Un’analisi tra i complessi eventi della storia e la teologia rabbinica
Nel calendario liturgico/religioso del giudaismo, l’infausto giorno di Tishà beAv (il 9 del mese di Av) è giornata di lutto e digiuno, da sera a sera, e ci si astiene da gioie che sono permesse il resto dell’anno (tranne a Kippur, che è l’altro grande giorno di digiuno e di astensione dai piaceri). Il senso di questa tristissima ricorrenza è descritto già nella Mishnà, trattato Ta‘anit 4,6: “Cinque eventi accaddero il 9 di Av: fu decretato che i nostri padri non entrassero nella terra di Israele [per colpa degli esploratori che l’avavano denigrata]; fu distrutto il Tempio, una prima volta [da parte dei babilonesi] e una seconda volta [da parte dei romani]; fu conquistata Betàr [all’epoca di Bar Kochbà nel 135 e.c.]; fu arara la città di Gerusalemme [metafora della sua distruzione per volontà di Adriano]”. Nel corso dei secoli, altre tragedie vennero fatte coincidere con questa data fatale (dal gerush Sfarad alla nascita di Shabbetay Zvi…), e assommate nel lutto collettivo di Israele. Ma la memoria principale restò sempre la doppia distruzione del Tempio, per la quale si cercarono cause teologiche ben riassunte dalla tradizione nella formula mipnè chattaenu, ossia “a motivo dei nostri peccati”. A motivo delle trasgressioni alla Legge, Israele è stata punito ed esiliato dalla sua terra. Il lutto di Tishà beAv è connesso dunque all’esilio, alla dispersione dei figli e delle figlie di Israele in mezzo alle altre nazioni (goyim).
Nondimeno, questa giornata – di istituzione rabbinica – ricorda eventi storici ben precisi, e pure drammaticamente complessi, connessi alla perdita dell’autonomia politica, in senso lato, di Israele, simbolicamente espressa dalla distruzione del Tempio. Ora, si potrebbe pensare che, dopo la fondazione dello stato di Israele, tale ricorrenza avrebbe potuto essere abolita; invece non lo è stata, dato che il suo significato ha assunto una valenza religiosa più grande della stessa sfera politica e si è esteso appunto alla condizione esilica, o, se si preferisce, alla storia pre-messianica. Enfatizzando però la dimensione religiosa, di solito la complessità storica si sfoca, anzi è rimossa o posta su uno sfondo raramente ponderato. Eppure, come per la festa di Chanukkà, il contesto storico del 9 di Av non è meno illuminante dei significati teologici di cui quel giorno è stato caricato.
La Mishnà accosta la distruzione del 70 da parte romana alla conquista di Betàr, del 135. Focalizziamoci un momento su quell’intricatissimo periodo intercorso, che vide la Giudea prostrata e le comunità ebraiche della diaspora allenistica (ad ovest: Alessandria, Cirene, Antiochia, Cipro… più ancora di quelle ad est: Siria, Armenia e Babilonia) esterrefatte e, possiamo ipotizzare, piene di sensi di colpa per non aver fatto nulla per impedire lo scempio. Con Domiziano si chiude la dinastia dei Flavii, così deleteria per il mondo ebraico; il nuovo imperatore Nerva cambia politica e abolisce l’onerossimo fiscus judaicus, l’odiosa tassa richiesta ai soli ebrei dai Flavii; dopo Nerva, ecco Traiano – impegnato militarmente in Mesopotamia, che vuole captare il consenso delle locali comunità ebraiche… e promette che avrebbe permesso la ricostruzione del Tempio. Addirittura viene progettata una nuova strada dalla Siria alla Giudea, per facilitare il ritorno degli esiliati della rivolta del 66-73! Dunque, a pochi decenni dalla tragedia, la diaspora ebraica (ellenizzata) vede un’occasione d’oro per “riparare i danni”, e magari sollevarsi dai sensi di colpa. Ma ecco che, quasi all’improvviso, Traiano – famoso per aver deificato con le tradizionali apoteosi romane sia la sorella sia il padre – fa erigere statue ai nuovi dèi romani proprio in Gerusalemme, ripetendo il gesto che fu di Antioco IV Epifane quasi tre secoli prima. E gli ebrei non sono secondi a nessuno quanto a memoria. L’illusione dell’imperatore illuminato, e rispettoso delle leggi ebraiche, si infrange; il sogno della ricostruzione del Tempio si capovolge nell’incubo di una nuova repressione antiebraica, che avviene: minore rispetto alle altre due, ma vi fu una “rivolta giudaica” anche sotto Traiano…
Ora, è in quel periodo che maturano le ‘politiche ebraiche’ in rapporto al tema della distruzione del Tempio, e che in modo sommario (chiedo venia, sono consapevole dell’iper-semplificazione, ma è un po’ inevitabile) sono così descrivibili. Un primo gruppo era determinato a combattere per la rivincita, se non militare almeno politica: sono gli esuli che vogliono rientrare in Giudea (più che gli ellenizzati, inclini a un compromesso con l’impero romano); chi vuole la rivincita scommette sulla svolta filoebraica di Traiano; ma fallita la svolta, andrà ad alimentare la rivolta del 132 sostenendo Bar Kochbà. Un secondo gruppo, che nel mondo ebraico si tende a ignorare, è quello del giudeo-cristiani, che avanzavano una loro peculiare interpretazione della tragedia del 70: il tempio gerosolimitano è stato distrutto perché era sorto un altro tempio – nella persona del loro messia – che aveva espiato tutto per tutti, e quindi non serviva più ricostuire materialmente quel che i romani avevano demolito. Tra chi voleva ricostruire subito (gli esiliati, molti ebrei ellenizzati) e chi vi rinunciava per sempre (gli ebrei, specie diasporici, ormai cristianizzati), ecco il terzo gruppo – quello rabbinico, che delineò una politica spirituale, ispirata sì alla tesi “a motivo dei nostri peccatui” per la perdita del Tempio, ma anche a pratiche del lutto finalizzate a tener desta l’attesa messianica e la fine del castigo – ossia dell’esilio – da parte di Iddio benedetto.
Ecco il background e il nucleo religioso di Tishà beAv, che entra nella prassi liturgica rabbinica come vera e propria policy teologico-politica: l’attesa della redenzione, della fine dell’esilio, riempita con lo studio della Torà e l’osservanza di tutti i precetti, ad esclusione di quelli che riguardano i riti templari (che tuttavia vanno continuamente ricordati e studiati; Maimonide docet nel suo Mishnè Torà). La figura di rabbi ‘Aqivà fa un po’ da ponte tra il primo e il terzo gruppo: da un lato concede autorevole riconoscimento alle speranze di rivincita militare contro i romani, incarnate da Bar Kochbà; ma dall’altra si fa difensore della linea rabbinica di resistenza spirituale tramite l’attaccamento alle mitzwot, come le aggadot talmudiche sul suo martirio attestano in modo esemplare. In frangenti così delicati e complessi, non era facile scegliere, per così dire, a quale gruppo appartenere.
Tishà beAv segna l’emergere, dopo il 135 (come codificato dalla Mishnà), dell’unica via ormai ebraicamente praticabile: il lutto religioso vissuto nel digiuno e nell’astensione dai piaceri mondani; il posticipo di una speranza di riscatto a tempi che diventano un segreto divino (cioè la fine dell’esilio, che è vietato calcolare); un dibattito aperto sulla redenzione stessa, se verrà a seguito di uno sforzo umano o per un intervento miracoloso del Signore… Tale elaborazione, di cui Tishà beAv è parte, esprime davvero la quintessenza dell’esilio ebraico (fino ad oggi, nonostante lo stato di Israele). Come spiega il rabbino conservative Robert Gordis (1908-1992): “Tishà beAv assolve bene la sua funzione anche per gli ebrei del XX secolo e in presenza dello stato di Israele. Infatti, mantiene alta la tensione per i compiti connessi a una rinascita religiosa del giudaismo e alla dimensione etica della vita ebraica, sia nello stato di Israele sia in diaspora; contribuisce all’attenzione dovuta agli aspetti universali della speranza messianica, che sono sempre stati parte integrante del giudaismo; e infine ricorda agli ebrei la lunga storia di sacrifici e sofferenze delle generazioni passate, impedendo lo sperpero, anzi la ‘degenerazione culturale’ che deriverebbe dall’ignorare quel che è stato compiuto nei secoli dell’esilio, della diaspora”.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma