Joi with
Sul 25 Aprile, ovvero di partigiani, antifascismo, cortei e bandiere

Il 25 Aprile è la data che più di tutte definisce la nostra coscienza civile, momento che ci riporta al nostro antifascismo. Da qualche anno è anche catalizzatrice di violente polemiche. Come ci siamo arrivati, e come muoversi ora?

Molti anni fa, un pomeriggio, il mio amico Guido Lopez z”l – che il suo ricordo sia di benedizione – mi invitò a fare un gioco. Disse di prendere un foglio, scrivere le definizioni, perfino le più bizzarre, in cui mi riconoscevo. «Quello che ti viene in mente», insistette, «italiano, milanista, milanese, maschio, ebreo, europeo, giornalista, simpatico o antipatico, di sinistra o di centro (a quei tempi, di destra era una categoria che non si prendeva neppure lontanamente in considerazione, NdR), timido, giovane… quello che ti passa per la zucca, senza filtri». Poi si sedette al mio fianco nel salotto della sua bella casa e, in assoluto silenzio, attese. «Bene. Adesso cancella la parola che ti pare meno importante». Fatto, mi par di ricordare che sbarrai milanista. «Continua», sollecitò Guido, «continua finché rimarrà una sola parola». Esercizio in realtà difficile, complesso, ci misi un bel po’. Terminai e lui fece uno dei suoi dolcissimi sorrisi. Sulla carta rimaneva scritto ebreo; e l’ultima parola cancellata appena prima era stata antifascista. «Ecco Stefano, la tua identità più profonda, viscerale è il tuo essere ebreo… e antifascista».

Mi sa che il test di Guido ci aveva beccato. Da quarant’anni non ho praticamente mai saltato un corteo del giorno della Liberazione. Quasi sempre a Milano, qualche volta, dopo che è morto mio suocero, nelle zone dell’Appennino tosco emiliano dove fu partigiano. Sempre a testa scoperta, com’è mio uso abituale. Unica eccezione: il 25 Aprile 1983 (nell’ottobre ’82 c’era stato l’attentato alla sinagoga di Roma), quando andai in piazza con la kippà.

Perché, diciamolo, noi ebrei italiani l’antifascismo l’abbiamo respirato in casa da appena nati. Non a caso, per decenni dopo aver riacquistato la libertà le Comunità votavano per lo più socialista, repubblicano, comunista (la storia è cambiata; meglio lasciar perdere, almeno in questo articolo).

Ma non tutto è semplice come potrebbe sembrare. Man mano che trascorrevano gli anni, ogni 25 Aprile, simbolo in realtà di collocazioni ben più complesse, diventava un piccolo/grande dramma personale (e collettivo perché di cittadine/i simili a me ce ne sono sempre stati davvero parecchi).

Siamo ebrei perché siamo ebrei, siamo antifascisti perché lottiamo contro razzismi, dittature, prevaricazioni e soprusi, mancanza di libertà.

Andiamo per ordine cronologico. Un ordine che deve tenere conto della Shoah. Figli di sopravvissuti – chi tornato dai campi di sterminio, chi riuscito a rifugiarsi in Svizzera – sentivamo quel macigno identitario pesarci sul cuore prima ancora che sulla coscienza politica, e così in mancanza d’altro ci mettevamo a sfilare dietro ai vessilli dell’ANPI o dei partiti a cui ci sentivamo più vicini. Vien da sorridere se penso al numero di bandiere che ho seguito, differenti eppure per me uguali: Pci, Pds, Ds.

Un pomeriggio di sole, tra noi girò la voce: appuntamento in via Bagutta dove c’è la sede dell’ANED. Così, sentendoci quel giorno ancora più vicini ai pezzi delle nostre famiglie cancellate dalla storia, camminammo dietro ai grandi cartelli neri con scritto in bianco Auschwitz, Belzec, Bergen Belsen, Buchenwald, Bolzano, Flossenbürg, Risiera di San Sabba, Dachau, Drancy, Fossoli, Majdanek, Mauthausen, Ravensbrück, Sobibor, Treblinka e tutti gli altri nomi dell’orrore.

Ma l’impegno civile premeva, e come molti altri tornai a seguire ANPI e partiti. Pensavo e continuo sempre più a pensare che l’antifascismo sia strettamente connesso con la Shoah, ma che non si debba né si possa assolutamente esaurire lì (come l’essere ebreo: trovo “sbagliato”, senza senso e un poco irritante sentirsi e dirsi ebrei perché «i miei parenti non sono mai tornati»). Siamo ebrei perché siamo ebrei, siamo antifascisti perché lottiamo contro razzismi, dittature, prevaricazioni e soprusi, mancanza di libertà. Di ieri, di oggi e di domani. Ovunque. D’altronde siamo cresciuti con l’eco familiare di quel discorso di Carlo Rosselli a Radio Barcellona nel 1936 «Oggi qui, domani in Italia», che tanto riecheggia l’«oggi siamo qui schiavi in terra d’Egitto, domani saremo liberi in terra d’Israele». A ogni seder di Pesach lo ripetiamo: «L’shanah haba’ah birushalaim, l’anno prossimo a Gerusalemme», come se vivessimo ancora in schiavitù – cosa a cui questo mondo sempre più troppo somiglia.

Per questo abbiamo nel cuore, indelebile, la memoria dei “nostri partigiani”, circa duemila tra combattenti e patrioti, il 4 per cento della popolazione ebraica, di gran lunga superiore alla percentuale degli italiani nel loro complesso. Un centinaio cadde in combattimento o arrestato,  ucciso, deportato. Otto medaglie d’oro (Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Eugenio Calò, Mario Jacchia, Rita Rosani, Sergio Forti, Ildebrando Vivanti, Sergio Kasman). Tra gli ebrei resistenti mi piace ricordare Enzo Sereni ed Emilio Sereni, Vittorio Foa, Carlo Levi, Primo Levi, Umberto Terracini, Leo Valiani, Elio Toaff. Tra i caduti, il bolognese Franco Cesana, il più giovane partigiano d’Italia (13 anni), Ferruccio Valobra, la triestina Rita Rosani, l’emiliano Mario Finzi, l’intellettuale Leone Ginzburg. E Emanuele Artom: i suoi Diari, ripubblicati da Bollati Boringhieri a cura di Guri Schwarz sono pagine ricche di vita ebraica e di vita partigiana. Tanto per capirci: il 1° dicembre 1943, riferendo dell’ordine di arresto di tutti gli ebrei emanato il giorno precedente dal governo fascista, il giovane ebreo piemontese scrive: «Che cosa ne sarà della mia famiglia? Forse non vedrò più né mio padre né mia madre. In questo caso chiederò al comandante di essere mandato in una missione tale da essere ucciso». Fu invece lui a essere arrestato da SS italiane: denunciato da una spia quale commissario politico e quale ebreo, morì in carcere il 7 aprile 1944 dopo sevizie inenarrabili.

Eppure il 25 Aprile ebraico può significare lacerazioni, anche profonde. Succede da qualche anno. Non prendo neppure in considerazione la questione dei cosiddetti filo-palestinesi che sommergono di insulti, minacce e sputi la parte del corteo occupato dalla Brigata Ebraica e dai volontari del PD e dei City Angels che la proteggono. Che cosa c’entra il conflitto israelo-palestinese con la Liberazione dell’Italia e la guerra partigiana? Nulla. E a guardare bene in faccia il manipolo che in piazza San Babila si esibisce in sceneggiate di chiaro stampo fascista si capisce quanto, appunto, ci sia ben poco di filo-palestinese nel senso della ricerca di una pace giusta tra due popoli che hanno/avrebbero diritto a vivere in pace e sicurezza. Il fatto è che anche le bandiere di Israele non hanno alcunché da spartire con quelle delle Brigate Matteotti e Garibaldi, i Gap, con i colori di Giustizia e Libertà e le altre sigle di chi in montagna e in città diede la vita per la nostra libertà di italiani, tutti. Israele non esisteva ancora. Allora perché forzare la storia per pura propaganda “politica”? Per fortuna ci sono persone di buona volontà che invece di “giocare” con lo scontro e la contrapposizione interna alla Comunità si impegnano, e alla fine dimostrano concretamente la ricerca di una condivisione antifascista. Da qualche anno sono infatti comparse decine di vessilli con lo stemma “vero” della Brigata Ebraica, che in effetti è assai simile alla bandiera israeliana, ma che un occhio attento riconosce come originale e non strumentale. Così vengono onorati i volontari che dalla Palestina si unirono alla VIII Armata Britannica e combatterono in Italia con un alto tributo di caduti. E non a caso chi segue oggi quello spezzone del corteo è passato da poche decine a diverse centinaia di cittadini, ebrei e no.

Anche questa è inclusione, apertura, o no?

Ecco, il nostro 25 Aprile è questo. Di sicuro è il mio.

Stefano Jesurum
Redazione JOI Mag
Stefano Jesurum è nato a Milano nel 1951 ed è giornalista dal 1976. Tra i fondatori di La Repubblica, ha lavorato per il Nuovo di Firenze, il Giorno, l’Europeo, il Corriere della Sera, la RAI. Autore di saggi, racconti e romanzi. Attualmente collabora con Gli Stati GeneraliPagine Ebraiche e, ovviamente, JOIMag. Marito di Carla, papà di Rachele, nonno di Annele.

4 Commenti:

  1. Grazie! magistrale per come chiarisci questioni date per scontate. Mi sono presa la libertà di inoltrarlo perché insegna in poche dense righe “i fondamentali”. Ce n’era bisogno. Anna

  2. Bello e condivisibile articolo.
    Mi dispiace non leggere più i suoi articoli su Sette del Corriere,un settimanale che mi piaceva molto,ora non più. Non vale la pena di seguire nessun corteo tanto non sanno neppure più il significato di ciò che stanno “festeggiando”. Ricordo bene. Guido Lopez e sua moglie miei vicini di casa, io stavo al 7 di via Pancaldo e loro al 9 , però entrambi al secondo piano. Persone acquisite. La ringrazio per tutti ciò che scrive.
    La saluto cordialmente e a presto.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.