Hebraica
Un seder a Benè Berak

Di quel banchetto si parla nella Haggadà, quasi un seder dentro il seder… analisi di un brano tra i più affascinanti e misteriosi da leggere a Pesach

Accadde un tempo che rabbi Eliezer, rabbi Yehoshua, rabbi Elazar ben Azarià, rabbi Aqiva e rabbi Tarfon fossero riuniti a banchetto a Benè Berak e si intrattenessero a parlare dell’uscita dall’Egitto per tutta la notte, finché giunsero i discepoli e dissero loro: “Maestri, è l’ora della lettura dello Shemà del mattino!”.

Questo brano è tra i più affascinanti e misteriosi inclusi nella Haggadà, il complesso testo che scandisce il seder di Pesach, in cui compare poco dopo l’inizio del Magghid, la vera e propria narrazione dell’uscita dall’Egitto. Che cosa significa? Chi sono i rabbini di cui parla? E soprattutto, perché è compreso nella Haggadà?

Va detto subito che non siamo in grado di rispondere completamente a queste domande. Sappiamo che la Haggadà è stata redatta in epoca gaonica (VIII-IX secolo e.v.) ma non disponiamo di informazioni sulla sua composizione e sul suo autore o autori. È probabile che alcuni materiali compresi nel testo siano precedenti, forse anche di parecchi secoli, senza considerare i versetti biblici citati che certamente lo sono. Ma appunto non sappiamo nulla del processo compositivo, che potrebbe aver compreso anche numerose redazioni e dunque interventi successivi. I cinque rabbini citati sono invece protagonisti ben noti di tanti passi della letteratura rabbinica classica. Quando si tratta di ricostruire il pensiero dei singoli maestri del Talmud e del midrash, però, gli studiosi sono estremamente cauti poiché le medesime opinioni vengono spesso attribuite a personaggi diversi, i quali sembrano svolgere dunque la funzione di semplici portavoce. D’altra parte l’idea di riconoscere a personaggi (storici, almeno fino a prova contraria) un pensiero coerente non rientra certamente tra gli obiettivi fondamentali della letteratura rabbinica.

Tanto per cominciare, il brano sembra contenere un modello in miniatura del seder di Pesach come in un gioco di arte nell’arte. Dentro il testo che sancisce e organizza il seder nei suoi diversi momenti, in altre parole, abbiamo la raffigurazione di un piccolo seder. È possibile che gli autori della Haggadà abbiano incluso il brano per dare una eziologia del seder, cioè comprendere all’interno del seder la spiegazione della sua origine visto che gli autorevolissimi rabbini citati vanno collocati nel contesto storico del II secolo e.v., un periodo di grande trasformazione interna alla civiltà ebraica. Altrettanto interessante è provare a mettere in relazione la pericope con i brani precedenti e seguenti all’interno della Haggadà. Subito prima della storia dei cinque rabbini troviamo il brano che comincia con le parole Avadim hainu, “eravamo schiavi”, che in poche parole riassume il movimento dell’esodo e la responsabilità di narrarlo e rinarrarlo ogni anno “anche se fossimo tutti saggi, intelligenti ed esperti di Torà”. Per rav Haim F. Cipriani, Avadim hainu è un piccolo Magghid conciso e completo che verrà poi sviluppato nelle pagine che seguono. Un concentrato di senso all’interno del Magghid di cui l’intero Magghid costituisce dunque l’espansione. Ancora una volta, dunque, il motivo letterario dell’arte nell’arte, o se si preferisce della matrioska in cui ogni bambolina di legno ne contiene un’altra dalle stesse fattezze ma più piccola. Avadim hainu termina sottolineando che “chi abbonda nel narrare l’uscita dall’Egitto, costui è degno di lode”. In stretta continuità, abbiamo a questo punto la storia di Benè Berak, cioè un caso esemplare in cui alcuni celebri “esperti di Torà” si dilungano al punto da non accorgersi che la notte è tutta trascorsa e sta sorgendo il nuovo sole. Allarghiamo ancora lo sguardo. Se consideriamo globalmente la questione posta all’inizio del Magghid, subito prima di Avadim hainu – Ma nishtanà: “Perché questa sera è diversa da tutte le altre sere?” – e le domande dei quattro figli che seguono da presso l’episodio di Benè Berak, troviamo in tutto cinque voci sulla storia dell’uscita dall’Egitto. Cinque punti di vista che interrogano proprio come cinque sono i rabbini riuniti nella notte.

Proviamo a questo punto a guardare al testo con occhio storico. Innanzitutto l’episodio di Benè Berak che abbiamo citato all’inizio non è completo. Nella Haggadà continua con uno dei cinque che prende la parola:

Disse rabbi Elazar ben Azarià: “Ho quasi settant’anni, ma non ebbi il merito di sapere che dalla Torà si desume il dovere di trattare dell’uscita dall’Egitto di notte, finché Ben Zomà non interpretò il versetto ‘Affinché tu ricordi il giorno della tua uscita dalla terra d’Egitto tutti i giorni della tua vita’. ‘I giorni della tua vita’ sono i giorni, ‘tutti i giorni della tua vita’ sono le notti. Ma i maestri dicono: ‘I giorni della tua vita’ è questo mondo, ‘tutti i giorni della tua vita’ allude all’era messianica”.

Mentre la prima parte con il seder dei cinque rabbini non compare in alcun luogo della letteratura ebraica di epoca tardoantica – ma solo in testi tardi che prendono come riferimento la Haggadà -, questa seconda parte è tratta dalla Mishnà. Poiché il periodo della composizione della Mishnà è grossomodo il II secolo e.v., è plausibile che questa parte sia molto più antica della prima. Però i cinque protagonisti dell’incontro notturno a Benè Berak si collocano storicamente nello stesso II secolo. Un bel rompicapo.

Dal momento che i cinque maestri sono vissuti al tempo dell’imperatore Adriano e della seconda rivolta giudaica contro i romani, culminata nel 135 e.v. con la piena sconfitta e Gerusalemme rasa al suolo, lo studioso Meir Ydit collega il brano della Haggadà al contesto della rivolta, interpretando l’incontro notturno come una cospirazione clandestina. L’ultima frase con il suo riferimento all’alba che segue alla notte – “Maestri, è l’ora della lettura dello Shemà del mattino!” – non sarebbe altro se non la parola d’ordine dell’insurrezione. Anche Cipriani collega l’episodio alla rivolta antiromana, concludendo però in modo opposto che l’ultima frase potrebbe contenere un invito da parte dei discepoli al pragmatismo. Il riferimento alla recitazione dello Shemà del mattino alluderebbe quindi alle responsabilità concrete che abbiamo giorno per giorno, una serie di doveri a cui va riconosciuta la precedenza su progetti utopici e rivoluzionari che nel tentativo di avvicinare l’età messianica avvicinano soltanto la disfatta. Non va dimenticato, a questo proposito, che rabbi Akiva nel Talmud è allo stesso tempo sia la figura del saggio esemplare sia colui che proclama messia il leader militare Bar Kochbà, appoggia la rivolta contro i romani e partecipa in prima persona alla successiva tragica sconfitta finendo torturato e ucciso.

La seconda parte del brano giustifica lo svolgimento notturno del seder e chiarisce che dovrà continuare a essere celebrato in futuro, perfino durante l’epoca messianica. Il commento riferito da rabbi Elazar ben Azarià a Ben Zomà, che riflette su un versetto di Devarim/Deuteronomio – un libro che rappresenta già una elaborazione rispetto al racconto dell’uscita dall’Egitto in Shemot/Esodo -, ferma l’attenzione sui giorni e le notti della vita, con un riferimento estremamente probabile alla condizione di sconfitta militare e dipendenza politica da Roma successiva al 70 e.v. Non è mancato chi, come Samson H. Levey, ha letto il riferimento all’era messianica – cioè a un’epoca che deve ancora venire in cui nulla cambierà nel modo in cui gli ebrei celebreranno Pesach – come una risposta al primo cristianesimo.

In un magnifico libro uscito una ventina di anni fa, La Pasqua ebraica. Testo e contesto dell’Haggadà (Zamorani), Anna Segre sostiene che con la storia di Benè Berak venga introdotto nella Haggadà e dunque nel seder il tempo dei rabbini. Nei brani del Magghid precedenti incontriamo in successione il tempo dei nostri padri (“questo è il pane dell’afflizione che i nostri padri mangiarono in terra d’Egitto”), il nostro (“quest’anno siamo qui”) e il tempo futuro (“l’anno prossimo saremo in terra di Israele”). Il tempo dei rabbini non è il nostro e non è quello dell’esodo, bensì quello della Haggadà perché è a questo tempo che risale il testo e l’elaborazione del seder. Ma quello che per noi potrebbe essere la recitazione di un testo antico per i rabbini di epoca talmudica è identificazione, parola attualizzata. Altrettanto interessante è la riflessione di Segre sullo spazio della narrazione. La storia si svolge a Benè Berak, in terra di Israele ma dopo la caduta del Tempio e la perdita dell’indipendenza politica. Il luogo è lo stesso, secondo la tradizione, dove sorge la scuola di rabbi Akiva, che come abbiamo visto viene citato come uno dei partecipanti. La notte di veglia dei cinque rabbini evoca inoltre la notte che precede l’uscita dall’Egitto, raccontata nel capitolo 12 dell’Esodo. “In entrambi i casi”, scrive Segre, “si ha una notte trascorsa vegliando in uno spazio chiuso, al termine della quale c’è un’interazione con il mondo esterno e si conclude il passaggio dalla schiavitù alla libertà”. Il riferimento a schiavitù e libertà è verosimilmente valido su più piani, non solo dunque l’uscita da una condizione di costrizione imposta dall’esterno ma anche da costrizione interiore.

Abbiamo detto che l’episodio di Benè Berak non è menzionato in nessun testo rabbinico precedente alla diffusione della Haggadà. Eppure la sua forma è quella tipica del midrash di epoca talmudica. Nella Toseftà  compare però una storia molto simile in cui nella città di Lod vediamo rabban Gamliel e altri studiare le regole di Pesach per tutta la notte, fino al canto del gallo la mattina seguente. A questo punto, dice la Toseftà, i maestri si alzano da tavola, si preparano e si recano alla sinagoga per la preghiera mattutina. Daniel B. Schwartz ha formulato l’affascinante ipotesi che gli ignoti autori della Haggadà abbiano ripreso e adattato il testo della Toseftà – di molto precedente – cambiandone volutamente i personaggi in un’ottica di rivalità interna al rabbinismo. Secondo la tradizione rabban Gamliel è tra coloro che nel II secolo e.v. imprimono una decisiva svolta dalla scuola di Shammai a quella di Hillel, cioè dal rigorismo a un più morbido pragmatismo. La linea moderata che si afferma, in ottica storica, va intesa come la risposta resiliente in seguito alla doppia catastrofe del 70 e del 135, forse l’unica risposta pragmatica possibile. Alla linea shammaista e intransigente appartengono invece tutti i cinque rabbini citati nella Haggadà. Chi ha compilato il testo che ancora oggi leggiamo a Pesach, allora, avrebbe rivolto un omaggio tardo a coloro che, nel confronto delle idee in seno alla civiltà rabbinica, erano risultati sconfitti.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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