Cultura
Iconografia della “belle juive”, tra stereotipi e speranze

La rappresentazione della donna ebrea nell’arte. Un viaggio in vista della Giornata Europea della Cultura Ebraica (il 10 settembre) dedicata alla bellezza in tutte le sue declinazioni

È ormai risaputo che l’ebraismo è una religione dell’orecchio più che dell’occhio; ci parla di un Dio invisibile che dà importanza alle parole ascoltate, più che a quello che viene visto. Da qui una generale avversione verso l’arte figurativa, proibita nelle sinagoghe e in generale non particolarmente praticata. Se i greci e i cristiani credevano alla santità della bellezza (“verità è bellezza, bellezza è verità, questo è tutto” così commentava i canoni etici del mondo antico il poeta Keats) gli ebrei da sempre hanno dato peso alla bellezza della santità. Quando nella Bibbia si allude all’aspetto esteriore avvenente è per esaltare le qualità morali interiori di un personaggio. Un esempio sono le madri di Israele – Abramo deve nascondere Sara, la giusta, per impedire che la sua presenza scateni reazioni pericolose negli egiziani,  o Rebecca, la cui verginità e sensualità rimandano tuttavia a tratti di modestia virtuosa. L’apparenza è quasi sempre legata a un insegnamento morale, a una lezione di saggezza, più che a un mero fatto estetico o alla vanità fine a se stessa. Ma come hanno visto invece i pittori non ebrei il mondo ebraico, soprattutto quello femminile? In effetti ci sono tante versioni e tanti sguardi, dalle ignobili raffigurazioni antisemite nelle chiese dove i perfidi giudei sono ritratti come demoni, flagellatori e traditori di Cristo alle magnifiche rappresentazione delle vicende bibliche nei quadri di Rembrandt, pieni di luce e umanità; dai personaggi epici e i profeti che portano un alone di leggenda già nel Rinascimento alle figure di donne pietose angeliche al seguito della madre di Gesù, Maria.

Il concetto di una specifica “bellezza ebraica”, legata all’oriente, si affaccia nella pittura di artisti non ebrei soprattutto durante il romanticismo in Francia, e si incarna in un archetipo denominato  “la belle juive”, simbolo che dovrebbe esprimere una forte femminilità, ma che è anche il risultato delle tensioni, del contrasto tra un razzismo endemico e un filosemitismo ambiguo. Il filosofo Jean Paul Sartre riesce a cogliere molto bene questa ambivalenza. “Nell’espressione “bellezza ebraica””, scrive, “c’è un’allusione alla sessualità che non troviamo quando parliamo ad esempio di “bellezza greca” o rumena o americana. Questa frase porta con sé l’aura dello stupro e del massacro. La bellezza ebraica è colei che i cosacchi sotto lo zar trascinavano per i capelli per le strade di villaggi in fiamme”.

Per associazione mi torna in mente una scena del film “Schindler’s List”, quella in cui il nazista Amon Goth va a visitare nella cantina dove la tiene prigioniera la sua serva Helen Hirsch, da cui è chiaramente attratto. Prima le rivolge parole lusinghiere, parafrasando Shakespeare (“vi paragonano a dei ratti ma è questa la faccia di un ratto?”), poi, quando sta per baciare la poveretta terrorizzata la respinge, accusandola di aver prodotto una specie di malia, di fascinazione che solo le donne ebree sanno esercitare così bene per ingannare gli ariani e la schiaffeggia fino a farla svenire. Questa attrazione-repulsione è alla base dello stereotipo sopra citato, in continua oscillazione tra provocazione e languore: in ogni caso, “la belle juive” richiama l’Altro, l’ignoto, il mistero, attraente ma pur sempre diverso. È piuttosto curioso che il mito nasca in Francia, il primo paese europeo a offrire ai cittadini ebrei piena cittadinanza garantendo loro visibilità nella società. In un certo senso la creazione del personaggio risente di questa emancipazione ma anche dell’influenza orientalista che proviene dalle imprese coloniali più recenti, soprattutto dopo l’invasione dell’Algeria nel 1830, che accendono in patria fantasie e proiezioni erotiche, sogni di seduzione e desiderio di conquista. Si arriva addirittura a considerare gli ebrei maschi una cosa a sé e la bella ebrea un’altra. I primi sono malvagi, responsabili della morte di Cristo, la seconda è colei che ha deterso le sue ferite sulla croce. Si cerca cioè di assimilarla, o comunque di distinguerla.

La figura diventa complessa nel romanzo “Ivanhoe” di Walter Scott, dove Rebecca, figlia di Isaac di York, viene descritta come dedita alle arti magiche, sensuale ed esotico “fiore di Palestina”.  Il romanzo, tradotto anche in Francia e Germania, genererà una moda e una corrente estetica che ritroviamo sintetizzata nel personaggio di Salomè, conturbante e assetata di sangue, fino a chiedere su un piatto la testa di Giovanni Battista. Diventa la tentatrice, la provocante femme fatale, pericolosa sia perché ebrea sia perché donna. L’attrice Sarah Bernhardt colse perfettamente questa dicotomia e la restituì nelle sue interpretazioni più famose, proprio quella di Salomè, oppure Margerite Gautier della Dame aut camelias. La malata di tubercolosi, seducente anche qua sta per morire, si distanzia alquanto dalla raffigurazione antisemita degli ebrei untori dalla pelle giallastra, segno della loro degenerazione, e acquista grazie a lei una luce nuova sul palcoscenico, da eroina protagonista. Ruoli forti, che valsero all’attrice la fama di essere “maschile” e che contribuirono a modernizzare l’iconografia statica della “belle juive”, facendola uscire dalla mera passiva attrazione orientale, aprendo la porta a quell’immaginario che vedrà nel Novecento protagoniste del teatro della Storia le combattenti appassionate come Rosa Luxembourg, decise a cambiare il mondo e a combattere l’ingiustizia e la diseguaglianza.

Nel dopoguerra la donna ebrea acquista potere e personalità a scapito dell’erotismo, reclama contenuti e voce per comunicarli. Nel mondo della cultura pop americana diventa ad esempio “The nanny”, l’esuberante personaggio dai fluenti capelli corvini interpretato da Fran Drescher, una specie di caricatura esotica del mondo orientale e ashkenazita, provocante ma dotata di una sua personalità eccentrica e determinata  Un esempio perfetto di trasformazione in corso dell’archetipo è la parabola di Miriam Maisel la protagonista di The Marvelous Mrs Maisel: da brava moglie e madre ebrea quasi biblica, perfettina e vestita in modo ineccepibile, apre gli occhi quando il marito la tradisce e si trasforma in una stand up comedian alla Lenny Bruce, sfidando i confini del genere e svelando verità scomode. La serie è ambientata negli anni cinquanta e la protagonista ricorda in qualche modo la Sarah Bernhardt di cui parlavamo prima, una sorta di femminista ante-litteram in un mondo dove le sue battute taglienti a volte provocano ilarità altre volte fastidio (viene infatti arrestata due volte, segno che una donna bella, ebrea e pensante, che parla in modo spontaneo, dà alquanto fastidio). L’immagine della “belle juive” riappare quindi sotto vesti e forme diverse nel corso del tempo e in contesti distinti, ma  rappresenta sempre le tensioni della società che accompagnano l’associazione ebraismo e femminile, a volte incarnandole a volte combattendole. Forse arriverà il momento in cui una donna ebrea potrà essere semplicemente se stessa, senza etichette o aggettivi ghettizzanti, e rivendicare solo un’identità propria, una dimensione umana scevra da proiezioni vincolanti di chi ne teme il potere.

Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.