Hebraica
Haggadà Etz Haim, riflessioni per l’uscita dai confinamenti

La recensione dell’Haggadà tradotta e commentata da rav Haim Fabrizio Cipriani con le illustrazioni della pastora valdese Ilenya Goss

Molti ebrei ricorderanno a lungo il seder di Pesach 2020. Quelle sere, solo pochi mesi fa, sono state certamente molto diverse da tutte le altre sere di Pesach degli anni passati: nessuna lunga tavola per raccogliere parenti e amici ma ciascuno isolato a casa propria, almeno in Italia, nel periodo più difficile del contagio. Dalla riflessione su questo Pesach che ci auguriamo rimanga anomalo in tempi di Covid-19 nasce l’Haggadà Etz Haim, con traduzione e commento del rabbino Haim F. Cipriani e le illustrazioni morbide e coinvolgenti della pastora valdese Ilenya Goss. Non è strano che questa nuova Haggadà esca proprio adesso, lontano dalla festa di Pesach: obiettivo è un bilancio dell’esperienza dell’anno passato e, soprattutto, una serie di riflessioni “per l’uscita dai confinamenti”, come dice il sottotitolo del volume.

In molti punti del racconto dell’uscita dall’Egitto, su cui ogni anno gli ebrei di tutte le latitudini si dilungano, emergono analogie sorprendenti con la situazione di allarme sanitario, isolamento e complessiva difficoltà in cui una malattia inattesa ha costretto gli abitanti di tutto il mondo. Ma le analogie non si fermano alla descrizione della servitù egiziana. Il seder, come previsto dall’Haggadà, si svolge all’insegna della cooperazione tra parole, usi, cibi e gesti. Tra questi ultimi non può lasciare indifferenti l’obbligo di lavare le mani non una sola ma due volte, ed è superfluo insistere sull’importanza di un simile gesto nelle circostanze recenti. Altrettanto evocativa è l’apertura della porta dopo la Bircat haMazon, la benedizione sul pasto che segue la cena vera e propria, per far entrare simbolicamente il profeta Elia. Aprire la porta allude a un futuro messianico, ma è anche un gesto di fiducia e disponibilità incardinato nel momento presente. Potrebbe apparire il gesto più elementare del mondo, ma il dilagare della pandemia ci ha insegnato che non è così. E poi un altro momento del seder, Dayenu – “ci sarebbe bastato” -, a ricordare anche nelle difficoltà di una festa di Pesach senza la condivisione con amici e parenti o la consueta abbondanza e varietà di cibi l’importanza di accontentarsi e della riconoscenza per tutto quello di cui comunque godiamo: affetti, anche se a distanza, salute, cibi sufficienti, strumenti tecnologici.

La riflessione sulla libertà, l’identità e l’emancipazione dall’Egitto e da tutti gli Egitti in cui continuamente gli uomini tornano sono tipiche della festa di Pesach. Il necessario confinamento imposto nei mesi scorsi per contenere la pandemia colora però con toni nuovi parole e canti, tradizioni e simboli. Toni e colori inaspettati e drammatici, ma che hanno offerto stimoli nuovi alle lezioni tenute da rav Cipriani con la comunità Etz Haim. Questa nuova Haggadà è anche risultato di questo studio.

L’Haggadà Etz Haim non è però una riflessione generica su ebraismo e libertà al tempo del Coronavirus, ma appunto una Haggadà. In quanto tale raccoglie la ricchissima tradizione delle migliaia di edizioni del racconto dell’uscita dall’Egitto che l’hanno preceduta nei secoli, la rielabora e presenta alcune sintesi che affondano le radici nel testo e nella traduzione appositamente condotta per questa edizione. Di grande utilità anche la traslitterazione per quelle parti che vengono ritenute più rappresentative e essenziali.

Oltre al legame con la drammatica attualità di questi mesi, che cosa rende questa Haggadà differente da molte altre e dalla maggior parte di quelle in uso in Italia? Per una prima risposta è sufficiente sfogliare il volume, in cui il testo ebraico e la traduzione (e in alcuni casi la traslitterazione) sono contornati da un commento ampio e denso. Questo commento – ed è una seconda distinzione tra questa e altre Haggadot – attinge alle molte tradizioni di ebraismo frequentate e fatte proprie da rav Cipriani: “dal classicismo all’ebraismo ultraliberale passando dalle correnti Reform, Massorti e l’ortodossia ebraica classica”, come specifica lo stesso autore nell’introduzione. Ma nel commento, accanto alle fonti rabbiniche antiche e moderne di diversa origine, troviamo anche riferimenti storici indispensabili per comprendere la composizione di un testo che si è svolta attraverso i secoli, con aggiunte perfino in tempi recenti come l’HaTikwà, che molti usano cantare in conclusione. Specificare i debiti nei confronti di altre tradizioni della cultura ebraica di epoca rabbinica – sono i secoli delle grandi discussioni nelle accademie babilonesi e della composizione del Talmud – permette non di oscurare, ma al contrario di far risaltare le peculiarità del seder e della festa di Pesach, e al tempo stesso di meglio comprendere il contesto in cui nascono i testi che formano l’Haggadà. Ai nostri giorni molte tradizioni culturali e religiose devono misurarsi con tendenze che affermano una presunta, impossibile originarietà che non avrebbe debiti nei confronti di altre culture: è allora a maggior ragione importante, durante il seder di Pesach, sottolineare l’origine romana di usi come bere appoggiati, il consumo di verdure in pinzimonio come antipasto, l’inizio del pasto con un uovo e la derivazione greca di parole come afikòmen.

Rav Cipriani definisce “livelli” le quindici sezioni che scandiscono l’ordinato svolgimento del seder. In questo modo sottolinea la natura ascendente del percorso che dalla schiavitù egiziana porta alla liberazione. Quindici è anche il numero dei gradini attraverso i quali, dal lato meridionale, si accedeva al Tempio di Gerusalemme. Rintracciare assonanze tra i numeri, uno strumento utilizzato per secoli dall’esegesi tradizionale, collega in questo caso l’uscita dall’Egitto con il punto di arrivo, cioè l’accettazione libera di una nuova legge nel deserto e il culto della trascendenza. Non stupisce a questo punto che siano quindici anche i “livelli di liberazione” richiamati dall’inno Dayenu, che comincia evocando l’uscita dall’Egitto e conduce fino all’edificazione del Santuario. Nella maggior parte delle Haggadot le parti del seder sono contate nel numero di tredici (unendo le sezioni finali di Hallel e Nirtsà) o quattordici, l’Haggadà Etz Haim preferisce distinguere Motsì Matsà in due segmenti corrispondenti a due benedizioni: quella generica sul “pane estratto dalla terra”, che viene recitata ogni giorno all’inizio dei pasti, e quella specifica sulla mitsvà di consumare la matsà, il più universale e importante dei cibi simbolici di Pesach.

Uno dei temi centrali dell’Haggadà è quello del passaggio: è la stessa Torà a mettere in relazione il termine Pesach con il verbo pasàch, passare oltre, riferito al Signore che “passò oltre le case dei figli d’Israele” durante l’ultima e più terribile piaga che colpisce l’Egitto, la morte dei primogeniti. L’Haggadà, incentrata sul racconto del passaggio dalla schiavitù alla libertà, è di fatto una piccola antologia di soglie e superamenti posti in relazione l’uno con l’altro in prospettiva ascendente. Il primo luogo è “al di là del fiume”, dove i nostri padri “anticamente”, ma anche “in origine”, vivevano. E’ uno spazio senza nome del quale non si ha né storia né un sistema di valori coerente e ordinato. C’è poi la terra di Canaan da cui i discendenti di Abramo scendono in Egitto, luogo di una promessa futura, non di un possesso attuale. Il terzo spazio è l’Egitto, terra in cui vi è un ordine ma di segno negativo perché improntato alla sopraffazione. Segue infine l’uscita dall’Egitto, con il superamento decisivo di una soglia e l’inizio in senso stretto della storia di un collettivo.

C’è poi una dimensione ulteriore che pervade molte pagine dell’Haggadà, ma si tratta di un tempo e non di uno spazio: è l’epoca messianica futura che orienta l’agire attuale. La storia raccontata nel Magghid, in cui le fasi si succedono come in un rito di passaggio, comprende dunque una serie di soglie che vengono una a una superate. Come nota Anna Segre nel volume La Pasqua ebraica. Testo e contesto dell’Haggadà (Zamorani), il popolo di Israele è l’unico a passare da uno spazio all’altro, mentre gli altri personaggi citati sono vincolati a uno spazio specifico di appartenenza: “Lavan oltre il fiume, Esaù sul monte Se’ir, gli egiziani in Egitto (e, quando cercano di attraversare il Mar Rosso, vengono sommersi in esso)”. Passaggio, uscita, superamento: dimensioni che nei mesi della pandemia abbiamo vissuto e viviamo in modo diverso da prima.

L’Haggadà di Pesach è un testo scritto in cui molti codici si intrecciano, anche se è la parola a mantenere probabilmente un ruolo dominante. Possiamo forse pensare l’Haggadà come analoga a un testo teatrale, che è la base della rappresentazione ma è ben lontana da esaurirla. A chi non è capitato di stupirsi di fronte alla messa in scena di un’opera di Sofocle, Shakespeare o Pirandello, incalcolabilmente più ricca del testo tramandato anche se su di esso fondata? Si può dire lo stesso per l’Haggadà, scheletro indispensabile del seder di Pesach, il quale però rimane sempre molto più variabile e fecondo. E’ grazie all’incontro del testo tramandato e arricchito nel corso dei secoli con le tradizioni particolari e uniche di ogni famiglia, con le ricette di cibi ereditate di generazione in generazione, con una lunga tavola di parenti e amici che l’Haggadà prende vita e il seder di Pesach si realizza pienamente. Se sapremo uscire dai confinamenti, sarà questo l’obiettivo per l’anno prossimo.

Haggadà Etz Haim. Per l’uscita dai confinamenti

 

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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