Cultura
Sul buon uso della Memoria

Verso il 27 gennaio: qualsiasi discorso sulle deportazioni e sulla Shoah, in Italia ed in Europa, non può in alcun modo derogare da un’indagine sul sistema politico, il circuito istituzionale e i processi ideologici che furono all’origine di essi

La legge 211 del 2000, istitutiva del Giorno della Memoria come ricorrenza civile nazionale, ha formalizzato e concorso ad istituzionalizzare il già ampio insieme di attività che la società italiana andava da tempo svolgendo a favore della memoria e contro il razzismo, facendo sì che le amministrazioni pubbliche, il mondo della politica e il vasto circuito di enti che fanno capo allo Stato ne riconoscessero definitivamente il valore civile. Più in generale, il complesso della legislazione del nostro Paese in materia memorialistica si inserisce nel più articolato quadro delle attività che l’Unione europea va svolgendo per generare una coscienza diffusa, e sufficientemente unitaria, rispetto al passato recente della storia continentale. L’obiettivo è quello di ricondurre ad una consapevolezza comune storie nazionali che, nelle loro peculiarità, sono state comunque attraversate da fenomeni omologhi o per più aspetti assimilabili. La Seconda guerra mondiale, come evento bellico complesso – quindi non solo militare -, caratterizzato dallo sterminio di popolazioni indifese o comunque da violenze indicibili contro i civili, si inscrive a pieno titolo in questo ambito.

Tuttavia, la riflessione va ben oltre il medesimo conflitto guerreggiato per coinvolgere l’intero Novecento, inteso come secolo dei diritti ma anche come tempo dei «totalitarismi». L’Ue, infatti, racconta se stessa, quindi la sua medesima ragione d’essere, come risposta politica ma anche istituzionale, civile e morale di lungo periodo ai deliri della storia trascorsa. Ciò vale soprattutto nei riguardi del rischio di ricadute nell’autoritarismo, nell’illiberalismo e nella riorganizzazione antidemocratica delle società continentali. Se il passato ha originato fenomeni diffusi e persistenti come il nazismo, i fascismi, lo stalinismo e i comunismi dell’Europa continentale, accomunati, pur nelle loro intrinseche diversità, da una comune radice assolutista, dittatoriale e tirannica, l’attuale organizzazione comunitaria intende invece presentarsi come la risposta definitiva alle rovine trascorse, attivando tutti i necessari antidoti affinché esse non si ripetano.

L’Unione europea ha quindi acquisito tra i suoi fondamenti, come presupposto di principio, il richiamo al paradigma antitotalitario: l’unico Continente accettabile è quello che rifiuta gli esperimenti che rovinano le democrazie pluralistiche; queste ultime sono peraltro fondate su una visione liberale degli uomini così come dei loro rapporti sociali, al cui centro si pongono i diritti individuali e le libertà che ne derivano. A fondamento dell’intero percorso memorialistico, che fa da supporto a questo approccio, non c’è solo il ricordo della Shoah ma anche la memoria del comunismo, quest’ultima particolarmente accesa nei Paesi dell’Europa orientale. Più volte le istituzioni comunitarie, a partire dal Parlamento europeo e dalla Commissione, si sono espresse sollecitando l’adozione da parte delle assemblee legislative nazionali di dispositivi di legge che si adoperino per sollecitare la consapevolezza del rilievo del passato nelle rispettive cittadinanze. Proprio su questo passaggio si sono espresse con le loro maggiori riserve, e non a caso, quelle forze che si richiamano al populismo e al sovranismo. Tali in quanto trovano una loro radice comune nello scetticismo programmatico contro le funzioni sovra-ordinate dell’Ue. Esse infatti dubitano dell’impegno per dare corpo e spirito ad una «memoria condivisa». In ciò hanno voluto leggere soprattutto il disegno di una volontà ispirata all’omologazione delle traiettorie nazionali, quindi poco o nulla rispettosa delle peculiarità dei singoli paesi.

Non è per nulla estraneo, in alcuni casi, anche l’esplicito rifiuto espresso da alcune di queste forze nei confronti del secco giudizio negativo che si accompagna alla lettura complessiva del passato dittatoriale, semmai recuperando selettivamente alcuni aspetti di esso, a partire da un’irrisolta simpatia per alcuni tratti del fascismo storico. Il caso della memoria “claudicante” in Ungheria – laddove elementi della presenza fascista nel paese sono stati in parte, se non del tutto, riabilitati – così come la commistione che qualche nazione dell’Est europeo sussiste tra il rigetto dell’esperienza comunista e rifiuto di adoperarsi al medesimo modo riguardo alla tragedia dell’occupazione nazista, costituiscono un indice di un tale stato di cose.

Parlare di Shoah, in questo casi, diventa molto più difficile in quanto entrano in gioco fattori molteplici e non sempre neutralizzabili: ad esempio, il convincimento che il fuoco del proprio dolore riposi nell’esperienza del dominio sovietico e non nell’occupazione nazista; la richiesta, in sé per nulla incomprensibile, di vedere riconosciute evidenze della propria storia nazionale, che non coincide con quella dell’Europa occidentale; ma anche la persistenza di movimenti, gruppi e tracciati ideologici che rivendicano apertamente la legittimità del fascismo così come la deliberata intolleranza nei riguardi di qualsiasi discorso che evochi la rilevanza storica dello sterminio razzista degli ebrei, soprattutto laddove ciò facendo si richiami invece il vincolo di una rilettura critica del proprio passato nazionale. A volte, sotto il manto della rivendicazione di un’autonomia di giudizio, si manifesta anche la programmatica indisponibilità verso gli ebrei, ovvero nei riguardi della loro immagine pubblica deformata dai discorsi antisemitici, che perdura in alcuni significativi settori delle società locali.

Più in generale, al netto delle singole declinazioni di parte, c’è chi ha comunque colto il rischio che il paradigma totalitario faccia strame della complessità del passato, omologandone molti aspetti sotto il coperchio di un giudizio di valore per il quale qualsiasi esperienza o vicenda estranea ai principi liberali debba essere inesorabilmente riletta come manifestazione patologica delle società in cui si manifesta. A prescindere dai suoi contenuti di merito. Il tema è molto più profondo di quanto non possa sembrare ad un approccio di superficie. Rimanda alla questione dell’«ideologia della fine delle ideologie», ossia quell’approccio per il quale, con la fine del bipolarismo e il tramonto del sistema sovietico, si sarebbe concluso il confronto tra diversi modelli di organizzazione della società, vedendo trionfare una volta per sempre quello di impianto non solo liberaldemocratico ma anche capitalista. Inoltre, si inscrive a pieno titolo anche nell’analisi della piegatura che il populismo euroscettico fa sia del rigetto del paradigma totalitario medesimo, quando propone invece il recupero selettivo di segmenti del passato (in genere riabilitando elementi del fascismo storico), così come dal momento in cui introduce una “par condicio” per la quale l’equivalenza dei trascorsi totalitari annullerebbe qualsiasi propensione al cambiamento delle società che non sia quella espressa dal populismo medesimo. Argomenti complessi, questi ultimi, che non possono essere liquidati con un tratto di penna o facendo spallucce, poiché rimandano al tema di come rileggiamo il passato per comprendere ed interpretare prima di tutto il nostro presente.

Qualsiasi riflessione sull’efficacia e la pertinenza degli effetti della legge istitutiva del Giorno della Memoria va quindi inscritta in questa cornice comune, senza la quale si rischia di cogliere assai poco della sua funzione di ampio respiro. Essa peraltro arrivava a seguito di un lungo periodo di elaborazione e gestazione, ossia una decina di anni dopo rispetto ai percorsi che avevano portato alla consunzione del sistema di accordi politici e di prassi istituzionali conosciuti come «prima Repubblica». Anche questo aspetto va debitamente considerato, in quanto il dispositivo contenuto nella norma legislativa era figlio dell’età che lo aveva prodotto, segnata sia dalla crisi dell’antifascismo così come dall’estinzione dell’«arco costituzionale», il circuito di forze politiche che avevano dato origine alla redazione, all’approvazione e all’applicazione della Costituzione repubblicana. Non è un caso, quindi, che in virtù del sistema della contrattazione partitico-parlamentare, nel 2004 si era poi aggiunta la legge 92, ad istituzione del Giorno del Ricordo, per «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». L’ingresso nell’agone pubblico di quest’ultima legge rispondeva a quel criterio di par condicio che, al netto delle sofferenze storiche singolarmente commemorate, nel contesto politico odierno svolge la funzione essenziale di leggere il passato secondo il presupposto per cui ogni parte ha le sue colpe. Di fatto, in più occasioni, rimanendo inchiodata ad una tale attribuzione di responsabilità. In un esercizio di paralisi reciproca.

In Italia, al riguardo, la legge per il Giorno della Memoria ha individuato due target privilegiati, ossia la scuola (quindi la formazione) e la comunicazione (ovvero l’informazione). Quanto tutto ciò, dal 2000 in poi, si sia effettivamente tradotto in una maggiore coscienza e consapevolezza tra la collettività non è tuttavia altrettanto facile dirlo con assoluta certezza. Di certo si parla del complesso fenomeno delle persecuzioni e delle deportazioni in misura e proporzioni molto più ampie che nel passato. La scuola italiana, e i mezzi di comunicazione, hanno offerto ampio spazio al riguardo. Non sempre la quantità è comunque indice di pari qualità. Rimane il fatto che se si voleva raccogliere interesse, ciò si è per più aspetti verificato. Senz’altro con riscontri diseguali ma comunque diffusivi rispetto ad un immaginario collettivo dove senz’altro la storia fatica ad affermarsi mentre la cognizione di segmenti del passato transita quasi sempre attraverso il rimando al loro clamore.

Va detto, non di meno, che la coscienza, sia individuale che collettiva, di un evento storico non dipende solo dalla quantità di informazioni di cui si alimenta ma dalla sua capacità di elaborarle criticamente, così come dalle condizioni in cui tale impegno viene profuso. Non si tratta esclusivamente di opinioni, cognizioni e sentimenti ma anche di atteggiamenti che derivano dal modo in cui le società vivono ed operano, quindi dalle situazioni concrete, ovvero materiali, nelle quali ci si trova ad interagire comunemente. L’analisi del processo storico che produsse lo sterminio induce infatti a ritenere che l’essere antisemiti, in buona sostanza, non implichi necessariamente il presentarsi come “cattivi”, tali poiché animati da una vocazione sadica e persecutoria. Conta semmai la disposizione d’animo di reagire a certe sollecitazioni usando determinati codici collettivi basati sul pregiudizio. I quali, a loro volta, dipendono sia dalla cultura di riferimento sia dal modo in cui ogni individuo vive il suo tempo e ciò che esso gli riserva, leggendolo come opportunità ma anche in quanto insieme di vincoli. A volte così stringenti da dovere trovare un capro espiatorio.

Per rimanere nell’ambito della natura stessa della comunicazione storica e, con essa, del contenuto della legge per il Giorno della Memoria, va detto che la pedagogia sociale è indispensabile ma la costruzione di un carattere collettivo antiautoritario, unico antidoto al ripetersi delle tragedie del tempo, deve confrontarsi sempre con le reali condizioni di vita delle persone e delle collettività. Se queste sono costantemente frustrate nelle loro aspettative, se vengono offese nella speranza di un qualche futuro, se rimangono al palo della vita, il rischio che la percezione che hanno della loro marginalità si trasformi, ancora una volta, in risentimento e, quindi, in avversione contro qualcuno o qualcosa che fungono da valvole di sfogo della rabbia da impotenza, è dietro l’angolo. La lotta contro l’imprenditoria politica del razzismo, ossia i gruppi, i partiti e i movimenti che usano l’odio a proprio beneficio, deve quindi concentrarsi su molti piani, da quelli più strettamente culturali a quelli legati ad una giustizia sociale reale e non solo di facciata.

Tutto questo, ed altro ancora, per evitare, ragionando sul buon uso della memoria, e sugli effetti di lungo periodo della legge 211, di cadere nei tranelli di un rifiuto precostituito della sua funzione civile così come, alternativamente, di un’apologia acritica, di natura sentimentalista. L’uno atteggiamento e l’altro sono infatti speculari, nell’intrinseca debolezza con i quali si manifestano, in genere esercitandosi esclusivamente sulla dimensione di attenzione per le vittime che la norma sollecita e quindi evitando di assumere una periodizzazione storica assai più ampia e comprensiva. Qualsiasi discorso sulle deportazioni e sulla Shoah, in Italia ed in Europa, non può in alcun modo deflettere o derogare da un’indagine sul sistema politico, il circuito istituzionale e i processi ideologici che furono all’origine di essi.

Nel caso italiano, quindi, l’impegno deve concentrarsi anche  – e soprattutto – sulle leggi razziali (e razziste) del 1938, che eleggevano il razzismo a dottrina di Stato. Di esse, nell’interpretazione di quei provvedimenti, va esclusa la lettura riduttiva, quasi compiaciuta, comunque falsamente rassicurante, nella quale si afferma che si trattassero di una concessione all’alleanza con la Germania di Hitler. Di certo l’Italia adottava standard di pregiudizio viscerale, che nel Terzo Reich erano già da tempo moneta corrente, anche per rafforzarsi nella contrattazione politica con il «camerata germanico». Ma lo faceva da basi proprie, con una scelta autonoma e sulla scorta di motivazioni a sé stanti. Sicuramente vi era infatti nell’Italia fascista una diffusa disposizione d’animo verso un “razzismo quotidiano”, non destinato a trasformarsi in una viatico per lo sterminio ma senz’altro in grado di abbassare le soglie di attenzione verso l’imbarbarimento in atto. Il regime fascista lo aveva alimentato sapientemente, usandolo come strumento di governo del consenso tra la maggioranza degli italiani verso le sue politiche. Lo stesso dispositivo ideologico e retorico del fascismo, peraltro, si alimenta da sempre di una visione razzistica delle società, sostituendo il conflitto tra nazioni, intese come «razze», ai conflitti sociali e politici, questi ultimi abrogati (ossia impediti) nel nome di una concezione totalitaria e quindi organicista delle relazioni collettive.

Non di meno, in quanto antecedente alla passaggio verso l’antisemitismo come politica di Stato, si pone senz’altro la guerra coloniale del 1935-1936 in Etiopia, per la costruzione di un «impero», i cui fatti bellici furono preceduti e accompagnati da un vero e proprio martellamento propagandistico sulla natura razziale del confronto, sulla necessità che l’Italia stabilisse un dominio non solo politico ma anche etnico e, quindi, razziale riguardo a società e popoli «inferiori» e così via. A ciò va sommato l’antislavismo mussoliniano, ossia la propensione a ritenere l’Est europeo, a partire dai Balcani, in quanto sponda orientale dell’Adriatico, come un terreno elettivo sul quale stabilire egemonie o comunque aree di influenza dinanzi a popolazioni ritenute assoggettabili. Nel fascismo italiano esisteva peraltro da sempre una corrente antisemita, rappresentata da alcuni esponenti del partito e del regime, che con il 1938 trovò pieno e autorevole riscontro alle sue posizioni. Infine, a queste considerazioni va aggiunto il fatto che l’insieme della normativa antiebraica, così come la campagna di delegittimazione culturale, civile e morale contro gli ebrei che la connotava, si realizzò con l’avallo dell’istituzione monarchica, cosa distinta dal regime fascista in quanto tale. Si aveva a che fare con un antisemitismo di Stato e non solo di regime. Non importa quanto i suoi estensori potessero esserne intimamente convinti o meno; conta semmai il riscontro fattuale che tutti fecero scelte irreparabili, al contempo tragiche e disastrose. Per le vittime dirette ma anche per l’intero Paese.

Il sistema di oppressione, repressione, persecuzione e distruzione nazista era complesso, stratificato e variamente utilizzato, a seconda delle categorie di vittime prese a bersaglio. Lo sterminio su scala industriale, attraverso il ricorso alle camera a gas e ai forni crematori, era riservato in maniera pressoché esclusiva agli ebrei. Con la distruzione selettiva di altri gruppi – a partire da una parte delle comunità zingare, e dei prigionieri di guerra sovietici -, tale perché destinata a variare a seconda delle circostanze e dei calcoli del momento. In misura diversa erano vessati e poi in genere annientate le minoranze o gruppi ritenuti pericolosi dal regime e dai suoi alleati europei. Le stesse tecniche criminali, e i medesimi obiettivi (isolamento, repressione, oppressione, persecuzione, assassinio in massa), di fatto poi tradotti in atti materiali, seguirono un iter caratterizzato da quella «radicalità progressiva» che andò connotando l’azione del fascismo europeo, ed in particolare di quello tedesco: dalla conquista del potere all’annientamento di una parte della popolazione continentale, seguendo nel mezzo il percorso della distruzione delle opposizioni politiche, dell’emarginazione e della stigmatizzazione delle minoranze, della vessazione sistematica contro i popoli di «stirpe inferiore» e così via.

In altre parole, i giudizi e le valutazioni in merito alle politiche contro i gruppi bersagliati dal nazismo vanno ricondotti a questa dimensione di scenario storico, quindi ad una tale cornice progressiva, dove si intrecciano un insieme di fattori (dinamiche politiche, calcoli egemonici, interessi di gruppi del regime o legati ad essi, evoluzione dei rapporti tra Stati  continentali) più che la presunta brutalità tedesca in quanto tale, ossia la disposizione d’animo a vessare, che pure non mancò di certo. L’attenzione dedicata nell’oggi alle sofferenze e poi alle violenze sistematiche subite dalle minoranze non ebraiche (tra di esse, la persecuzione degli omosessuali; dei testimoni di Geova; le politiche segregazioniste contro gli «asociali»; la distruzione delle vite «non degne di essere vissute», ossia dei portatori di disabilità psichiche con la tragica Aktion T4; il programma Nacht und Nebel, letteralmente «notte e nebbia», per frantumare e fare scomparire dalla faccia della terra qualsiasi forma di opposizione politica organizzata; lo sterminio “incompiuto”, ovvero il Porrajmos, contro i popoli tzigani di lingua romaní; il massacro dei prigionieri di guerra sovietici e altro ancora), è in rapporto alla capacità di cogliere complessità e adattabilità alle circostanze date che la macchina di oppressione nazista seppe dimostrare nel momento in cui, dal 1933, divenne parte integrante di un progetto politico che non era solo regime dittatoriale ma intendeva dare corso a quello che definiva un «nuovo ordine europeo», fondato su una rigida dottrina razzista, dove alla modernità dei mezzi e del dominio si sarebbe accompagnata la reintroduzione della schiavitù e il ricorso alla barbarie contro i soggetti ritenuti «subumani».

Si apre quindi uno spazio di riflessione, per evitare che la memoria del passato si trasformi in un manufatto ideologico facilmente manipolabile. C’è senz’altro un rischio di eccesso in alcuni continui richiami ad Auschwitz. Qualora «tutto sia Auschwitz, Auschwitz rischia di diventare nulla»: è un modo per dire che se ogni evento del presente è non solo comparabile (attività in sé del tutto legittima sul piano intellettuale e della ricerca) ma parificabile allo sterminio su scala industriale, allora la specificità dell’evento Shoah si perde completamente. Specificità, si badi bene, non unicità. C’è infatti una retorica del «mai più!» o del «dovere della memoria» che, nel momento stesso in cui si manifesta, rischia di rivelarsi impotente e, quindi, controproducente. Intorno a ciò entrano in gioco altri fattori: la monumentalizzazione (fare del passato una sorta di totem, che si frappone ad ogni visione dialettica del presente, diventandone una sorta di ossessivo filtro); la sacralizzazione (trasformare lo studio, la ricerca e la comprensione di quel passato in una specie di fatto metastorico, una tragedia totale ai limiti dell’inesplicabilità) ma anche la banalizzazione (Auschwitz, e tutto quello che gli ruota intorno, come una specie di fatto che si ripete all’infinito in altre tragedie); la sentimentalizzazione (ossia l’immedesimazione acritica e astorica, ai limiti dell’innamoramento, nei confronti delle vittime, salvo il revocarne l’interesse quand’esse dovessero comportarsi diversamente dalla condizione di “vittime eterne”, predestinate a recitare quel ruolo per sempre) e la negazione (laddove si afferma che ciò che è avvenuto non è mai capitato, trattandosi di un falso costruito a tavolino). Ma anche quel particolarismo identitario che porta alcuni a dire: «basta che non capiti più a me e al mio gruppo». In tutti questi casi, la funzione civile e politica del Giorno della Memoria rischia di uscirne pressoché azzerata.

Si pone pertanto un problema di buon uso della memoria e, non di meno, di adeguato ricorso alla storia, non solo come disciplina ma soprattutto nella sua natura di metodo di indagine e comunicazione dei suoi risultati supportati dal ricorso a protocolli di risconto e da codici condivisi. Un percorso molto distante dall’approccio meramente emotivo e sensazionalistico, quindi intrinsecamente occasionale e superficiale, che certuni invece continuano a prediligere. A partire dai mezzi di comunicazione di massa. È in crisi quest’ultimo criterio di approccio, invero assai diffuso, ma non quello analitico, invece basato sul coinvolgimento critico dei destinatari della comunicazione, ad essere palesemente inadeguato.

In un totale cortocircuito subentrano poi i rimandi, immediatamente dietro l’angolo, al conflitto israelo-palestinese. Se la critica alle singole scelte politiche dei governi israeliani è non solo legittima ma necessaria, tanto più laddove essa possa risultare parte di una più generale discussione sulla negoziazione degli assetti, e delle soluzioni, del conflitto più che mai aperto con la collettività palestinese, altra questione è la delegittimazione dello Stato d’Israele come soggetto storico.

In questo caso, l’accusa di abusivismo (un tale comunità politica mai avrebbe dovuto nascere, trattandosi semmai di una sorta di obbrobrio storico, al pari di un errore nel percorso dell’umanità) non è il prodotto di una razionale valutazione di merito ma di un pregiudizio maniacale che si trasfonde dal passato al presente, rivestendosi di panni apparentemente più “nobili”. In tali termini, allora, l’antisionismo – inteso come una visione di assoluto diniego del movimento nazionale degli ebrei – rischia di trasformarsi ben presto nel rifiuto degli ebrei, ovvero delle loro scelte e, in ultima istanza, del loro stesso diritto di scegliere. Stabilendo invece nessi tanto falsi quanto ripetuti irriflessivamente, istericamente e ossessivamente, al pari di atti di fede: il sionismo è nazismo; le politiche israeliane verso i palestinesi sono «sterminio» e così via. La storia ebraica viene incapsulata, in un gioco di perverse sovrapposizioni e di insostenibili equazioni, in quella dei suoi carnefici. Risolvendone l’evoluzione in una demenziale equivalenza moralistica. Se non si farà chiarezza cristallina – affrontando le molte ambiguità che altrimenti il discorso antisionista oggi porta con sé – su storie, identità e conflitti di interessi che ruotano intorno ai nessi simbolici tra «ebrei-sterminio-nazismo-Israele-conflitto israelo-palestinese», evitando quindi di scadere nella furia della demonizzazione, non si uscirà mai dal vicolo cieco nel quale certuni spingono non solo i «sionisti» (parola che ha assunto una connotazione ambigua, per alcuni sinistra, quasi impronunciabile) ma anche l’intera parabola storica del Novecento. Con il rischio che il Giorno della Memoria produca, suo malgrado, anche qualche eterogenesi dei fini.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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