Cultura
“Bawaal”, quando Bollywood parla di Shoah

Il film indiano stroncato per aver banalizzato l’Olocausto e per mancanza totale di sensibilità verso l’argomento, racconta l’India di oggi, dove l’ignoranza dei fatti storici della Seconda Guerra Mondiale è abissale

Ci sono diverse cose sorprendenti in Bawaal. Una di queste è il punteggio ottenuto dagli utenti di IMDb. Quasi sette punti su dieci hanno davvero dell’incredibile per un film che in molti altri siti estranei alla galassia Amazon è stato giudicato pressoché inguardabile. I problemi intorno a questa produzione indiana dal 21 luglio in streaming su Prime Video vanno però al di là del giudizio squisitamente artistico. In fondo, si tratta pur sempre di un polpettone romantico nel più perfetto stile Bollywood. Ci sono un lui e una lei, belli ma male assortiti, i genitori di entrambi che li vorrebbero felici, scenografie patinate, tanta musica, qualche balletto, un paio di risate a denti stretti e altrettanti baci solo intuiti per non urtare gli animi più sensibili. Peccato che qui finiscano le attenzioni alla sensibilità del pubblico.

Tra i non addetti ai lavori sono in tanti a ritenere il lavoro del regista Nitesh Tiwari un prodotto ben realizzato, romantico e divertente, non spiegandosi il perché delle stroncature di quei cattivoni dei critici. Se si trattasse però semplicemente di una storia d’amore, così come del resto l’hanno presa gran parte degli spettatori, nessuno avrebbe avuto da ridire. Il problema è che per dare forza a una storia in sé esile si è scomodato niente meno che l’Olocausto. Come sia stato possibile è presto detto.
Riassumendo le due ore e un quarto di visione, il film racconta di un bellimbusto narciso e ignorante, Ajay (interpretato da Varun Dhawan), che per qualche oscura ragione insegna Storia in una scuola di Lucknow, nel Nord del Paese. Interessato unicamente alla propria immagine pubblica, sembra non avere mai aperto un libro in vita sua, concentrandosi perlopiù sui propri muscoli e sulla moto con cui si fa bello nel quartiere. Sposatosi con Nisha (l’incantevole Janhvi Kapoor), una ragazza bellissima, sensibile, istruita e, chissà perché, innamorata di lui, la ripudia poco dopo le nozze per avere assistito a un suo attacco di epilessia. Rivelando di essere meschino e cattivo oltre che stupido, decide che la malattia della moglie potrebbe rovinargli l’immagine. Poi però ci mette del suo, e poche scene dopo assesta un ceffone a uno studente che lo mette in imbarazzo con una domanda sulla Seconda Guerra Mondiale. Sospeso dal lavoro a scuola, decide di risolvere le cose a modo suo, con l’ennesima messa in scena.

Sponsorizzato dai genitori, parte con la moglie per l’Europa, deciso a mostrare di essere un buon marito e, soprattutto, un ottimo insegnante. L’ideona è quella di filmare i luoghi chiave del conflitto e istruire così i suoi alunni a distanza, a suon di reel su Instagram. Dopo una prima tappa a Parigi e un primo riavvicinamento di comodo con la moglie, ben più capace di stare al mondo, il nostro passa in Normandia. Qui in una delle scene chiave in bianco e nero che interrompono il technicolor imperante, lo vediamo in pieno sbarco, circondato dai corpi degli alleati crivellati dai proiettili. Vagamente turbato da quanto visto e immaginato, passa quindi ad Amsterdam. Sempre a fini didattici, si reca in visita alla casa di Anna Frank. E si ferma a pensare a come vivrebbe lui se sapesse che la sua fine è vicina. Da qui in poi iniziano le parti più imbarazzanti. Dall’Olanda si passa alla Germania, a Berlino, e da qui si va ad Auschwitz, assistendo a un crescendo di presunti insegnamenti che il ragazzotto riceve dalla storia. Si passa dal suo paragonarsi a Hitler, che come lui sarebbe stato un incontentabile e quindi un perdente, all’immaginarsi, con le SS che lo tengono sotto tiro, a dover riempire in fretta e furia una valigia con quanto di più caro ha al mondo.
È in Polonia però che sono ambientate le scene migliori (si fa per dire). Dopo essersi visto chiuso nel lager con la compagna, il nostro viene invitato dal proprio host a partecipare a un incontro con un sopravvissuto a cui i nazisti hanno assassinato la moglie. Senza perdere un grammo del proprio egocentrismo, l’aspirante insegnante (e, parrebbe, il film stesso) concentra tutta l’attenzione sull’aspetto sentimentale della vicenda, facendo sua la posizione dell’anziano testimone secondo cui “ogni relazione attraversa il proprio Aushwitz” (sic). Il giorno dopo la situazione non migliora. E il regista regala una scena raccapricciante in cui Ajay si ritrova chiuso in una camera a gas, circondato dai corpi nudi dei morenti. Attento esclusivamente a ritrovare la moglie, la ritrova nella realtà in preda alle convulsioni. E capisce di amarla. Quello che accade dopo è abbastanza prevedibile ed è inutile raccontarlo. Più interessante e fare un giro tra le stroncature internazionali.

Si parte in casa, ossia dall’Hindustan Times , giornale indiano in lingua inglese dove Santanu Das definisce Bawaal “il film il più insensibile dell’anno” e “un caos assoluto” (il titolo significa, appunto, caos in hindi). Riguardo alla visita nel campo di sterminio la definisce “una rappresentazione terribilmente orribile e vergognosa, in cui l’Olocausto non è che un capro espiatorio narrativo per i personaggi per affrontare le loro paure e salvare il loro matrimonio tossico”. L’autore continua dicendo che “questo è un film così accecato dalla sua versione distorta di romanticismo e autostima che una delle più grandi tragedie umane diventa una metafora per nutrirla”.
Sempre in India, una recensione leggermente più benevola uscita su Rediff.com ribadisce comunque che Bawaal “non solo minimizza un orrore storico, ma semplifica anche la conoscenza profonda a informazioni superficiali”, quelle che l’insegnante asino crede di potere impartire ai suoi ben più volenterosi poveri studenti.

Passando nel Regno Unito, le cose non migliorano. E se il sito della BBC si limita a riportare le critiche ricevute altrove dal film, rimarcando quella di avere banalizzato l’Olocausto, The Guardian gli dà una stellina su cinque e dopo aver detto che l’attore che interpreta il protagonista è fin troppo credibile nella parte del cretino, ribadisce che la scena della camera a gas “è così incredibilmente insulsa che è difficile da guardare”, concludendo che anche dal punto di vista meramente spettacolare il film è un prodotto scadente.

Passando alla parte ebraica c’è solo l’imbarazzo della scelta. Si parte dal Simon Wiesenthal Center (SWC), una delle principali ONG per i diritti umani dedicata alla memoria delle vittime dell’Olocausto nazista, che ha chiesto a Amazon Prime di rimuovere il film dal portale “a causa del suo stravagante abuso dell’Olocausto nazista come espediente della trama”. Il rabbino Abraham Cooper, decano dell’associazione, ha messo in chiaro che “Aushwitz non è una metafora. È l’esempio per eccellenza della capacità dell’uomo di fare il male”.
La stampa ebraica riprende queste e altre parti del documento negli articoli che nei giorni scorsi ha dedicato al film. Nel suo articolo pubblicato su Forward, Mira Fox non si limita come fanno altri a condannare l’uso semplicistico e sostanzialmente offensivo del dramma dell’Olocausto, ma segnala anche quelle che definisce “sottili distorsioni e omissioni nella presentazione della storia”. Non troppo diversamente dal suo protagonista, anche gli sceneggiatori del film sembrano ignorare alcuni punti fondamentali. O comunque li trascurano. “Gli ebrei vengono identificati come obiettivi dei nazisti solo una volta”, fa notare la giornalista, e “la seconda guerra mondiale è descritta come il semplice risultato dell’egoismo di Hitler”. L’articolo non manca di riportare le voci a favore, perlopiù da parte di spettatori che si sono divertiti e che hanno comunque trovato che i riferimenti all’Olocausto fossero educativi. Il punto, secondo Mira Fox, è però che nessuno si aspetta che una produzione di Bollywood sia istruttiva, mentre il fatto che la Shoah sia usata “come una sorta di gioco morale” è una deviazione piuttosto opinabile alla quale non sfuggono neppure le produzioni occidentali: “Mentre è un male che il film nasconda e distorca la storia, è ben lungi dall’essere l’unico media a usare l’Olocausto come espediente della trama”.
Andrea Lapin riprende la questione in due pezzi usciti su JTA. Nel primo riporta le risposte alle critiche del regista, che ha dichiarato di essere “un po’ deluso dal modo in cui alcune persone l’hanno compreso” rimarcando quanto i suoi protagonisti siano sconvolti e commossi da quanto vedono ad Aushwitz. L’interprete di Nisha ha confermato quanto detto da Tiwari, dicendo che il suo personaggio non ha fatto che tentare di immedesimarsi nel dramma dei prigionieri immaginando di vivere la tragedia sulla propria pelle.
Un qualche timido tentativo di salvare intenzioni e risultati degli autori di Bawaal viene fatto sempre da Lapin nel secondo articolo  pubblicato qualche giorno fa. Qui intervista Mehak Burza, insegnante di letteratura inglese in diverse università di Nuova Delhi nonché responsabile degli studi sull’Olocausto presso il Global Center for Religious Research. Secondo la professoressa, l’ignoranza degli studenti indiani riguardo all’Olocausto è abissale, a scuola non viene loro insegnato quasi nulla sul tema, che loro considerano un evento alieno, mentre i libri di testo non citano neppure gli ebrei. Dunque, nonostante lei per prima inorridisca per la banalità sconfortante dei dialoghi e le sconcertanti semplificazioni, la studiosa trova che il film abbia comunque una sua funzione positiva: “Essere il primo film di Bollywood ad affrontare questo problema è molto, molto impegnativo e un grande passo per un pubblico indiano”. Non troppo d’accordo con Burza è Navras Aafreedi, professore di storia alla Presidency University di Kolkata e studioso delle comunità ebraiche dell’India. Convinto che il film sia l’ennesimo esempio della tendenza indiana a banalizzare l’Olocausto, lo studioso ha dichiarato a JTA che il modo in cui Bawaal tratta l’argomento è “profondamente inquietante ma certamente non sorprendente”. In ogni caso, visto il successo che da sempre Bollywood riscuote nell’immaginario popolare, non ci sarà da stupirsi, secondo Burza, che anche in questo caso gli spettatori vorranno imitare i protagonisti del film. Prenotando una visita ad Auschwitz.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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