Joi in Approfondimenti
Girare l’Italia a naso in giù

Tre città, tre tappe ciascuna. Visitare Venezia, Milano e Roma alla ricerca delle Pietre d’Inciampo.

“Visitare i luoghi è fondamentale, specialmente quando nei luoghi fai risuonare le storie e le testimonianze di chi li ha vissuti” dice Paolo Rumiz. Questo lo spirito con cui l’artista tedesco Gunter Demnig nel 1995 lancia a Colonia un’iniziativa efficacissima nella sua semplicità: inizia a posare le Stolpersteine (Pietre d’Inciampo). Si tratta di sampietrini ricoperti di una lamina di ottone posati di fronte alle abitazioni di chi è stato deportato dai Nazi-fascisti. Le pietre riportano nome e cognome, data di nascita,  eventuale data e luogo di morte, causa della deportazione (ebreo, deportato politico etc.). In un momento in cui si conosce sempre meno la Storia, lo scopo è quello di obbligare chi cammina per strada a pensare, anche solo per un momento, a cosa ha permesso la discriminazione e successiva deportazione di parte della popolazione, fosse anche per pochi minuti.

Dal 2010 è possibile trovarne anche sui marciapiedi italiani, in numeri destinati a crescere, dato che molte devono essere posate quest’anno. Abbiamo quindi costruito un percorso ideale in tre città italiane, dal centro alla periferia, cercando storie diverse tra loro da riscoprire.

 

Venezia

Visitando il Ghetto basta guardare per terra che ogni pochi metri trovate facilmente gruppetti di pietre d’inciampo, per cui nominarne una sembra di fare torto a chi viene ricordato appena due centimetri più in là: leggete i nomi di famiglie intere che vengono prese (Levi, Navarro, Clerle, Calimani, per nominarne alcune), nomi che ricorrono nella storia ebraica veneziana. Da notare la pietra che si trova davanti alla casa di riposo, in Ghetto Nuovo. Infatti, dopo la prima grande retata del 5/6 dicembre 1943, fascisti e nazisti continuano a cercare gli ebrei superstiti. Il 17 agosto 1944 gli ospiti della Casa Israelitica di riposo, tutti ultrasettantenni, vengono presi; qualcuno di loro, ormai incapace di camminare. Caricati sui vagoni piombati, partono alla volta della Risiera di San Sabba prima, e di Auschwitz poi: nessuno fece ritorno.

Spostatevi allora verso San Marco, rigorosamente a piedi: un ponte, una calle, un ponte, una calle, e ci siete. A San Marco 4741 trovate una pietra dedicata a Bonaventura Ferrazzutto (1887-1944), “Ventura”. Nasce a Venezia, ma grazie all’amicizia con Giacinto Serrati, quando quest’ultimo è nominato direttore dell’“Avanti”, si trasferisce a Milano. Nel 1922 la tipografia del quotidiano socialista è totalmente distrutta dai fascisti e Ferrazzutto accetta la proposta di Angelo Rizzoli di passare alle sue dipendenze; poco dopo diviene procuratore generale della sua casa editrice. Sorvegliato speciale durante il ventennio, dopo l’8 settembre 1943 partecipa alla lotta partigiana milanese. Avvia con il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia un’attività editoriale clandestina per la stampa di documenti falsi per l’espatrio di ebrei e esponenti della Resistenza. Per una delazione nel 1943 viene arrestato a Milano dalla Gestapo e trasferito nel campo di sterminio di Mauthausen e quindi nel Castello di Hartheim, lager nel quale i prigionieri erano oggetto di brutali esperimenti scientifici. Qui muore il 4 ottobre 1944 (data presunta) all’età di cinquantasette anni.

Ricominciate a camminare: un ponte, una calle, un ponte, una calle, e arrivate a San Zaccaria. Da qua l’unica soluzione è prendere il traghetto numero 20, e arrivate a San Servolo. La pietra che trovate davanti a quello che era l’ospedale psichiatrico ricorda i pazienti ebrei ricoverativi. L’11 ottobre 1944 agenti di Pubblica Sicurezza italiani e militari tedeschi prelevano sei pazienti ricoverati a San Servolo (Ida Boralevi, Ida Calimani, Raffaele Givrè, Carlo Levi, Luigi Marino, Giuseppe Todesco); altri cinque degenti erano stati arrestati a San Clemente il 6 ottobre. Tutti i pazienti vengono trasferiti prima nel campo di S. Sabba e poi deportati nel campo di sterminio di Auschwitz: nessuno sopravvive.

 

Milano

Partite da Via Giuseppe Mengoni 2, una piccola via proprio dietro il Duomo: vicino a negozi, caffè e uffici passate accanto alla pietra che ricorda Otto Popper: cittadino austriaco e figlio di un padre ebreo e di una madre “ariana”, si laurea nel 1938 in Giurisprudenza a Vienna. Presto si rende conto che l’Austria del Terzo Reich non gli è amica, e scappa con moglie e figli in Italia, nel 1940. Quando viene catturato nel 1943, viene preso solo, la famiglia era infatti riuscita a scappare a Ginevra. Conoscendo diverse lingue viene utilizzato come traduttore a San Vittore, carcere in cui era rinchiuso, e contemporaneamente riesce a dare una mano alla resistenza, distribuendo pacchetti di contrabbando. Viene deportato prima a Fossoli, poi a Bolzano, ed infine a Mauthausen. Viene ucciso il 25 ottobre del 1944.

Da qua fate due passi a piedi, schivate qualche turista, e prendete il 16 in Piazza Cordusio (corso di milanese accelerato: “il” 16, mai “la” 16), che vi porta in corso Magenta, più precisamente in Corso Magenta 55, davanti alla pietra con il nome di Alberto Segre. Alberto nasce sul finire del secolo, nel 1899. Si laurea in Economia e commercio, si sposa con Lucia Foligno e nel 1930 diventa padre di Liliana. Durante la guerra inizialmente nasconde la figlia da amici, poi nel 1943 prova a scappare con lei in Svizzera. Viene però catturato insieme a Liliana vicino a Varese, e qua inizia il lungo cammino che lo porterà ad Auschwitz: viene rinchiuso nel Carcere di Varese, poi in quello di Como, poi a San Vittore. Una mattina presto, il 30 gennaio 1944, con la figlia e altre 603 persone viene portato in stazione centrale (dove ora si trova il Memoriale della Shoah), passando per un’ultima volta davanti alla casa in corso Magenta 55, e verrà da là spedito ad Auschwitz. Morirà il 27 aprile del 1944, sempre ricordato dalla figlia.

Da qua vi spostate verso Cadorna, prendete la metro rossa, cambio a Duomo dove salite sulla linea gialla direzione San Donato, “solo” 16 fermate e scendete a Corvetto. Vi trovate oltre la circonvallazione, lontano da Gae Aulenti e Navigli, ma in un quartiere pieno di vita. Ed è in via dei Cinquecento 20 che trovate la pietra a memoria di Augusto Silla Fabbri, classe ’05. Operaio meccanico, sposato con Luigia, antifascista e attivo nel movimento clandestino. Il primo di marzo del 1944 organizza uno sciopero di otto giorni, bloccando completamente i lavori della fabbrica in cui era impiegato. Viene preso e deportato come prigioniero politico: andrà a Mauthausen, Gusen, Florisdorf, Auschwitz, di nuovo Mauthausen e poi ancora Gusen. Muore a guerra finita, a causa dei soprusi subiti, il 10 maggio 1945.

 

Roma

Luogo di partenza quasi obbligato, via Flaminia 21, a due passi da Piazza del Popolo, da cui Benito Mussolini tenne moltissimi dei suoi discorsi propagandistici.  Cominciate dunque da quello che è stato un luogo simbolo del Fascismo, e trovate le pietre in ricordo della famiglia Levi: il padre Mario di 55 anni, la madre Alba Sofia Ravenna di 52 anni e il figlio Giorgio di 18 anni. Alba nasce nel 1891 da una famiglia storica della comunità di Ferrara (il famoso Ravenna podestà di Ferrara è suo parente) e sposa Mario Levi, di tre anni più vecchio di lei. La notte del 16 ottobre, quando sente rumore di stivali sulle scale, capisce che sono i soldati nazisti che stanno venendo a prenderli, e nasconde in balcone la nipote Alberta Levi, rifugiata a casa loro: non essendo romana non risulta nelle liste di coloro da catturare, e ha qualche chances di salvarsi. Sarà grazie a questo momento di prontezza che Alberta riesce a nascondersi e riunirsi il giorno dopo con i genitori e una delle sorelle, nascosti in altri luoghi della città. Mario, Alba e Giorgio vengono invece deportati col treno del 18 ottobre del 1943, direzione Auschwitz, dove vengono uccisi.

Dirigetevi dunque verso Piazzale Flaminio, prendete il 495 (e qua mi rimetto ai lettori romani: “il” 495? “La” 495?), scendete in via Catania e arrivate in via Padova 90: anche qua, nuova via, nuovo gruppo di pietre: Perla Emma Caviglia e i suoi tre figli: Rosa, Leo, Italia. Perla nasce nel 1910 e sposa Vittorio Zarfati. Viene presa il 16 ottobre del 1943 durante il rastrellamento che condannerà anche più di altre mille persone. La portinaia, al momento della retata, riesce a strapparle la figlia Italia dalle braccia, nel tentativo di salvare almeno lei, di appena 3 anni. La bambina scoppia però a piangere, rivelando di fatto la propria identità. Vengono tutti e quattro deportati col treno per Auschwitz del 10 ottobre 1943; non sopravviverà nessuno di loro.

Ora gambe in spalla e camminate fino alla stazione Roma Tiburtina, prendete il regionale, e scendete a Roma Tuscolana. Da là, due minuti a piedi e siete in via Taranto 178, dove troverete il ricordo di Eugenio Paladini. Nato nel 1896, colonnello di artiglieria, monarchico e padre di famiglia, viene preso prigioniero dai tedeschi in Albania dopo l’armistizio italiano dell’8 settembre 1943: internato nel lager di Meppen, sceglie di suicidarsi dopo aver subito lunghi maltrattamenti e rifiutando di essere liberato in cambio dell’adesione alla Repubblica Sociale Italiana. Uno dei suoi figli, Arrigo, si unisce alla Resistenza: catturato dai tedeschi, viene convinto di essere responsabile della sua morte, essendosi rifiutato di denunciare i propri compagni. Scopre anni dopo che non è così, ma per molto tempo il suicidio del padre rimarrà un segreto di famiglia, raccontato infine nel libro scritto dalla moglie di Arrigo, Elvira.

Talia Bidussa
Collaboratrice

Classe 1991, attiva per anni in ambito comunitario, tra Hashomer Hatzair, UGEI e European Union of Jewish Students. “Political junky”, qualsiasi cosa nerd è bene accetta, libri e concerti ancora meglio. Lavora come responsabile eventi e mostre al Memoriale della Shoah di Milano.


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