutti islamici). Gli ebrei italiani, tra iscritti alla comunità territoriale di appartenenza e non iscritti, sono valutati intorno ai 28.500 elementi (circa lo 0,05% della popolazione nazionale). Altre fonti si spingono a considerare – a seconda dei criteri del computo – in 45mila i soggetti qualificabili come ebrei, mentre le stime più prudenziali, che già abbiamo citato in precedenza, non si spingono oltre i 23mila. Rispetto alla composizione e alla distribuzione territoriale degli ebrei italiani va senz’altro registrato l’impatto delle leggi razziali, che concorsero stabilmente – anche dopo la loro abrogazione giuridica, fatto che non esauriva di certo i processi sociodemografici che avevano innescato – a depauperare numericamente le comunità medie e minori, come nel caso di Trieste (che dai 5.497 iscritti del 1901 passò prima ai 1.092 del 1965 e poi al 970 di dieci anni dopo), di Livorno (la sequenza storica, in questo caso, è di 2.636-596-870), di Torino (4.383-1.884-1.623), di Firenze (3.031-1.276-1.241), di Venezia (2.604-844-778), di Genova (1.415-1.036-728), di Ancona (1.671-316-350), di Napoli (826-432-325), di Bologna (823-228-236). La parte restante della popolazione ebraica distribuita nelle comunità minori, nei trent’anni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, è transitata ai soli 1.204 soggetti, di contro agli oltre 9mila del 1901.

Ad avvantaggiarsi stabilmente di questa complessa redistribuzione dell’ebraismo italiano sono state le due più grandi comunità peninsulari, quella di Roma e di Milano che, sempre nell’arco di tempo preso in considerazione (1901-1965-1975), sono passate rispettivamente da 7.838 e 3.273 elementi (nel 1901, a fronte di una popolazione ebraica in Italia di 43.128 soggetti), ai 12.928 e ai 8.488 individui (nel 1965, per 30.644 ebrei complessivi) e ai 14.500 e 9.500 nel 1975 (32.305 nell’insieme nazionale). Più che i soli numeri sono i valori proporzionali che segnalano il mutamento radicale della distribuzione delle presenze. Gli ebrei italiani vivono quasi esclusivamente in metà delle regioni italiane, con un tasso di urbanizzazione propendente alla quasi totalità dei casi. Un fatto, quest’ultimo, che sommato alla preponderante residenza nelle province a reddito alto o medio-alto – elemento che a tutt’oggi indica le asimmetrie rispetto al resto della popolazione italiana sul piano della distribuzione geografica -, insieme ad un tasso di minore dispersione territoriale, marca alcune differenze tra ebrei e non ebrei. In altre parole, al netto delle condizioni materiali, economiche e finanziarie, dei singoli così come delle famiglie – che spesso hanno invece seguito i trend dominanti nelle aree di appartenenza – la propensione all’unitarietà spaziale è maggiormente pronunciata, anche se i confronti tra una minoranza, composta da un numero contenuto di componenti, ed una maggioranza invece estremamente ampia, non si possono fare solo sui soli dati numerici: è infatti più facile che coloro che si sentono parte di un medesimo gruppo minoritario propendano a insediarsi stabilmente negli stessi luoghi (vuoi per la reciprocità culturale vuoi per i legami sociali che agevolano la vita e la professione), rispetto al resto della popolazione. In realtà, in una più generale valutazione della composizione storica degli ebrei italiani va tenuto in considerazione anche il fatto che la Penisola è stata a lungo terra d’immigrazione o di transito.

Se il nucleo originario dell’ebraismo italiano si costituì duemila anni fa come insieme di mercanti, viaggiatori e soprattutto prigionieri di guerra provenienti dalla Giudea e dai territori contigui, con il Medio Evo e l’Età moderna (1492-1788/1815) le correnti immigratorie hanno raccolto progressivamente flussi provenienti dal Mediterraneo, dall’Europa centro-settentrionale e dai Balcani, le tre aree maggiormente interessate dalle trasmigrazioni di gruppo. In genere, tali flussi erano caratterizzati sia dalla necessità di sfuggire alle periodiche ondate di persecuzioni antisemitiche, sia a fattori legati alle politiche di accoglienza degli Stati peninsulari così come alla ricerca di condizioni di vita migliori. Nel Novecento, la prima ragione di immigrazione in Italia è stata la fuga dai paesi che avevano adottato legislazioni e prassi di discriminazione e di emarginazione antigiudaiche. Nel complesso degli immigrati ebrei in Italia tra il 1920 e il 1944 quelli di origine tedesca e austriaca costituivano il 17,7%; quelli provenienti dalle nazioni dell’Europa centrale quasi il 48%, mentre molto più contenuto era il flusso dai paesi arabi, intorno al 5%, così come in un primo momento dalla Libia, ancora parte dell’«Impero». Dopo la Shoah, tra il 1945 e il 1954, l’immigrazione di lingua tedesca è stata del 5,4%, quella dall’Europa orientale del 15,7%, quella dalla Polonia e dall’Urss del 13,1% (non pochi dei quali sopravvissuti ai Lager), dalla Libia del 9,3%, dall’Egitto del 24% mentre dopo il 1955 è soprattutto il flusso italo-sefardita ad avere alimentato i passaggi e gli inserimenti di nuovi gruppi nelle comunità italiane, seguendo l’andamento delle politiche di espulsione dai paesi arabi praticate prima, durante e dopo la nascita d’Israele.

Nel complesso, le migrazioni ebraiche del secolo appena trascorso si sono caratterizzate molto per ragioni politiche, un po’ meno per questioni socioeconomiche. La qual cosa ha incentivato la mobilità e il definitivo trasferimento in Italia di interi nuclei familiari, di contro ad altrui flussi immigratori caratterizzati invece da indici di età e da criteri differenti, dove l’individualità del trasferimento è una variabile significativa, ossia ad alta incidenza nelle condotte. Non di meno, l’ingresso in Italia sia di ebrei sefarditi che aschenaziti è stato implicitamente filtrato da una già diffusa confidenza con il nostro Paese, vuoi per la pregressa conoscenza dei costumi e delle abitudini, quindi la familiarità con gli ambienti peninsulari, sia per il possesso già maturato della cittadinanza italiana.

Entrambi i gruppi si sono comunque dovuti confrontare con l’ossatura dell’ebraismo italiano, quella «tradizionalista», che sincretizzava e amalgamava aspetti dei ritualismi e dei culti dell’una e dell’altra componente con le inveterate tradizioni dell’antichissimo ceppo peninsulare, sviluppatesi nel corso del tempo con un elevato grado di autonomia. Al netto delle tendenze più recenti, sviluppatesi dagli anni Ottanta in poi, con un decremento demografico significativo, i processi di immigrazione hanno per buona parte del Novecento concorso a mitigare la già pronunciata propensione dell’ebraismo italiano a figliare di meno, con un conseguente incremento dell’età media e una riduzione della dimensione numerica. Una sorta di azione di riequilibrio delle dinamiche endogene di gruppo, alla quale, tuttavia, non è per nulla estraneo il radicamento nelle due maggiori comunità urbane, le quali hanno portato e poi impresso aspetti significativi della loro identità originaria all’ebraismo italiano nel suo insieme.

Più in generale, operando una valutazione storica che comprenda l’intera età moderna e quella contemporanea, un differenziale importante per le condotte della minoranza ebraica era l’obbligo, finché non fu abrogato dagli statuti di emancipazione e dalla liberalizzazione giuridica, di abitare nei ghetti. Le politiche di segregazione, tra il 1500 e il 1700, avevano consegnato l’ebraismo peninsulare a quelle aree urbane (a volte minori) dove erano stati edificati questi quartieri perimetrati. La caduta delle interdizioni si tradusse ben presto in una mobilità verso i centri maggiori: prima i capoluoghi periferici, poi quelli centrali di regione. Milano, dall’Ottocento in poi, è stata la città che maggiormente ha beneficiato di questi flussi. Al pari di altre migrazioni interne alla Penisola, il movente più importante, soprattutto dopo l’unificazione, in questo caso è stata la ricerca di una migliore condizione economica, sfruttando sia le competenze professionali, il grado di elevata alfabetizzazione che il costituirsi di reti di reciprocità e di solidarietà tra pari. Di fatto, l’accentuata urbanizzazione che attraversa tutto l’Ottocento e poi il Novecento italiano, parallela all’industrializzazione e alla riconfigurazione spaziale della presenza (e della composizione) della popolazione, è anteceduta dalle stesse condotte ebraiche, che sembrano anticipare tali dinamiche, soprattutto in virtù delle spinte esercitate nel campo dei commerci e del terzo settore. Con gli anni Sessanta e Settanta del secolo da poco trascorso, si è invece assistito ad una definitiva stabilizzazione della presenza territoriale ebraica: le comunità maggiori hanno capitalizzato – per così dire – gli effetti del progressivo ridimensionamento di quelle minori (le quali hanno storicamente costituito il serbatoio delle prime, venendo progressivamente “depauperate”, con la scelta di molte famiglie di trasferirsi nella città capoluogo di provincia o regione, a scapito dell’insediamento di origine).

Anche in questo caso si misura un differenziale importante tra le due maggiori comunità, poiché ancora a metà degli anni Sessanta solo poco meno del 30% degli ebrei milanesi era nato in città mentre a Roma la percentuale saliva ad oltre il 90%, in una dialettica tra autoctoni e allogeni estremanente diversificata a seconda degli insediamenti regionali presi in considerazione. Nel suo insieme, la composizione demografica dell’ebraismo italiano nel Novecento ha quindi subito diversi mutamenti. Sommariamente, possono essere così riepilogati: il crescente peso dell’ebraismo romano; la lievitante presenza di ebrei di origine straniera o extraterritoriale; il transito da un insediamento peninsulare nativo (nel 1901 l’80% della popolazione ebraica era nata in Italia) ad uno ibrido, solo negli ultimi decenni stemperato dal succedersi delle generazioni successive (nel 1975 il 30% era nato nei confini nazionali, il resto al di fuori di esso). L’asimmetrica composizione territoriale dell’ebraismo italiano ha effetti tangibili, misurabili ad oggi. La comunità di Roma ne è l’epicentro, avendo coltivato, nel corso dei secoli, abitudini e identità proprie, spesso non integralmente coincidenti con il resto delle altre aggregazioni ebraiche. La forte identificazione con l’area dell’ex ghetto (mantenuto in esistenza dallo Stato pontificio tra il 1555 e il 1870), nel piccolo rione Sant’Angelo, peraltro già risieduto da molti ebrei prima ancora della segregazione papalina; l’istituzione informale della «piazza», un vero e proprio spazio di socialità, di relazionalità e di scambio tra i frequentanti; la robusta identificazione con la città nel suo insieme ma anche una significativa omogenità sociale, quanto meno in origine, sono fattori che risultano ancora oggi decisivi nella comprensione delle dinamiche della comunità capitolina.

A Milano, l’assenza di un ghetto (con l’espulsione dai territori comunali degli ebrei) e la più recente ricostruzione della comunità urbana (con l’inizio dell’Ottocento), ha concorso a stratificarne la sua composizione sia in base ai tempi dell’immigrazione familiare sia sulla scorta del profilo socioeconomico d’origine. I centri gravitazionali dell’ebraismo milanese sono maggiormente diffusivi rispetto a quelli dell’ebraismo romano. Fattori che, nella loro singolarità, possono apparire come secondari ma che invece incidono a tutt’oggi nelle complesse relazioni, a volte anche conflittuali, che accompagnano il piccolo, tenace, variegato insediamento ebraico italiano. A prescindere accomunato – tuttavia – da due indici: la bassa natalità di buona parte d’esso e l’elevata età mediana.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.