Cultura
Il Kibbutz come esperienza totale: le origini e l’evoluzione

Più che un criterio di organizzazione sociale, una sorta di brand politico e culturale, un modo integrale, quindi totalizzante, di intendere la vita e le relazioni sociali

Dopo i tragici eventi degli ultimi giorni abbiamo scelto di ripubblicare questo approfondito articolo di Claudio Vercelli

«Eravamo soddisfatti di lavorare con la terra, ma comprendevamo, con crescente certezza, che i criteri dei vecchi insediamenti non fossero fatti per noi. Non era questo il modo in cui speravamo di insediarci nel paese, la vecchia maniera  con ebrei in cima e arabi che lavoravano per loro; comunque, abbiamo pensato che non ci dovessero essere datori di lavoro e dipendenti. Doveva esserci un modo migliore». Così si esprimeva, nel già lontano 1956, Joseph Baratz, uno dei pionieri del villaggio collettivo Degania, nel libro memoriale dedicato a quell’esperienza.

Più che un criterio di organizzazione sociale, parrebbe essere (stato) una sorta di brand politico e culturale, un modo integrale, quindi totalizzante, di intendere la vita e, con essa, le relazioni sociali. Stiamo parlando del Kibbutz, una parola ebraica che indica «assemblea» (come anche «raccolta», «unione», «raggruppamento» di persone) nel senso di unione consapevole, di condivisione di reciprocità, di responsabilità e di un’idea diversa di comunità, quest’ultima non più derivante dall’esclusivo nascere e crescere in un ambito delimitato dalla sola famiglia, e quindi dal gruppo territoriale di appartenenza, ma piuttosto da un’inedita coscienza di sé e degli altri. Quasi una forma di messianismo laico come anche una secolarizzazione della religiosità medesima, però all’interno di una cornice dove il “fare insieme”, il produrre, il discutere, il decidere, sono l’involucro non solo idealistico e morale ma soprattutto politico dell’individuo. D’altro canto, al netto delle diverse ideologie che hanno attraversato il sionismo nel suo insieme, in quanto collettore di una pluralità di identità politiche, senza i Kibbutzim (il plurale di Kibbutz), l’Yishuv – l’insediamento ebraico-sionista tra il 1881 e il 1948 – avrebbe difettato di una sua ossatura pressoché imprescindibile. Il Kibbutz, come modello non solo organizzativo ma nel suo costituire un’esperienza totale, ossia capace di dare corpo e sostanza ad un «ebreo nuovo», un cittadino concreto, fortemente legato al fare, al ricevere ma anche al dare come prassi sociali abituali, sta alla fondazione d’Israele così come il sistema arterioso e venoso, nella sua capillarità, sta al corpo umano. Senza l’uno non può esistere l’altro. Che poi il tempo sia trascorso e la configurazione dei fatti – oggi – sia molto diverso dal passato, non è meno vero. Ma qui si ragione sulla storia, sul trascorrere del tempo, non su di una fotografia del solo presente.

Il rapporto con la terra, snodo strategico dell’agire sionista, d’altro canto non poteva tradursi nella semplice acquisizione individuale dei fondi rurali. La nuova società ebraica, fondata su inediti presupposti di esistenza, sarebbe nata solo qualora i principi ideologici professati avessero permesso di andare oltre i limiti delle semplici prescrizioni di comportamento rivolte alle singole persone. Non si trattava di copiare passivamente le società europee, ammesso che ciò fosse possibile. Quel che avrebbe fatto la differenza, fatto di cui i dirigenti sionisti ne erano pienamente consapevoli, era il coinvolgimento dei migranti all’interno di un progetto collettivo che si basava sull’idea di «movimento», ovvero di un comportamento condiviso, consapevolmente orientato verso l’obiettivo di costruire una comunità politica e sociale indipendente.

La tensione tra «modernità» e «tradizione», nel processo di ricostruzione dell’«identità», d’altro canto, attraversa tutta la storia del movimento sionista, essendone punto di partenza, ma anche di arrivo, in una sorta di rompicapo senza alcuna soluzione che non fosse il riformulare da principio l’ordine dei problemi da affrontare, l’agenda sui quali disporli, i metodi da assumere, gli obiettivi da cercare di raggiungere. Ad una lettura storicamente assai poco convincente, quella che premia la continuità e la progressione, ovvero l’evoluzione lineare, intesa come crescita del sionismo concreto, autodefinitosi «pratico», in un gioco costante tra mediazione diplomatica e impianto pioneristico, è quindi preferibile semmai privilegiare le discontinuità. Poiché la vera chiave di volta del sionismo fu la capacità di adattarsi, sempre e comunque, alle condizioni date, adottando il pluralismo interno non come elemento dilacerante bensì in quanto habitat dal quale fare germinare le risposte attive ai problemi che, in successione, si posero come snodi della trasformazione collettiva.
In questo contesto, un ruolo fondamentale fu svolto dalle forme dell’organizzazione che i pionieri assunsero e condivisero, ossia dalle istituzioni che costruirono per dare concreto sviluppo all’intenzione di colonizzare la terra, per stabilire legami e reciprocità tra persone anche molto diverse tra di loro, per educare ed avviare ad un tipo di esistenza collettiva, ma non collettivista (anche se le suggestioni al riguardo furono molte, e per un lungo asso di tempo). Tali istituzioni, per poter funzionare, dovevano soddisfare una serie di requisiti: permettere lo svolgimento di un lavoro coordinato tra quanti ne avrebbero fatto parte; garantire il possesso attivo del terreno, ovvero la sua coltivazione in economia ma anche in eventuale regime di monopolio; assicurare la sua vigilanza e quella delle colture; tutelare il principio della giustizia sociale, nelle forme e nei modi stabiliti consensualmente dai suoi membri; costituire i nuclei di una società e di una comunità politica in via di edificazione; educare i suoi componenti sia al lavoro di gruppo che alla partecipazione attiva alle scelte della comunità; superare quelle forme di «particolarismo», di «individualismo» e di «fatalismo» che, a detta di molti sionisti, costituivano i mali che minava dall’interno l’ebraismo diasporico, decretandone, una volta per sempre, il suo anacronismo. Se sul piano ideologico la parola d’ordine era quella del «lavoro ebraico», su quello dell’organizzazione spaziale della vita in comune questi principi si tradussero nel modello della «torre e la palizzata», ovvero l’insediamento concepito come una piccola cittadella comunitaria, capace di esercitare l’autodifesa come, al medesimo tempo, di promuovere le relazioni sociali tra i suoi membri. Una sorta di cuore pulsante, per rifarci ancora una volta alla metafora di circostanza, in un corpo ancora fragile, molto giovanile, scattante ma anche, al medesimo tempo, esposto ai numerosi rischi delle circostanze.

Un indice fondamentale fu anche l’evoluzione della presenza ebraica nella Palestina, ottomana prima e britannica poi, che seguì un percorso di progressiva accelerazione. Se durante buona parte dell’Ottocento per ogni ebreo vi erano una media di 40 arabi (6.700 a 268.000), la relazione diventò di 1 a 22 nel 1880 (24.000 a 525.000), di 1 a 7 nel 1915 (85.000 a 590.000), di 1 a 5 nel 1931 (174.000 a 837.000) e, infine, nel 1947 di 1 a 2 (630.000 a 1.310.000). Se nel 1922 gli ebrei costituivano l’11,1% della popolazione locale (su una popolazione totale di 752.048 elementi gli ebrei erano 83.790), nel 1930 costituivano il 16,6% della popolazione complessiva (164.796 su 992.556) per poi arrivare al 30% nel 1940 (463.535 su 1.544.530). Da ciò sarebbe derivato anche un diverso assetto interno alla comunità ebraica di Eretz Israel, ovvero alle sue istituzioni.

Il lavoro ebraico richiamava l’idea, tradottasi in uno slogan di uso durante la seconda e la terza Aliya – le ondate migratorie – di Kibbush haAvoda (la «conquista del lavoro»), inteso nel duplice senso sia di rigenerazione spirituale attraverso l’attività manuale che di preferenza per i correligionari nell’impiego in imprese ed aziende a maggioranza ebraica. Un fondamento ideologico era fornito da Ber Borochov, che identificava nella precedente “non proletarizzazione” degli ebrei la ragione della loro estraneità alle forme di organizzazione derivate dall’economia industriale e, di conseguenza, alla modernità politica e sociale in Europa. Per Borochov poteva darsi uno Stato degli ebrei solo se si fosse costituito un proletariato ebraico, ossia una classe cosciente di sé. Si trattava di una lettura parziale, debitoria delle ideologie dell’epoca ma, proprio per questo, paradossalmente in sintonia con il sentire dell’epoca medesima. Il modello urbanistico dell’Homa u’migdal (la «torre e la palizzata»), invece, andò diffondendosi a partire dagli anni Trenta, dinanzi al montare dell’opposizione armata araba, basandosi su di una concezione urbanistica elementare e funzionale: al centro dell’insediamento si poneva una torre che permetteva di vigilare, per l’intero verso dei 360 gradi, l’insieme dell’abitato, circondato da un muro perimetrale. Anche in questo caso non si trattava solo di una risposta funzionale ma di un modello simbolico, che indicava al contempo il presidio, la presenza, il possesso, la condivisione (tutti lavoratori, ognuno a seconda della sua capacità; tutti osservatori della realtà circostante, per tutelare la propria; tutti impegnati in una sorta di cittadinanza attiva basata sul trinomio che unisce partecipazione a lavoro e difesa). Che questo modello potesse risultare premiante per coloro che lo condividevano ma scontasse anche un crescente isolamento con il resto dell’ambiente non ebraico, ossia con le terre abitate dalle popolazioni arabe, è non meno vero. Ma era nell’ordine delle cose, poiché ciò che dalla fine dell’Ottocento andò progressivamente delineandosi, per emergere con maggiore asprezza dopo la fine della Prima guerra mondiale, era una competizione, che poi si trasformò in un conflitto aperto per il controllo delle terre, degli spazi e delle loro risorse, tra due società – l’ebraica e quella araba – che, passo dopo passo, maturarono obiettivi diversi, vissuti, non solo politicamente, come alternativi.

Il Kibbutz, in questa congerie di elementi umani e materiali, ne costituiva forse l’espressione più caratteristica ed emblematica, essendo diventato il simbolo per eccellenza di un’epoca, quella per l’appunto antecedente alla formazione dello Stato d’Israele. Si tratta di un circuito di insediamenti collettivi nati durante la seconda migrazione collettiva, quella del primo decenni del Novecento. Ad onore della cronaca, a tutt’oggi ne esistono circa 270, anche se organizzati in maniera oramai molto diversa tra di loro. Originariamente non erano strutture permanenti bensì piccole unità produttive di 30 o 40 persone, chiamate Kvutzot («gruppi»), prevalentemente concentrate in campo agricolo, la cui funzione era di garantire la possibilità ai propri membri di lavorare insieme così come alle medesime condizioni di ingaggio. L’ispirazione di fondo era stata data da Aharon David Gordon, uno dei leader spirituali e filosofici del sionismo laburista. Degania Alef (il nome deriva dall’ebraico Dagan, «chicco», «grano»), fondato tra il 1909 e il 1910 a sud del lago di Tiberiade, nel punto di congiunzione con il letto del Giordano, è considerato il primo tra i Kvutzot, in seguito trasformatosi in Kibbutz.

Nel 1921 fu invece formalmente istituito il primo di questi, a Ein Harod. La differenza rispetto ai Kvutzot stava nel fatto che i Kibbutzim svilupparono fin da subito una complessa rete di attività, non solo in campo rurale ma anche industriale e nei servizi, cercando l’autosufficienza di rete. Il tutto veniva innervato all’interno di un discorso politico, poiché il modello del villaggio collettivo fu inteso da subito come luogo di identità e di rivendicazione. Peraltro, fino alla metà degli anni Quaranta, si discusse ripetutamente se fosse preferibile mantenere la forma originaria o superarla del tutto a favore del Kibbutz. Il quale, recuperando parte dell’impostazione dei Kvutzot, era basato sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e sull’organizzazione comune per il soddisfacimento dei bisogni dei suoi membri. Trattandosi, in buona sostanza, della concreta applicazione del principio «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue necessità». Alle attività produttive, in campo agricolo prima di tutto, poi in ambito industriale (sia pure con officine perlopiù di modeste dimensioni), si sommò da subito l’impegno educativo e quello culturale, entrambi intesi come concreta realizzazione di una nuova cittadinanza, basata su principi egualitari ma separata dalle comunità arabe circostanti.

Le strutture di base furono quindi da subito fondate sul presupposto che ogni membro dovesse avere voce in capitolo rispetto alle scelte comuni: l’assemblea generale, che sceglie al suo interno un segretario, era la sede decisionale per eccellenza. Di fatto, a partire dagli anni Venti, i Kibbutzim, sempre più organizzati in reti di affiliazione per il reciproco sostegno (storicamente sono tre i gruppi di appartenenza: il Takam (acronimo di Hatnu’ah Hakibbutzit Hame’uhedet, il «Movimento dei kibbutz uniti»), legato al partito laburista; l’Hakibbutz Ha’artzi, associato al Mapam; l’Hakibbutz Badati (del Partito nazionale religioso), costituirono una delle punte di lancia nel processo pionieristico di acquisizione e colonizzazione del territorio (a partire dalla Galilea), motivandosi al principio della priorità del lavoro ebraico per la costruzione di una patria. Pur non raccogliendo la maggioranza della popolazione dell’Yishuv, la loro influenza sul suo sviluppo fu comunque notevole, così come su quello dello Stato d’Israele, soprattutto nei primi anni della sua esistenza, costituendo le comunità dalle quali provenivano le élite della nuova società, per quel che concerneva l’economia e la politica non meno che per l’esercito.

Diverso, se non per certi aspetti addirittura alternativo a queste forme di organizzazione collettivista del lavoro, era e rimane il Moshav («villaggio»), il quale combina sia elementi comunitari che privatistici. L’idea di creare dei Moshavim risale alla Prima guerra mondiale, nell’ambito delle linee di condotta inizialmente assunte dal sionismo palestinese rispetto al rapporto con la terra. Non potendo procedere alla colonizzazione attraverso le sole imprese private, ovvero con il ricorso alle istituzioni di mercato, l’idea di adottare il criterio cooperativistico, fondato sulla mutua assistenza e sulla condivisione di alcuni strumenti di lavoro, raccolse l’assenso del movimento. La famiglia divenne così l’unità produttiva fondamentale, sulla quale reggere l’intelaiatura dell’insediamento. I primi due Moshavim, Nahalal e Kfar Yehezkel, furono così inaugurati nel 1921. Al modello originario del Moshav ovdim, essenzialmente l’insediamento di lavoratori, si aggiunse poi, negli anni Trenta, il Moshav shitufi, l’insediamento cooperativistico che, nella sua fisionomia, cercava di costituire una sintesi con il Kibbutz.

Un altro criterio di relazione con il territorio era il Nahal, acronimo di Noar Halutzi Lohem (il «giovane pioniere combattente»; la parola significa anche «fiume» o «alveo fluviale»), di fatto un avamposto militare costruito come acquartieramento temporaneo, in attesa che venisse sostituito da un insediamento stabile di civili. All’interno di questa struttura, rigorosamente comunitaria, dove la totalità dei servizi era gestita in comune, coloro che ne facevano parte erano al contempo soldati e agricoltori, coniugando all’istruzione militare classica il lavoro con la terra. Il pionierismo rurale si fondeva con l’apprendimento delle competenze necessarie al combattimento, non però all’interno di una struttura statica, quale una caserma o un’accademia militare, bensì nel rapporto diretto con lo spazio fisico da coltivare e da sorvegliare. I giovani militi si riunivano in un Garin (un «nocciolo»), ovvero in una unità di base nella quale condividevano le esperienze della vita di pionieri. La catena di Nahallim costituiva l’intelaiatura del sistema di vigilanza e di colonizzazione ebraica del territorio.

Per capire le dinamiche della diffusione dei Kibbutzim bisogna ragionare sulla struttura culturale e sull’impianto ideologico della visione sionista del mondo. Così come sui flussi migratori. La terza Aliya, tra il 1919 e il 1923, comportò l’ingresso nel paese di circa 35.000 ebrei polacchi e russi, perlopiù legati a tre movimenti politici di natura sionista. Il primo di essi era l’Hechalutz («il pioniere») di Joseph Trumpeldor (1880-1920), pioniere sionista, attivo nella formazione della Legione ebraica dell’esercito britannico, morto a Tel Hay durante un attacco arabo. Hechalutz era di fatto il nome assunto da alcuni gruppi federativi di giovani ebrei della Diaspora che, dal 1880, iniziarono a preparare i loro membri all’immigrazione in Eretz Israel educandoli al lavoro manuale, abituandoli alla vita comunitaria e insegnandogli l’ebraico. Dopo la Prima guerra mondiale la World Zionist Organization ne finanziò le attività. Nel 1921, alla conferenza di Karlsbad, l’Hechalutz si costituì in organizzazione mondiale, istituendo il proprio centro a Varsavia. Pur essendo sionista, proprio per potere mantenere al suo interno il maggiore ventaglio di posizioni, non si schierò mai politicamente. Ma molte delle organizzazione federatevi erano legate ai diversi partiti ebraici. Nel 1935 il movimento raggiunse il suo zenit, raccogliendo quasi centomila aderenti, perlopiù presenti nell’Europa orientale. Con la Shoah il movimento fu di fatto cancellato, insieme ai suoi militanti.

La seconda organizzazione era lo Tze’irei Zion («gioventù di Sion») mentre la terza era costituita dall’Hashomer Hatzair («la giovane guardia»). L’Hashomer è a tutt’oggi un movimento giovanile socialista che si rifà al pionierismo sionista. Il suo obiettivo è di educare quanti ne fanno parte ai principi della vita comunitaria e alla solidarietà di gruppo. Fondato a Vienna nel 1916, nel 1927 istituì l’Hakibbutz Hat’artzi, circuito di insediamenti che assorbivano i membri del movimento nel mentre questi facevano l’Aliya. Nel 1930 nacque la federazione palestinese dell’Hashomer e nel 1936 il movimento costituì il suo primo Kibbutz autonomo, Nir David (nome dato in onore di David Wolffsohn, che rimpiazzò l’originario Tel-Amal). Durante la Seconda guerra mondiale i membri dell’Hashomer che vivevano in Unione Sovietica combatterono nell’Armata rossa mentre quanti si trovarono nei paesi occupati dai nazisti si impegnarono nella Resistenza. Una parte dei combattenti del ghetto di Varsavia, a partire dal loro comandante Mordechai Anielewicz, proveniva dai ranghi del movimento. Tra il 1945 e il 1948 l’Hashomer fu parte attiva nell’immigrazione clandestina in Eretz Israel. Ideologicamente vicino al marxismo, dal 1948 l’Hashomer si affiliò al partito Mapam, Mifleget HaPoalim HaMeuhedet, il «Partito unificato degli operai», di area socialista, dissoltosi infine nel 1997.
L’influenza delle idee socialiste, soprattutto nella variante marxista, era infatti prevalente. Ad esse si riconnettevano richiami alle nuove correnti della psicologia, della sociologia e della pedagogia sviluppatesi nei paesi di lingua tedesca prima della Grande guerra; non di meno dell’adesione, almeno nelle forme di condotta e in alcuni motivi di fondo, ai movimenti giovanile pionieristici, a partire dai Wandervogel, gli «uccelli migratori», i gruppi di “esploratori” che all’epoca di Guglielmo II, in una Germania altrimenti rigida e autoritaria, manifestavano il rifiuto delle convenzioni dominanti attraverso lo scoutismo e il rapporto con la natura. I Kibbutzim furono per buona parte pervasi da questa congerie di motivi, suggestioni, speranze (e anche, a volte, disillusioni).

Il tratto comune all’insieme di questi convincimenti, che non poca parte ebbero nel motivare la scelta di immigrare in Palestina e di rimanervi, era un rifiuto generazionale verso tutto quanto era concepito come arcaico e anacronistico poiché simbolo di subalternità e sottomissione alle condizioni date. Sospeso tra idealismo volontaristico e realismo operativo, il sionismo socialista, lungi dal potere essere ridotto alla mera adesione ad una teoria politica, sommava in sé anche e soprattutto i caratteri contraddittori di quella profonda trasformazione culturale che l’Europa stava attraversando da alcuni decenni. Pensandosi principalmente come nemesi storica e catarsi morale dell’ebraismo – non meno che degli ebrei – attraverso il lavoro, ossia il rapporto fisico con le cose e l’impegno personale, in un ambito collettivistico, per la trasformazione delle condizioni di vita comuni.
La sintesi di tutto era il movimento degli Halutzim, i «pionieri» per l’appunto, che erano cresciuti, nei loro paesi d’origine dell’Europa orientale, a stretto contatto sia con le profonde trasformazioni sociali e politiche che vi si stavano consumando sia con le trepidazioni, ma anche gli attendismi, delle locali comunità ebraiche. Rivendicavano il loro ebraismo ma, capovolgendo il criterio d’approccio tradizionalista, lo declinavano come identità nazionale e sociale e non come dato strettamente ed esclusivamente religioso. La nuova società ebraica, secondo una tale ispirazione, sarebbe stata tenuta insieme non da un insieme di credenze di ordine prettamente spirituale bensì da una morale sociale e civile innervata nel contesto culturale, politico e ideologico del socialismo. Il quale era inteso perlopiù come anelito di giustizia, ideale di fratellanza, pratica di egualitarismo, che non come dottrina della storia e teoria della lotta di classe.

In questo quadro assunse ben presto rilevanza la fondamentale questione dell’autodifesa. L’impossibilità di rispondere individualmente alle aggressioni altrui, tanto più quando erano sistematiche e continue, aveva contrassegnato in maniera negativa buona parte della storia ebraica nell’età della dispersione e dell’Esilio. Se Israele nasce come progetto volto a costruire una società nazionale, la capacità di tutelare l’integrità fisica di quanti ne avrebbero fatto parte fu da subito intesa come una precondizione imprescindibile e irrinunciabile. Con il passare del tempo il problema sarebbe divenuto endemico, da occasionale e sporadico quale invece originariamente era, in rapporto soprattutto all’evoluzione del movimento nazionalista arabo. Agli Halutzim si dovevano quindi unire gli Shomrim (i «custodi»), spesso nella stessa persona pioniere e guardia al medesimo tempo. A partire da questi primi tentativi di istituzionalizzazione di elementari forme di difesa, sarebbero poi derivate l’Hashomer («la guardia»), tra il 1909 e il 1920, l’Irgun haHaganah (l’«organizzazione di difesa») e poi l’Haganah, destinata a diventare il soggetto paramilitare da cui sarebbero figliate, nel corso del tempo, le forze armate dello Stato d’Israele.
Se queste sono le originarie basi storiche dei Kibbutzim, la loro evoluzione storica meriterebbe una trattazione a sé. Al presente, buona parte di essi si è già da diverso tempo convertita in qualcosa di molto diverso rispetto a ciò che erano in origine. Transitati attraverso le trasformazioni che hanno interessato lo Stato d’Israele, il profondo cambiamento economico che coinvolse l’intera società, tra gli anni Settanta ed Ottanta, fu decisivo nell’accelerarne l’evoluzione. Della quale, prima o poi, riprenderemo il discorso in materia.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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