Cultura
Bibi, il rischio del fuoco amico e le trasformazioni in corso del Likud

Da dove viene e dove va il partito di Netanyahu mentre si avvicina la possibilità della terza tornata elettorale in un anno

Israele va verso la terza tornata elettorale in un anno. Ci sono ancora un po’ di giorni per confidare nel miracolo della formazione di un governo che – oramai  – si chiama “desiderio” (incubo, per altri) ma tutto lascia presagire che non se ne caverà il classico ragno dal buco. Lunedì 2 dicembre la Commissione elettorale centrale, l’organismo che è chiamato a seguire e a sovraintendere tutte le procedure relative alle elezioni della Knesset, ha deliberato di ridurre da 90 a 75 i giorni necessari tra lo scioglimento del Parlamento e la prima data utile per le elezioni. Nel mentre, il presidente dello Stato Reuven Rivlin aveva già rimesso alla Knesset medesima il mandato, erga omnes, di procedere all’eventuale formazione di una maggioranza parlamentare di almeno 61 deputati.

Detto in altre parole: dinanzi ai fallimenti degli incarichi esplorativi affidati in successione a Benjamin Netanyahu e a Binyamin  Gantz, sulla base della normativa vigente, qualsiasi altro parlamentare potrebbe ancora indicare, insieme alla maggioranza dei suoi colleghi, un nome alternativo per il premierato. Tradotto ancora: non è più un parlamentare incarico a cercare di costruire una maggioranza per la formazione di un esecutivo ma, a parti rovesciate, dovrebbe essere una maggioranza parlamentare assoluta (i fatidici 61 seggi) che dovrebbe identificare nel suo seno un nome da incaricare come premier e poi votarne la fiducia. Sono tre settimane, al massimo, di tempo residuo per una ipotesi residua a dir poco pencolante. Poi, nel caso assai probabile che nulla cambi, rispetto allo stallo vigente, Rivlin dovrà procedere a sciogliere una legislatura nata a settembre e morta pressoché da subito. Tra polemiche, accuse e risposte spesso al vetriolo, in un clima di campagna elettorale permanente. Quindi, elezioni. Il procuratore generale dello Stato (nonché consigliere legale del governo), Ha-Yo’etz Ha-Mishpati La-Memshala Avichai Mandelblit, ha intanto ufficialmente consegnato al presidente della Knesset, Yuli-Yoel Edelstein, esponente del Likud, l’atto di incriminazione a carico del Primo ministro uscente Benjamin Netanyahu in relazione a tre ipotesi di corruzione e abuso d’ufficio. Il ruolo istituzionale di Mandelblit è di coordinare il circuito legale dell’esecutivo e di dare corpo alla pubblica accusa qualora sia una funzione attribuita e quindi esercitata dallo Stato. In tale veste, è chiamato a fornire consulenza giuridico-legale al governo, a rappresentare con i suoi uffici gli interessi delle più alte autorità pubbliche nei tribunali e a seguire l’iter nella formazione dei pronunciamenti del governo (ed in particolare del ministro della Giustizia) in materia giuridica.

Più in generale, il procuratore generale è sia una figura attiva, intervenendo nei processi di costituzione delle posizioni normative dell’esecutivo, sia una figura di garanzia, essendo chiamato a tutelare l’interesse pubblico da possibili danni derivanti dall’azione dello stesso governo. Come tale, riveste un ruolo rigorosamente indipendente: deve coniugare la sua consulenza per l’esecutivo con la difesa delle istanze collettive, espresse dalla società, quando esse si incontrano (e si scontrano) con l’operato dello Stato. Si tratta quindi di un’istituzione strategica all’interno dell’articolato sistema dei poteri d’Israele. Poiché la tradizione giuridica è quella di Common Law, le funzioni del procuratore generale non sono strettamente codificate ma derivano dalla tradizione giurisprudenziale consolidatasi nel tempo. Mandelblit, nella comunicazione fatta al presidente della Knesset, ha sottolineato che Netanyahu ha trenta giorni per chiedere al parlamento il voto che dovrebbe garantirgli l’immunità. La qual cosa, tuttavia, implicherebbe che la commissione parlamentare che è chiamata a pronunciarsi sul caso si convochi quanto prima, cosa che non è materialmente possibile, non essendo ancora stata costituita, da dopo le trascorse elezioni del 17 settembre. Rimane il fatto che il processo nei confronti del premier uscente si dovrà tenere presso il tribunale distrettuale di Gerusalemme. I testimoni d’accusa, citati da Mandelblit, sono più di trecento. Bibi rischia anche il “fuoco amico” poiché una parte di essi non sono suoi avversari ma collaboratori e sostenitori. Per il Likud, il partito del primo ministro uscente, che al momento conta una delegazione parlamentare di 31 deputati su 120, la questione di come affrontare il declino di colui che negli ultimi ventitré anni ne ha rappresentato la figura di maggiore rilievo, non è cosa da poco. Poiché si incontra con le trasformazioni che il partito medesimo ha subito nel corso del tempo.

Qualche nozione di storia, a questo punto, può tornare utile. La destra nazionalista di cui il Likud è stato a lungo l’espressione unitaria, comunque di sintesi, salvo doversi poi confrontare in questi ultimi anni con i netti mutamenti dello scenario interno israeliano, è il prodotto di un lungo percorso. Ne ricordiamo gli esordi e il consolidamento. Il suo humus culturale e ideologico, infatti, è costituito dal «movimento revisionista», creato nel 1925 a Parigi da Vladimir Ze’ev Jabotinsky, il padre della destra sionista. Le posizioni di principio dei revisionisti costituirono, sia pure con alcuni accomodamenti dovuti alle mediazioni parlamentari intervenute dal 1948 in poi, la base programmatica della destra istituzionale almeno fino al momento della sua vittoria elettorale del 1977. La piattaforma ruotava intorno alla creazione di uno Stato integralmente ebraico sull’intero territorio di quella che era stata la Palestina mandataria, la rivendicazione di una «identità ebraica» intesa come dimensione esclusiva – o comunque prevalente – del nuovo Stato, una risposta muscolare agli arabi. Jabotinsky, oltre ad avere disegnato l’ossatura ideologica della destra storica della futura Israele, avendo per l’appunto fondato il Partito revisionista, fu anche il padre del movimento giovanile Betar (per meglio dire BéTaR, acronimo di Brit Trumpeldor, l’ «Alleanza Trumpeldor») e dell’Irgun Tsvai Leumi («Organizzazione militare nazionale»), la milizia armata della destra che lottava, negli anni del mandato britannico, a fianco dell’Haganah («la difesa»), quest’ultima futura ossatura dell’esercito israeliano.

Il Betar era l’organizzazione pionieristica che si rifaceva all’esempio del sacrificio di Yosef Trumpeldor, morto nel 1920, insieme ai suoi compagni di lotta, nella difesa dell’insediamento di Tel Hay dall’assalto di un gruppo di arabi. Fondata nel 1923 e affiliatasi al movimento revisionista, aveva il suo centro, antecedentemente alla Seconda guerra mondiale, in Polonia, negli Stati baltici e, in misura però minore, nella stessa Palestina britannica. I suoi aderenti, nel 1939, si reputa fossero intorno agli 80mila elementi. Per prepararli all’emigrazione, il Betar aveva istituito centri di formazione sia lavorativa che militare. La sua ideologia, fortemente antisocialista, portò alcuni dei militanti anche alla contrapposizione fisica diretta contro gli appartenenti all’Histadrut, la centrale economica, sindacale ma anche politica che raccoglieva e rappresentava gli interessi dei laburisti. Con la formazione dell’Irgun e, successivamente, del Lehi (acronimo di Lohamei Herut Yisrael, i «combattenti per la libertà d’Israele», gruppo terroristico sospeso tra l’apocalitticismo di certa destra radicale e il messianesimo di una sinistra estrema, di radice individualista e anarcoide), il Betar ne divenne lo strumento privilegiato di reclutamento, pur essendo dichiarato illegale dalle autorità mandatarie. Durante la guerra partecipò comunque alla lotta contro i nazisti e dopo la nascita dello Stato d’Israele fondò una ventina di colonie rurali. A tutt’oggi mantiene una presenza diffusa in alcuni paesi, occupandosi della formazione giovanile, anche se ha subito una notevole flessione nella partecipazione, alla quale sta cercando adesso di ovviare con un’azione di rilancio. Ancora oggi coinvolto nell’attivismo sionista, con la costituzione di Tagar, sua costola rivolta agli adulti, dagli anni Ottanta ha quindi lavorato prevalentemente nei campus universitari statunitensi e di lingua inglese, svolgendo inoltre un ruolo importante nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica anglosassone rispetto alla condizione degli ebrei sovietici. Allo stato attuale, si ritiene che il Betar possa contare su circa 20mila affiliati, impegnandosi prevalentemente nella lotta all’antisemitismo. Non è tuttavia infrequente che alcuni suoi esponenti, senza incarichi ufficiali o istituzionali, abbiano coltivato una doppia militanza con la Jewish Defence League, fondata nel 1968 a New York dal rabbino Meir Kahane. La JDL, benché rivesta i panni di movimento antirazzista e di autodifesa, è considerata a tutt’oggi dallo stesso FBI come «right wing terrorist group». Kahane, che nel 1970 costituì il Kach, partito estremista di destra, definito xenofobo dalle stesse autorità israeliane e quindi dichiarato fuorilegge, venne poi assassinato a Manhattan nel 1990.

Al netto di queste deviazioni (Kahane fu fregiato del titolo, volutamente sarcastico e denigratorio, di «ayatollah d’Israele», mentre il kahanismo – la dottrina suprematista e prevaricatoria di cui si era fatto promotore – fu bollata come espressione del «fascismo giallo», ossia ebraico), rimane il fatto che storicamente il Betar è stata un’importante palestra per la formazione delle classi dirigenti conservatrici israeliane. Hanno militato in esso, o comunque si sono formati a contatto con i suoi ambienti, primi ministri come Menachem Begin, Yitzhak Shamir, Ehud Olmert, l’allora ministro della Difesa Moshe Arens, la futura leader di Kadima Tzipi Livni e così via. Ritornando al tracciato storico meno recente, negli anni successivi alla morte di Jabotinsky, Menachem Begin, suo successore, assunse le redini dell’Irgun, fino alla eliminazione di fatto, da parte di Ben Gurion, della stessa organizzazione, in una sorta di regolamento di conti interno al mondo sionista. Il tutto senza esclusione di colpi. In previsione delle elezioni della prima Knesset, nel giugno del 1948, Begin fondò quindi il partito Herut («Libertà») che nelle quattro tornate successive, ossia fino al 1965, non riuscì mai a superare la soglia dei 17 eletti, pur essendo più volte, in tale modo, il secondo partito alla Knesset in termini di seggi. Voti congelati ma, evidentemente, utili nel momento in cui le cose si fossero messe in moto.

Begin fu il leader indiscusso dell’Herut, dalla nascita fino alla sua confluenza nel Likud. L’unità definitiva tra le diverse componenti della destra nazionalista e revisionista, d’altro canto, venne raggiunta successivamente, e con grande fatica, ma fu sempre e comunque solcata dai dissapori e dai dissidi interni alle diverse fazioni. L’Herut costituì, comunque, il principale partito di opposizione fino al 1977. La sua piattaforma politica, in linea di principio, è sempre stata fedele alle indicazioni del nume tutelare, Ze’ev Jabotinsky, ruotando intorno al concetto di «integrità dello stato ebraico», intesa come continuità territoriale comprendente le due rive del Giordano. A chi gli chiedeva lumi riguardo alla possibilità di raggiungere dei compromessi, Begin era abituale rispondere che permettendo l’esistenza della Transgiordania, considerato politicamente ed etnicamente uno stato palestinese ma “storicamente” ebraico, gli ebrei avevano già concesso il 74% della “propria terra”. Sul piano economico la posizione del partito era liberista, avversando il sistema di garanzie sociali dell’Histadrut e propendendo per il libero mercato e l’impresa privata.

Pur occupando una considerevole posizione nella Knesset, l’Herut non venne comunque mai meno alla sua originaria vocazione di partito di protesta, raccogliendo il voto delle classi più svantaggiate o che si sentivano escluse dalla ripartizione dei benefici prodotti dal laburismo bengurioniano. Il nucleo dirigente era costituito da quella che lo stesso Begin aveva chiamato The Fighting Family («la famiglia combattente»), espressione con la quale ci si richiamava al gruppo di dirigenti formatisi nella lotta clandestina, durante il Mandato britannico. Fino alla prima metà degli anni Sessanta l’Herut rimase rigorosamente escluso dalla partecipazione a coalizioni governative, in base al principio, sancito solennemente da David Ben Gurion, per cui i governi a Gerusalemme si dovevano fare «senza l’Herut e il Maki» (ossia, senza le due ali estreme del Parlamento che, nella logica del leader laburista, corrispondevano ai “fascisti” e ai “comunisti”). La delegittimazione nei confronti della destra beginiana era particolarmente pronunciata, essendo considerata dai laburisti al pari di un’accolita di avventurieri, poco o nulla propensi alla democrazia nonché animati da un’insopportabile retorica nazionalista. Ma già nel 1965, con la formazione a destra del Gahal (acronimo di Gush Herut-Liberalism), l’alleanza tra l’Herut e il più piccolo Partito liberale, si avviò un percepibile mutamento. Nelle elezioni per la sesta legislatura (1965), infatti, la nuova formazione ottenne 26 seggi. Dopo di che sarà un crescendo pressoché continuo, fino ai 43 seggi nel 1977 e ai 48 nel 1981. L’ingresso di Begin nel governo di unità nazionale, in prossimità della guerra dei Sei giorni nel 1967, sancì poi la decadenza della conventio ad excludendum. Nel 1974 venne quindi formandosi il gruppo del Likud («Coalizione») che raccoglieva ancora una volta l’Herut, il Partito liberale e il La’am («Verso il popolo»), piccola formazione attraversata da numerose scissioni e riunificazioni. Se in Vladimir Ze’ev Jabotinsky, letterato oltre che politico, molto legato alla cultura slava e a quella latina, l’elemento religioso era pressoché assente, sentendosi semmai maggiormente vicino alle idee della destra neonazionalista e movimentista che era andata rafforzandosi in Francia a cavallo tra il XIX e il XX secolo, in Begin la disposizione d’animo verso i valori della religione si era rivelata fin da subito assai più marcata. Sul piano ideologico si venne così creando una miscela, a volte confusa, tra istanze a tratti anche contrapposte.

Il Likud, pur posizionandosi alla destra nello spettro politico israeliano, raccolse sia le posizioni antistataliste espresse dal Partito liberale (come la diminuzione dell’intervento dello Stato nel mercato; la vendita di importanti segmenti delle imprese pubbliche; il ridimensionamento della partecipazione statale alle attività economiche così come delle sovvenzioni all’agricoltura; la convertibilità monetaria della divisa israeliana, la soppressione del controllo dei cambi; la secca riduzione del debito pubblico) che le domande di tutela sociale provenienti da ampi segmenti del suo elettorato, appartenenti a quella componente orientale e sefardita che aveva costituito l’anello economicamente e socialmente più debole delle diverse immigrazioni. In un difficile equilibrio, che dal momento della vittoria in poi è stato sempre oggetto di ricontrattazione all’interno del partito, così come nelle coalizioni che, da allora in avanti questi avrebbe costituito. Le elezione del 1977 e la formazione del governo Begin segnarono non solo la conclusione del lungo periodo di mora alla quale la destra nazionalista era stata di fatto condannata ma anche e soprattutto la movimentazione del sistema partitico e, di riflesso, di quello istituzionale.

Sul piano politico – infatti – si passò dal monopolarismo imperfetto al bipolarismo dei due grandi blocchi, quello «nazionale» e quello della «pace». Dalle elezioni del 1965 a quelle del 1981 il totale complessivo dei seggi detenuti dai due maggiori partiti-coalizione, Likud da un lato e Ma’arakh («allineamento»)-Israel Labor Party dall’altro, passò infatti da 71 a 95. Tuttavia, il bipolarismo che attraversa gli anni Settanta e i primi anni Ottanta non era quello che intercorreva tra due partiti omogenei, tradizionalmente intesi, bensì tra due coalizioni interpartitiche. Poiché ciò che andava sotto il nome di Likud e di Ma’arakh era una sommatoria di posizioni e gruppi che trovavano un maggiore vantaggio nello stare uniti piuttosto che nel presentarsi divisi. Ciò, tuttavia, non poneva i due “azionisti di maggioranza” al riparo da scissioni o, comunque, dal potere di ricatto che le singole componenti esercitavano di volta in volta, soprattutto in occasione dei grandi tornanti della politica nazionale. Benjamin Netanyahu, che si stava ancora facendo le ossa in quel lasso di tempo, stava per entrare nella diplomazia israeliana. Solo dopo il periodo a cavallo tra il 1984 e il 1988, quando fu rappresentante permanente d’Israele alle Nazioni Unite, avrebbe  fatto il suo ingresso in scena, soprattutto dal momento in cui il Likud, avendo esaurito la lunga generazione dei suoi “padri nobili”, avrebbe aperto le porte a nuove figure. Ma è questa già un’altra storia, che ci avvicina ai giorni nostri, e che avremo modo di riannodare in uno dei prossimi articoli su queste pagine.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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