Cultura
“Super ebrei”, una mostra sull’identità ebraica nel calcio

Storie di club, di tifosi e dei loro modi per combattere l’antisemitismo

Si può rispondere in diversi modi ai cori e agli episodi antisemiti negli stadi. E mentre da noi lo scorso 26 giugno al Viminale è stata firmata una Dichiarazione di intenti contro l’antisemitismo nel calcio, fuori dall’Italia assistiamo a reazioni che partono (anche) dai tifosi stessi. Movimenti che hanno preso forma negli anni proprio a seguito dei fenomeni di discriminazione. Parliamo dei sostenitori di club dalla storia profondamente ebraica quali l’Ajax di Amsterdam e il Tottenham di Londra.
Nonostante spesso non siano ebrei, da tempo i più accaniti supporter di queste squadre hanno assimilato una sedicente identità ebraica. Ma l’esibizione sugli spalti di bandiere israeliane e di stelle di David ha ben poco di religioso o di politico. Semplicemente, i tifosi hanno indossato questa maglia, è il caso di dirlo, per opporsi agli avversari che aggredivano la loro squadra con affronti antisemiti. Un fenomeno quanto mai vivo anche nei Paesi Bassi, dove pure l’insulto alle persone sulla base della loro razza e religione rientra tra i reati previsti dal codice penale. Tra gli episodi degli ultimi mesi, ricordiamo quello del maggio scorso, quando 154 tifosi della squadra AZ Alkmaar sono stati arrestati per avere intonato cori antisemiti in metropolitana. Stavano andando a vedere la propria squadra scontrarsi con l’Ajax in una partita del campionato olandese.

L’identificazione della squadra di Amsterdam con l’ebraismo deriverebbe dalla storia della città così come del suo club. Conosciuta nella prima metà del XX secolo come la Gerusalemme d’Occidente, la città olandese ospitava prima della seconda guerra mondiale qualcosa come 80.000 dei 140.000 ebrei presenti nei Paesi Bassi. La maggior parte di questi erano tifosi dell’Ajax, squadra che tra l’altro giocava in uno stadio non troppo distante dallo Jodenbuurt, il quartiere ebraico. Dopo la guerra la comunità in città si era ridotta del 75%, ma i tifosi dell’Ajax avevano comunque mantenuto l’identificazione con il mondo ebraico, sentimento rafforzato dalla presenza di allenatori e giocatori ebrei, soprattutto negli anni ’60 e ’70. Proprio in risposta ai rivali delle altre squadre e alle loro offese antisemite, i tifosi dell’Ajax si sono via via identificati con tutto ciò che (per loro) rappresenta la cultura ebraica. Fino ad autodefinirsi Superjoden, o Super Jews. Ben lungi dall’essere puramente folkloristica, la cosa non piacerebbe in realtà ai veri ebrei di Amsterdam, compresi quelli che pure tengono per l’Ajax. Pare, anzi, che questi non sopportino proprio i Super Jews. Vedere persone che si adornano dei simboli della propria cultura, ostentandoli con orgoglio, provocherebbe infatti in molti di loro confusione e risentimento. Queste emozioni contrastanti sono state indagate dieci anni fa dal documentario Superjews, firmato dalla regista ebrea Nirit Peled. Nata in Israele ma da tempo trasferitasi ad Amsterdam, la filmaker ha scandagliato attraverso interviste e filmati d’archivio i punti di vista sia dei tifosi sia degli ebrei cittadini, conducendo nel frattempo anche un percorso nella propria identità ebraica.

A distanza di dieci anni dal lavoro della Peled, oggi i Super Jews danno il titolo a un’altra indagine nell’intricato mondo dei club di calcio. Si tratta questa volta di una mostra, inaugurata il 12 luglio presso il Museo Ebraico di Vienna. Curata dalla direttrice Barbara Staudinger e da Agnes Meisinger, dell’Istituto di storia contemporanea dell’Università di Vienna, l’esposizione recita come sottotitolo “Identità ebraica negli stadi di calcio” e accosta la squadra di Amsterdam ad altri importanti club europei. Protagonisti ne sono i giocatori e i presidenti ebrei, ma soprattutto i tifosi. Accanto ai Superjoden dell’Ajax compaiono così i cosiddetti Partisan*Rothschild del Vienna e, soprattutto, gli Yid Army del Tottenham (il cui presidente Daniel Philip Levy è tra l’altro ebreo). Nel caso della gloriosa società inglese, l’identificazione dei suoi sostenitori con il mondo ebraico sarebbe vista più di buon occhio dagli stessi ebrei. L’unica riserva deriverebbe semmai dal timore di provocare la violenza dei tifosi avversari. Quando però l’anno scorso la dirigenza del club ha chiesto di eliminare l’espressione Yid Army da striscioni e cori per non alimentare l’antisemitismo dentro e fuori gli stadi, i tifosi hanno continuato imperterriti a esporre simboli e a urlare slogan a tema ebraico. Con la benedizione di Shaul Behr, rabbino ortodosso tifosissimo degli Spurs, che su The Independent ricordava che non era il termine in sé a essere offensivo, ma il contesto in cui lo si usava.

Nel tentativo di capire che cosa renda ebraico un club, se i suoi funzionari e giocatori o la risposta dei suoi tifosi all’antisemitismo degli avversari, la mostra viennese approfondisce la storia di altre squadre dal retroterra fortemente jewish. Tornando indietro di oltre un secolo, ad esempio, ricorda che l’SC Hakoah Wien, società fondata nel 1909 di orientamento sionista, ha scritto pagine importanti nella storia del calcio viennese tra le due guerre, vincendo il primo campionato di calcio professionistico in Austria nel 1925. Parla poi del più antico club austriaco, il First Vienna 1894 FC, fondato nel 1894 grazie al sostegno di Nathaniel Mayer Freiherr von Rothschild. Il nipote del fondatore della dinastia bancaria avrebbe portato il gioco del pallone dalla Gran Bretagna e la squadra dovrebbe a lui anche i colori blu e giallo. Oggi il club non naviga più in ottime acque, ma la sua memoria ebraica è tenuta in vita dai tifosi riuniti sotto il nome di “Partisan*Rothschild”.
Chi invece è sempre sulla breccia è il FC Bayern München AG. La squadra con il più alto numero di affiliati al mondo difende e diffonde la sua storia ebraica, forte soprattutto della figura del suo leggendario presidente, l’ebreo Kurt Landauer. Il dirigente, entrato in squadra a inizio Novecento come giocatore, nel 1932 aveva portato la squadra alla prima di una lunga serie di vittorie nel campionato tedesco. Dimessosi nel 1933 con l’ascesa di Hitler, era stato internato a Dachau per poi fuggire nel 1939 in Svizzera. Tornato presidente del Bayern nel 1947, aveva trovato non solo nuove giovani e talentuose leve per la squadra ma anche una nuova sede per il club. La stessa in Säbener Strasse che ancora oggi accoglie l’FC Bayern. Da quando la sua storia è stata riscoperta e resa popolare grazie agli studi e alle pubblicazioni dello storico tedesco Dietrich Schulze-Marmeling, molte cose sono state fatte per ricordare Landauer, da una mostra permanente a un torneo contro il razzismo a lui dedicati. La stessa piazza davanti allo stadio Kurt-Landauer-Platz ha preso il suo nome, mentre i tifosi hanno creato la Fondazione Kurt Landauer per promuovere progetti legati al suo ricordo e alla storia del club. Tra queste iniziative, una statua di Landauer nella sede del club che dal maggio 2019 controlla gli allenamenti in campo.

Concludendo questa carrellata dedicata alla storia ebraica dei club europei, è doveroso citare una squadra che non rientra dei magnifici cinque trattati dal museo ebraico viennese ma che in compenso è vicina a molti italiani. Tanto più dopo il recente scudetto. Parliamo ovviamente del Napoli, la cui fondazione nel 1926 si deve a un imprenditore ebreo, Giorgio Ascarelli. Primo presidente dell’Associazione Sportiva Calcio Napoli, l’industriale tessile aveva reso competitiva la squadra in ambito nazionale fin dalla stagione 1928-29. Quello stesso anno aveva fatto costruire uno stadio presso il Rione Luzzatti, a proprie spese e senza neppure farselo intestare. Morto a 36 anni appena 17 giorni dopo l’inaugurazione dello Stadio Vesuvio, Ascarelli sarebbe rimasto nel cuore di tantissimi tifosi. Lo stesso non si può dire delle istituzioni. Sotto il fascismo quello che per tutti era lo Stadio Ascarelli era stato rinominato Stadio Partenopeo per finire poi distrutto dai bombardamenti. In tempi più recenti, nel 2018 si era detto di dedicare al mecenate ebreo il piazzale davanti allo Stadio Diego Armando Maradona, al momento intitolato a Francesco Tecchio, ex gerarca fascista. Promossa dall’allora sindaco Luigi de Magistris, la proposta era rimasta in stallo per due anni per poi finire bloccata dalla Commissione Toponomastica. Ora pare che l’idea sia stata ripresa dal nuovo primo cittadino, Gaetano Manfredi, che a inizio giugno ha dichiarato di voler riaprire la pratica. Staremo a vedere…

Super ebrei. Identità ebraica nello stadio di calcio
Jewish Museum Vienna – Museo Dorotheergasse, fino al 14 gennaio 2024

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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