Hebraica Nizozot/Scintille
Baruch Spinoza, straordinario teologo messianico

Qabbalah e mistica ebraica nel pensiero del filosofo olandese

La straordinaria attualità del pensiero di Barukh Spinoza (1632-1677) salta all’occhio appena si consideri la quantità di libri su di lui che escono ogni anno, oltre alla continua ripubblicazione dei suoi scritti, sempre nuovamente tradotti e spiegati e chiosati da nuove generazioni di studiosi. Come può un ebreo, figlio di mercanti portoghesi ex marrani e seguace del matematico francese René Descartes, essere divenuto un vessillo della modernità e al contempo del pensiero post-moderno? Proprio nel mondo ebraico, poi, il suo nome è ‘segno di contraddizione’ e ancor oggi si discute sulla sua infausta scomunica, il kerem del 1656 (emesso dai leader politici della sua comunità) – a soli 24 anni e senza aver pubblicato una riga – che resta uno dei grandi enigmi della storia ebraica (sebbene lo studioso statunitense Steven Nadler abbia cercato di scioglierlo circa vent’anni fa nel volume L’eresia di Spinoza. L’immortalità e lo spirito ebraico, tradotto nel 2005 da Einaudi). Ma quanto davvero ebraica è la filosofia spinoziana?

Una risposta a questa domanda viene da un recente libro dello studioso Marco Cassuto Morselli, intitolato La teologia messianica di Spinoza (Castelvecchi 2022, pp.124, 16 euro), che può essere letto ad almeno due livelli innovativi: anzitutto come introduzione ‘generale’ al di lui pensiero filosofico, con enfasi sulla dimensione teologico-politica piuttosto che su quella logico-metafisica o razionalista, come si usa in molti manuali liceali; non secondariamente, il libro illumina in ‘particolare’ alcuni passi della sua opera che difficilmente possono essere compresi da chi non conosca a fondo la tradizione rabbinica, alla quale Spinoza appartiene, specie la sua corrente mistica (vale a dire, la qabbalà). Soprattutto in questa spiegazione sta l’originalità del volume, che viene così a correggere una lunga storia di interpretazioni che tendono a trascurare – per ignoranza, solitamente – la profonda radice ebraica dell’opera del famoso ‘pulitore di lenti’ di Amsterdam.

Caso emblematico è la controversa espressione spinoziana Deus sive natura, che si trova nella versione in latino della sua Ethica more geometrico demonstrata, apparsa nell’anno della sua morte, espressione da sempre letta (in modo superficiale) come l’attestazione di un ‘sostanziale’ panteismo, in forza di quel sive, dell’ovvero, grazie al quale non vi sarebbe distinzione tra la natura e il divino, essendo l’una e l’altro la medesima sostanza, appunto. Cassuto Morselli spiega che quel famoso sintagma ha da essere inteso invece in chiave qabbalistica:

La formula Deus sive natura è stata interpretata come espressione del naturalismo spinoziano, come se volesse dire: Dio non è altro che la Natura, non esiste niente di soprannaturale, per cui Spinoza sarebbe un radicale negatore della trascendenza e l’assertore di una immanenza assoluta. Ora, Deus sive natura è un detto qabbalistico tradotto in latino. Una delle più importanti tecniche qabbalistiche è la ghematriyah [geometria?], che consiste nello stabilire rapporti tra parole che hanno lo stesso valore numerico [poiché a ogni lettera dell’alfaberto ebraico corrisponde un numero]. E uno dei nomi divini, Eloqim, ha lo stesso valore numerico della parola ebraica Hatevà che indica appunto [nell’ebraico medievale] la natura, il mondo naturale.

I mistici ebrei avevano creato questo link già secoli prima di Spinoza, e non certo per sostenere un panteismo filosofico (o l’ateismo, come sostenne il romantico Friedrick H. Jacobi alla fine del XVIII secolo). Un accostamento simile potrebbe essere fatto anche tra ratio e Scriptura, entrambe di origine divina, ma non certo per suffragare un banale razionalismo. In ogni caso, rimarca Cassuto Morselli, lo stesso Spinoza avrebbe smontato la querelle e sdrammatizzato, dato che ai suoi occhi quel che conta non è la divergenza di idee e credenze, ma la coerenza dei comportamenti con i valori di giustizia e carità, coerenza che il filosofo ebreo-olandese chiama semplicemente, in latino, oboedientia, ossia osservanza pratica dei precetti. C’è qualcosa di più ebraico?

Anche Nadler, naturalmente, ha offerto una spiegazione al famoso detto spinoziano che si trova nella prefazione della parte IV dell’Ethica, definendolo “una frase ambigua, quasi si potesse dire altrettanto bene che Spinoza divinizza la natura o naturalizza Dio. Ma un lettore attento non può comunque fraintendere il suo pensiero” (tra l’altro, l’espressione si trova solo nell’edizione latina e quel ‘sive natura’ venne omesso dall’edizione in olandese, ovviamente assai più accessibile che in latino, curata dai suoi amici dopo la morte del filosofo). Nadler infatti spiega che la natura è altrove assunta da Spinoza in due sensi, uno attivo, chiamato natura naturans, e uno passivo, detto natura naturata, ed è quest’ultima a portare i segni di quella necessità naturale che deriva dalla necessità degli stessi attributi divini… teologia scolastica allo stato puro, come si intuisce. Ma allora perché Cassuto Morselli parla di ‘teologia messianica’ in Spinoza?

Rivendicando la dignità della natura, che viene da Dio, Spinoza ha di fatto riscattato questo concetto dalla teologia agostiniana che parlava di natura lapsa o corrotta: in Spinoza la natura è tutt’altro che lapsa, caduta per via del peccato originale; essa è invece il libro del divino, l’altra via della rivelazione, assai vicina alla concezione di Abraham Herrera (qabbalista pure portoghese, di pochi decenni più anziano di Spinoza), influenzata a sua volta dalla mistica di Itzchaq Luria (XVI secolo): il mondo è pieno di scintille divine – nizozot – che attendono di essere riscattate, come le anime degli ebrei marrani. Solo una tale concezione di natura permetterà di accedere alla vera religio, quella ispirata a giustizia e carità, la religione universale della Torà.

In fondo, Marco Cassuto Morselli propone una lettura di Spinoza assai vicina a quella proposta a suo tempo dal rabbino livornese Elia Benamozegh (1823-1900) il quale ebbe a scrivere qualcosa di grandioso, in tema di rapporti tra Dio e mondo/natura:

Credo che Dio non sia il mondo stesso ma neppure che gli sia estraneo, o che sia fuori dal mondo. Il mondo, e in generale il creato o meglio la creazione, consiste in un limite che Dio impose a Se stesso. Per cui anziché dire ‘creazione dal nulla’ bisognerebbe dire ‘creazione del nulla’, ossia del limite, del finito, anzi della finitezza.

Ora, non è chi non veda come questi pensieri siano in piena sintonia con tutta la metafisica post-moderna contemporanea o, più semplicemente, con la sensibilità etica odierna, che ha posto la finitudine e la fragilità dell’umano al suo centro. Se il desiderio o il conato di riscatto dell’umana fragilità è una qualità del messianico, quale teologia è più messianica di questa?

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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