Israele
Uniti nella solidarietà

Dopo il 7 ottobre migliaia di haredim si sono messi a disposizione dell’esercito così come delle organizzazioni che sostengono le famiglie delle vittime e gli sfollati

Nella tragedia e ai giorni bui seguiti al massacro che ha colpito i kibbutz e la società israeliana il 7 ottobre, uno spiraglio di luce potrebbe creare un’opportunità storica creando così un legame tra ampi settori della società ultra-ortodossa e il resto del Paese. A cominciare con dalla stretta collaborazione con Zaka, l’organizzazione volontaria di haredim che si occupa di recuperare i corpi distrutti a seguito degli attacchi terroristici, che fin dal Sabato Nero è stata direttamente coinvolta nel riconoscimento delle vittime ritrovati nei kibbutz messi a ferro e fuoco da Hamas.

Anche se questo cambiamento non si avverte ancora nelle roccaforti secolari, gli osservatori della comunità ultraortodossa fanno fatica a non notarlo. Fin all’inizio della guerra, infatti, migliaia di haredim hanno chiesto di unirsi al servizio di riserva e centinaia sono stati accettati con una procedura accelerata. Non solo. Decine di migliaia di ultraortodossi hanno iniziato a fare volontariato in diverse organizzazioni. Moti Fried, per esempio, è a capo di un’ONG chiamata “Sa’ad U’Marpeh” che aiuta i pazienti gravemente malati e le loro famiglie, ma il 7 ottobre ha lasciato tutto per indossare la sua uniforme di Zaka. A volte persino sotto il fuoco nemico, pur di dare il suo contributo nel ritrovare e identificare le vittime del massacro di Hamas nella zona al confine con Gaza.

Come racconta a Aaron Rabinowitz in un’intervista su Haaretz, dopo una settimana di volontariato al confine con la Striscia, ha deciso di dedicarsi ad un nuovo progetto. Ora, ogni giorno, raggiunge con altri volontari ortodossi una delle basi militari per sollevare il morale della truppa, portando cibo e suonando musica. Fried non aveva certo bisogno del 7 ottobre per entrare in contatto con la società israeliana laica, tanto che non è affatto sconcertato dalle differenze tra lui e i soldati. E anche se parla con i giovani volontari ultraortodossi in yiddish, l’ebraico gli viene fuori con la stessa naturalezza con i soldati al fronte. L’iniziativa di Fried è solo una delle centinaia avviate nella comunità haredi – alcune attivate da organizzazioni, altre da privati ​​- dall’inizio della guerra. Circa mille donne ogni giorno si offrono volontarie presso la sala operativa delle Iron Sisters, aiutando chi è stata evacuato o le donne i cui mariti sono stati richiamati come riservisti. Queste volontarie cercano di offrire assistenza in ogni modo possibile: prendendosi cura dei bambini più piccoli, dando lezioni private ai più grandi. Un’altra organizzazione, Fratellanza della Torah, ha allestito un quartier generale per identificare i bisogni e trovare volontari. Così come il sito di notizie Kikar Hashabbat aiuta a recrutare volontari per aumentare la partecipazione ai funerali e alle shivah, durante il periodo di lutto di sette giorni.

Home Front Brothers, invece, si occupa delle varie esigenze delle truppe, compreso l’armamentario religioso, la cui domanda è sempre più forte, essendo aumentati il numero di riservisti ultraortodossi. Alcune famiglie haredi fanno il bucato per gli sfollati, mentre altre guidano da un avamposto all’altro aiutando i soldati in ogni modo possibile.

Tutte queste iniziative sembrano condividere un forte desiderio di coesione: un sentimento di fiducia  – secondo  Rabinowitz – all’interno dello stesso percorso dell’essere haredi. «Comprendiamo che abbiamo più responsabilità, perché è scritto che la Torah protegge e salva i più bisognosi, quindi dobbiamo studiare più che mai, in questi tempi bui», gli ha raccontato uno studente di una  yeshivah, di 22 anni. Come in molte altre yeshivah, lui e altri studenti stanno dedicando tutti i loro sforzi e le loro preghiere per aiutare i soldati, gli ostaggi e le loro famiglie: «Abbiamo appeso in yeshiva una lista con i nomi dei soldati e ogni studente ha scelto un nome, per pregare solo per lui» ha spiegato al giornalista.

La grande domanda è cosa accadrà il giorno dopo questo conflitto, se la comunità haredi continuerà per questa strada e, cosa non meno importante, se insegnerà anche agli ebrei laici a tendere una mano verso di loro. È una delle tante domande che ci si pone all’interno di un conflitto che non sarà affatto breve, nella speranza che, proprio perché i tempi saranno lunghi, possano permettere alle due parti della società di venirsi in contro l’una con l’altro.

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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