Cultura
Tiferet: una teoria della bellezza nel pensiero ebraico

Il termine ebraico più intenso e pregnante per esprimere il complesso concetto ebraico della bellezza è tiferet perché armonizza gli opposti e porta equilibrio tra valori diversi

La prossima giornata europea della cultura ebraica (10 settembre) ha come tema la bellezza. Idea geniale o mera provocazione? In quanto tale la bellezza non è un valore ebraico, qualcuno potrebbe subito obiettare. O meglio, è un valore subordinato ad altri, e certamente va in secondo piano rispetto alla sfera dell’etica e all’ambito dello studio della Torà. Un vecchio detto yiddish ricorda che, nel mondo futuro, quanti hanno coltivato la bellezza serviranno da sgabello ai piedi di quanti hanno coltivato la sapienza… eloquente icona di gerarchia valoriale. Inoltre il disprezzo per l’estetica, nel senso moderno del termine, è palese in molta aneddotica rabbinica. Nel Talmud Bavli, trattato Shabbat 33b, rabbi Jehudà ben Ilaj e Shim‘on bar Yochai hanno una vivace discussione. Esclama il primo: “Come sono belle le opere fatte dai romani! Hanno costruito strade e mercati, eretto ponti e allestito magnifici bagni pubblici”. La replica di Shim‘on bar Yochai non può essere più dura: “Hanno fatto strade e mercati per metterci prostitute, i ponti per riscuotere onerosi pedaggi e i bagni per deliziare i loro corpi nell’ozio”. Il bello è concetto relativo e soggettivo, invece ciò che e buono (chesed) e giusto (din) è comandato dalla Torà e si riflette negli stessi attributi divini, assoluti e oggettivi. Non dice il senso comune che il bello è nell’occhio di chi guarda? Iddio benedetto non guarda le apparenze ma il cuore, guarda cioè se le intenzioni, e le azioni che conseguono, sono buone e sincere. Come contraddire?

E tuttavia, questa è solo una parte della grande messaggio delle fonti biblico-rabbiniche, e scavando un po’ anche la bellezza emerge come un valore della tradizione ebraica, mostrandosi addirittura come una delle più alte manifestazioni o attributi del Divino. Il termine ebraico più intenso e pregnante per esprimere il complesso concetto ebraico della bellezza è tiferet, non a caso il nome della sesta delle dieci sefirot. L’ebraico moderno si accontenta di poco (yofi, yafè/à) ma nella lingua del Tanakh e in genere nelle fonti antiche, specie quelle qabbalistiche, è il termine tiferet a coprire la vasta semantica dell’estetica ebraica. La sua radice pe-alef-resh indica ‘ornamento’ ma anche ‘gloria’ e ‘magnificenza’, con le relative forme verbali di cui è piena la liturgia sinagogale (a partire dal qaddish). Lo studioso ottocentesco Adolphe Franck, nella sua opera sulla Qabbalà come filosogia religiosa degli ebrei, nel descrivere le sefirot afferma che “tiferet o bellezza è considerata espressione e risultato di tutte le qualità morali o come la somma del bene”. La sua posizione centrale nell’albero sefirotico la rende uno snodo strutturale di tutte le emanazioni divine e permette a tiferet di caricarsi, per associazioni, di una ricca simbologia che rende la bellezza un ‘valore’ inseparabile da tutti gli altri, e persino rivelatore e catalizzatore di tutti gli altri. Anzitutto questa sesta sefirà che è connessa, tramite “canali spirituali”, a tutte le altre sefirot (ad eccezione di malkut); è posizionata sull’asse centrale, e sopra di essa c’è solo la sefirà più alta, ossia keter/corona, mentre sotto c’è yesod/fondamento e, infine, in contatto con questo mondo, malkhut/regno; ma la sua posizione la rende un naturale punto intermedio tra le due sefirot laterali, chesed/pietà e ghevurà/forza, ritenute da tutta la teologia rabbinica due forze contrapposte che, se prese isolatamente, distruggerebbero il mondo… Ma qual è il loro punto di incontro, di mediazione e di bilaciamento? Tiferet! La sesta sefirà, sesta come la lettera ebraica waw, che funge da gancio e conessione con tutte le altre.

Tiferet esprime dunque bellezza perché armonizza gli opposti, porta equilibrio tra valori diversi che, se isolati e non comunicanti, azzererebbero l’esistenza del mondo. La bellezza è equilibrio anche per i rabbini, e dico ‘anche’ perché tutta la tradizione filosofica – a partire da Aristotele nella Poetica – parla della bellezza come del comporsi di parti ben proporzionate, come di armonia e adeguatezza dei diversi elementi che concorrono a un tutto. L’idea verrà rielaborata da Tommaso d’Aquino e proprio sull’estetica dell’Aquinate il semiologo Umberto Eco (autore di una Storia della bellezza) scriverà la sua tesi di laurea, che gli aprì le porte ai fascinosi meandri del pensiero medievale. Non dimentichiamo che la qabbalà, specie quella teurgica impernita sulla dottrina delle sefirot, nasce in quel secolo e ne condivide, almeno in parte, i valori estetici e morali, a quel tempo inscindibili. Ma torniamo a tiferet, ‘cuore’ dell’adam qadmon o uomo primordiale schematizzato nelle dieci emanazioni e segreto della sua majestas. Essa è associata direttamente al Nome tetragrammato, che veicola l’attributo di rachamim ossia misericordia, nel quale chesed e ghevurà si armonizzano e risplendono come i sole, l’astro cui tiferet è associato. Altre due associazioni sono: Giacobbe, il terzo patriarca, che è la sintesi di Abramo (chesed/gedullà) e Isacco (ghevurà/din) e dal quale vengono le dodici tribù di Israele; ma anche Mosè, colui che vede la gloria (kavod) divina al momento del dono della Torà. In tiferet, suggeriscono queste associazioni mistiche, Israele e il Santo benedetto e la Sua Torà sono uno. Il qabbalista Yoseph ben Shalom Ashkenazi, vissuto probabilmente a cavallo tra XIII e XIV secolo viaggiando tra Spagna e Polonia, in un commento al Sefer yetzirà raffigura graficamente la sefirà di tiferet come “centro di destini di vita e di morte”, associata al Nome tetragrammato e al sole, dove in cerchi concentrici sono disposti i nomi delle dodici tribù di Israele, i mesi dell’anno e le costellazioni dello zodiaco nonché gli aspetti positivi e negativi dell’esistenza umana (si consulti Giulio Busi, Qabbalah visiva). Tiferet/bellezza è il nome della vita, semplicemente, nel suo complicato intreccio di cose buone o meno buone (per noi), di gioie e di dolori, di prove e di soddisfazioni, tenute insieme da una specie di “spina dorsale” che è, per i mistici ebrei del medioevo, un altro modo di chiamare tiferet, in quanto asse centrale dell’adam qadmon e bivio da cui dipartono e in cui si incrociano tutte le dimensioni dell’universo come emanazione divina.

Nel Sefer ha-zohar (III,255a) v’è un’eco del sopramenzionato zodiaco, la cui simbologia è condivisa da tutte le culture mediorientali e mediterranee, e che entrò anche nella concezione cosmologica del giudaismo rabbinico. Leggiamo: “Chesed è acqua, ghevurà è fuoco e tiferet è aria”. Ancora una volta, tiferet fa da mediazione tra gli opposti elementi naturali, l’acqua e il fuoco, attraverso quell’aria di cui entrambi hanno bisogno per esistere nella loro specificità e che, equilibrandoli, li separa e li trattiene cioè li frena nella loro potenziale distruttività. E questo avviene in forza del numero sei, che è pienezza nella distinzione – come la creazione che fu compiuta per separazione in sei giorni – e che è il doppio del numero tre (nel sistema degli antichi zodiaci, i segni doppi di gemelli e bilancia sono sempre associati all’aria). Tiferet è la sesta sefirà, come la lettera waw nell’alef-beth, in quanto doppio di tre, numero che esprime a sua volta la perfezione (tre parti del Tanakh, tre parti di Israele [kohanim, leviim, Israel], Mosè è terzogenito, tre sono le sefirot alte separate da quelle basse…). Dunque sei/tiferet è perfezione al quadrato, è piena armonia nel rispetto delle proporzioni e delle alterità. Qualcuno può ancora dubitare che esista una “teoria della bellezza” nel giudaismo? Studiare per credere.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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