In quel giorno venne votata la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite. Ovvero, il piano per la creazione di due stati, uno ebraico e uno palestinese. Pochi mesi dopo nacque lo Stato d’Israele e il mandato britannico abbandonò il suo protettorato
Il 29 novembre 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Uniti, con la Risoluzione 181, votava a favore del Piano di Spartizione della Palestina mandataria in due stati, uno ebraico e uno palestinese (Gerusalemme sarebbe stata corpus separatum sotto l’amministrazione delle NU), che veniva approvata con 33 voti favorevoli, 13 contrari, 10 astenuti e 1 assente, ponendo le basi per la fondazione dello Stato di Israele, avvenuta il 14 maggio 1948, giorno il cui il Mandato Britannico lasciò il suo protettorato.
Tale risoluzione, fondamentale per la costituzione dello Stato di Israele, è stato il risultato di anni di lavoro da parte di quegli ebrei che vivevano in Palestina già da secoli e di coloro che sono arrivati successivamente, con il dilagare dell’antisemitismo in Europa: dai pogrom nella Russia zarista al celebre Affare Dreyfus che spinse Theodor Herzl, nel 1903, a scrivere il primo manifesto sionista: AltNeuland , L’antica Nuova Terra, ovvero “un Paese nuovo per un popolo antico” che tanto ispirò il movimento sionista moderno fino alla fondazione dello Stato di Israele.
Sfortunatamente, il mondo arabo non ha accettò la proposta di spartizione del territorio come previsto dalla Risoluzione 181 e nel giro di meno di 24 ore dalla fondazione dello Stato d’Israele, il 15 maggio 1948, Israele veniva attaccata da sette Stati arabi limitrofi – Egitto, Siria, Libano, Giordania, Iraq, Yemen, Arabia Saudita – determinando il primo di una serie di conflitti tra il popolo ebraico e quello palestinese, che hanno portato all’ultimo, cominciato il 7 ottobre, come conseguenza al massacro di Hamas nei confronti dei civili che vivevano nei kibbutz vicini alla Striscia di Gaza.
Da allora furono cinque le occasioni mancate da parte del popolo palestinese, e dei suoi vicini arabi, per la costituzione di uno Stato palestinese.
Nel 1937, mentre la Grande Rivolta Araba durante il Mandato Britannico era ancora in corso (terminerà nel 1939), la Commissione Peel suggeriva un piano di spartizione del territorio palestinese per la costituzione di due stati, uno ebraico e l’altro arabo, che la popolazione araba rifiutò.
Nel 1967, a seguito della Guerra dei Sei Giorni, Israele, dopo la vittoria, propose di restituire i territori palestinesi conquistati in cambio di Pace ma ottenne un netto rifiuto (Risoluzione di Karthoum emessa al termine del vertice della Lega Araba). L’intervento delle super potenze si tradusse nella Risoluzione 242 delle Nazioni Unite che subordinava il ritiro israeliano dai territori occupati allo stabilirsi di una pace “giusta e duratura” e alla cessazione delle attività terroristiche da parte dei palestinesi. Israele vi aderì, così l’Egitto e la Giordania, mentre i palestinesi che avevano l’appoggio della Siria la rifiutarono.
Nel 2000, a Camp David, aveva luogo il vertice di pace in Medio Oriente tra il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, il primo ministro israeliano Ehud Barak, ed il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Yasser Arafat, per negoziare – come conseguenza degli Accordi di Oslo stipulati nel corso degli anni Novanta – la conclusione definitva e permanente del conflitto israelo-palestinese.
Ehud Barak, anche in seguito alle pressioni del presidente Bill Clinton, offrì ad Yasser Arafat uno Stato palestinese costituito dall’attuale Striscia di Gaza, il 90% della Cisgiordania, il ritorno di un limitato numero dei profughi palestinesi e un indennizzo per gli altri. Con una mossa estremamente criticata anche dalla comunità internazionale Arafat rifiutò l’offerta di Barak senza, peraltro, presentare alcuna controproposta.
Infine, nel 2008, il primo ministro israeliano Ehud Olmert, propose al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas un piano, molto simile a quello offerto precedentemente, che prevedeva uno Stato Palestinese con il 93% dei territori e una compensazione con territori appartenenti a Israele. Il piano venne rifiutato anche questa volta.
Da allora, gli accordi di pace sono stati congelati fino al 2020, con la stesura degli Accordi di Abramo: una dichiarazione congiunta assieme agli Stati Uniti, per la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, che nel 2023 prevedevano anche la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita, che si sarebbero dovuti siglare in ottobre.
Secondo molti esperti in materia, questa sarebbe anche una delle ragioni principali che avrebbe portato al feroce attacco di Hamas del 7 ottobre, poiché il gruppo terrorista sosteneva che tali accordi non prevedessero la costituzione di uno Stato palestinese, come invece era stato proposto e siglato già nel 2020.
Va ricordato, invece, che nel suo statuto del 1988, Hamas, oltre a non riconoscere l’esistenza dello Stato di Israele, ne prevede la distruzione, proprio come hanno tentato di fare il 7 ottobre. La carta costitutiva di Hamas dichiarava, infatti, esplicitamente, che il suo obiettivo è di “sollevare la bandiera di Allah sopra ogni pollice della Palestina, eliminare lo Stato di Israele e sostituirlo con una Repubblica Islamica”.
Per questa ragione, oggi più che mai, la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite riguardo alla spartizione del Mandato Britannico in Palestina risulta una pietra fondante che dovrebbe anche fare da monito contro gli istigatori all’odio che ancora oggi, dopo 75 anni, non riconoscono l’esistenza dello Stato di Israele.
Tra questi, risultano anche gli oltre 4000 professori universitari italiani che il 10 novembre 2023 hanno firmato un appello per boicottare la collaborazione tra università italiane ed israeliane. Tra le motivazioni dell’appello infatti, si legge, l’“illegale occupazione che Israele impone alla popolazione palestinese da oltre 75 anni” mettendo in discussione la stessa fondazione dello Stato di Israele, come sancita della Risoluzione ONU 181, del 29 novembre 1947.
Non si sa se chi ha firmato non ne fosse al corrente o, peggio ancora, abbia firmato senza leggere il testo. In entrambe i casi questo episodio mette in luce come la scarsa conoscenza dei fatti storici possa produrre, oltre a disinformazione, una spirale di odio non solo tra studenti e docenti, ma nell’intera opinione pubblica.
Il confitto in Medioriente, infatti, procede, da sempre, parallelamente, su due fronti. Da un lato sul fronte militare, in questo caso a Gaza. Dall’altro sul fronte mediatico su scala internazionale, come si assiste durante le manifestazioni in corso nelle grandi capitali europee e americane e, peggio ancora, nei loro atenei.
Luoghi che, per la loro isituzione, dovrebbero promuovere il dialogo, il pensiero critico e svolgere un ponte tra le culture: unire e non dividere, come invece viene fatto ogni qual volta si promuove un boicottaggio. Che si tratti, infatti, della collaborazione tra università, della Fiera del Fumetto di Lucca o, e speriamo proprio di no, della prossima Biennale di Venezia – che nel 2022 aveva lasciato fuori la Russia – ogni boicottaggio produce, di fatto, l’isolamento proprio di coloro che, si tratti di artisti, fumettisti o docenti, rappresentano il pensiero critico nei confronti del proprio governo.
Così come tutti i professori universitari che per 39 sabati consecutivi hanno sfilato contro il governo Netanyahu e che ora lo stanno facendo a fianco delle famiglie degli ostaggi a Gaza: 240, appartenenti a 28 nazionalità, tutti dimenticati dal mondo e dall’ONU, che fu promotore di quella Risoluzione senza la quale, oggi, non potrebbe esistere lo Stato di Israele.
Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.