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Viaggio a Napoli

Un percorso nella storia ebraica della città partenopea

A Napoli non c’è mai stato un ghetto. C’è poco da gioirne, però. Se gli ebrei non vi subirono la segregazione inflitta nel resto d’Italia dalla metà del Cinquecento, è solo perché ne erano stati espulsi almeno da un decennio. Risale infatti al 1541 il decreto con cui Ferdinando il Cattolico, salito al potere nel 1503, ordinava che nessun ebreo risiedesse più nell’intero Mezzogiorno. Prima di quel momento, la presenza ebraica in Campania e a Napoli era stata capillare fin dal periodo romano. Lo testimoniano reperti antichi come le lastre epigrafiche e le lapidi esposte presso il Museo Archeologico Nazionale di via Museo 19 e la stessa toponomastica cittadina.
Le cronache antiche a loro volta attestano le gesta degli ebrei napoletani fin dal 536, anno in cui aiutarono i Goti nel tentativo di fermare il generale bizantino Belisario. Da quel momento all’anno Mille non ci sarebbero più state loro notizie, ma si suppone che non avessero mai smesso di vivere in città. Beniamino di Tudela, rabbino ed esploratore spagnolo ritenuto il Marco Polo ebreo, parla di ben 500 famiglie residenti a Napoli nel 1159.

Per farsi un’idea di dove vivesse la comunità dell’epoca ci si può recare presso il complesso monastico di San Marcellino, ai piedi di quel colle Monterone che vide la nascita dell’antica Neapolis. Qui, l’area compresa tra le attuali rampe di San Marcellino e via Leopoldo Rodinò fu abitata da ebrei almeno a partire dal X secolo. Tra i documenti giunti a noi, uno del 984 attesta l’esistenza in zona di una sinagoga e di diversi altri locali di proprietà ebraica. Tra i vantaggi del quartiere pare ci fosse la ricchezza di fonti d’acqua, indispensabili per l’istallazione di bagni rituali. Risale probabilmente all’epoca romana anche l’insediamento ebraico nei pressi dell’anfiteatro romano, lungo l’attuale strada dell’Anticaglia, sull’asse dell’antico Decumano. Un documento del 1002 fa qui riferimento a un vicus Judeorum, corrispondente all’attuale vico Limoncello, ma non si hanno notizie né di sinagoghe né di bagni rituali.

Tra il XII e il XIII la giudecca di San Marcellino si sarebbe allargata fino a comprendere l’attuale piazza Portanova, in quella che viene definita la Giudecca Grande o, appunto, di Portanova. Questa si sarebbe sviluppata ulteriormente tra il Duecento e il Trecento giungendo fino alla chiesa di Santa Maria in Cosmedin. In quel periodo pare che gli abitanti ebrei della zona fossero perlopiù impegnati nella lavorazione dei tessuti e avessero diverse sinagoghe. Oggi di esse non rimane traccia se non forse in una chiesa, quella di Santa Caterina della Spina Corona in via Giuseppina Guacci Nobile 13. Guardando alla sua conformazione a pianta rettangolare, alla presenza di una fontana e alla posizione all’estremità del quartiere, si suppone che questo edificio fosse la stessa sinagoga che nel 1288, sulla spinta di alcuni ebrei convertiti e soprattutto di un movimento cattolico antiebraico, era stata trasformata in chiesa. Nei secoli successivi, anche una parte dell’attuale Corso Umberto I, il tratto compreso tra via Miroballo e piazza Nicola Amore, avrebbe accolto la vita ebraica, tanto da essere chiamata via Giudecca Grande. Via Giudechella si trovava invece più in fondo, tra via San Biagio ai Taffettanari e vico San Vito ai Giubbonari. Pare che avesse un impianto simile a quello della cosiddetta Giudecca Vecchia che dà il nome a una via e che si trovava nell’attuale zona di Forcella. In questo come negli altri casi, ben poco è rimasto degli antichi palazzi, stravolti dalle operazioni urbanistiche di fine Ottocento.

L’ampliamento della Giudecca, avvenuto intorno alla metà del Quattrocento, coincise con un periodo particolarmente favorevole per la vita ebraica in città. Sotto la dominazione aragonese, iniziata nel 1442, Napoli accolse gli esuli da Sicilia, Sardegna e Spagna, aumentando così la forza della sua comunità. Ma le cose non sarebbero durate a lungo. Nel 1503 il regno passò a Ferdinando il Cattolico e dopo un primo bando di espulsione nel 1510 si arrivò a quello definitivo del 1541. Da quell’anno, salvo alcuni di passaggio per fiere e mercati, nessun ebreo avrebbe più vissuto a Napoli fino al 1740, quando il re di Napoli Carlo di Borbone tentò di rimpinguare le casse di stato grazie alle abilità commerciali degli ebrei. Ne invitò da Livorno e dall’Olanda, allettandoli con la promessa di libertà di culto e di facilitazioni sul lavoro, ma i pur fiorenti affari dei circa 120 commercianti che si insediarono a Napoli non bastarono a risanare i conti e nel 1747 un nuovo assetto politico a corte portò a una nuova espulsione.
Nonostante i ripetuti affronti subiti nel corso dei secoli, gli ebrei napoletani sono stati gli unici del Sud Italia ad avere ricostituito una comunità nell’Ottocento. Fondata nel 1864, la Comunità Ebraica di Napoli è anche l’unica tuttora esistente sotto Roma, con giurisdizione per Campania, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. Perché si arrivasse alla sua fondazione e prima ancora al ritorno degli ebrei a Napoli si deve andare indietro di poco più di trent’anni, al 1831, quando il barone Carl Rothschild si trasferì in città. In quegli stessi anni anche un gruppo di commercianti ebrei era tornato a Napoli e, sotto la guida di Isidoro Rouff, aveva inaugurato una sala di preghiera in una delle stanze dell’albergo Croce di Malta, nell’attuale piazza Municipio. Le vicende legate ai banchieri tedeschi sarebbero state però quelle decisive per la rinascita della vita ebraica partenopea. Dopo aver concesso tramite l’Austria un finanziamento ai Borbone per pagarsi le truppe contro i rivoluzionari e rimettere sul trono Ferdinando, i Rothschild inaugurarono a Napoli la prima filiale della loro banca in Italia. Carl, figlio del capostipite della dinastia, si insediò nel più bel palazzo della prestigiosa Riviera di Chiaia, la neoclassica Villa Acton, poi diventata Villa Pignatelli e oggi sede dell’omonimo museo. Noto per l’estrema osservanza religiosa, Carl adibì una sala della sua fastosa residenza a oratorio per i suoi ospiti e gli ebrei di passaggio. Per quanto riguarda quelli residenti, sarebbero aumentati velocemente di numero, arrivando a toccare le 630 unità nel 1864. È questo l’anno della fondazione della Comunità e dell’inaugurazione della Sinagoga in via Santa Maria a Cappella Vecchia 31, luogo in cui tuttora si trova.

Visitabile solo prendendo appuntamento dal sito della Comunità, la Sinagoga di Napoli rappresenta oggi una importante testimonianza storica oltre che il riferimento per il culto per l’intero Meridione. Dalla pianta rettangolare, è divisa a metà da una grande arcata. Nata ashkenazita e diventata sefardita dopo gli arrivi di esuli a inizio Novecento da Istanbul, Smirne, Sarajevo, Gianina e soprattutto da Salonicco, presenta una tevah centrale circondata dai banchi posta di fronte all’aron, che poggia invece sulla parete orientale di fronte all’ingresso. Qui si trova il matroneo, retto da colonne di legno. Vi si accede da una scala esterna, passando da una sala attigua all’ingresso. In questo locale si può ammirare una serie di antichi contratti nuziali (ketubà) appartenenti a membri della Comunità, nonché una hanukkiah per la celebrazione della Festa dei Lumi. La struttura che ospita la sinagoga comprende anche sale per conferenze e concerti, la segreteria della Comunità, la casa del rabbino e altre sale in fase di ristrutturazione.
Restaurata nel 2004 con il contributo del Ministero dei Beni Culturali e rinnovata nel 2020 grazie all’aiuto della Fondazione Rothschild di Parigi, la Sinagoga nasceva come appartamento al primo piano di Palazzo Sessa. Presa in affitto da Lamberto Foà, era stata in seguito pagata grazie al lascito dello stesso barone Rothschild, che alla sua morte nel 1900 aveva destinato fondi anche per la fondazione e il mantenimento di un ospedale e di una scuola. L’acquisto sarebbe arrivato solo nel 1927, grazie al denaro lasciato nel 1910 dal defunto presidente Dario Ascarelli e alle donazioni di altri iscritti. Nel frattempo, la Comunità aveva toccato il migliaio di membri, tra cui diversi nomi importanti per la storia della stessa Napoli a cavallo tra i due secoli. Uno di questi è Mario Recanati, nato a Padova ma stabilitosi a Napoli dopo un soggiorno negli Stati Uniti. Acquistati dei locali al civico 90 della Galleria Umberto, aveva cominciato col vendervi grammofoni e dischi giungendo poi ad aprirvi nel 1896 la cosiddetta Sala Recanati, considerata la prima sala cinematografica a Napoli e tra le prime in Italia. Inizialmente per fare pubblicità ai suoi prodotti, l’uomo aveva importato da Parigi la macchina Lumière insieme ad alcuni film. Altri imprenditori avrebbero seguito negli anni successivi la geniale intuizione di Recanati moltiplicando le sale di proiezione e trasformando Napoli nella capitale del cinema italiano di inizio Novecento.

Restando in tema di primati, si deve ringraziare un ebreo anche per un altro fiore all’occhiello della città: la sua squadra di calcio. Fondatore nel 1926 dell’Associazione Sportiva Calcio Napoli fu infatti Giorgio Ascarelli, imprenditore figlio dell’industriale tessile Salomone Pacifico. Primo presidente della squadra, fece in modo di riunirvi tutte le piccole realtà calcistiche partenopee facendola diventare competitiva in ambito nazionale già dalla stagione 1928-29. Forte di questo successo, Ascarelli nello stesso 1929 fece costruire uno stadio a proprie spese presso il Rione Luzzatti chiamandolo Stadio Vesuvio. Alla sua morte, sopraggiunta appena 17 giorni dopo l’inaugurazione per un attacco di peritonite, l’impianto gli fu intitolato, come riportano le cronache, “a furor di popolo”. Avrebbe mantenuto il nome del mecenate morto a neppure 36 anni fino al 1934, data in cui il regime fascista decise di mutarne la denominazione in Stadio Partenopeo. La struttura finì distrutta sotto i bombardamenti, ma la memoria del benefattore del calcio napoletano le sopravvisse. Per ricordare degnamente Ascarelli, nel 2018 l’allora sindaco Luigi de Magistris aveva annunciato che il piazzale davanti allo Stadio Diego Armando Maradona, intitolato all’ex segretario provinciale fascista Francesco Tecchio, avrebbe finalmente cambiato nome e preso quello del mecenate ebreo. Purtroppo, dopo due anni di attesa, è arrivata la doccia fredda del veto della Commissione Toponomastica. Qui l’Istituto di Storia Patria e un fantomatico comitato civico del quartiere di Fuorigrotta avevano votato contro il cambio di nome. Tra gli impedimenti, si dice, anche la difficoltà nel ricevere la posta…

 

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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