Cultura
Bruno Zevi, l’architettura e l’ebraismo

Nuova edizione curata da Manuel Orazi per Giuntina di “Ebraismo e architettura”, una raccolta di saggi geniali dell’architetto romano

Un libro fondamentale. Di quelli che rimettono in circolazione il pensiero. Perché Ebraismo e architettura è un raccolta di saggi messa a punto da Bruno Zevi rper iflette sugli ingredienti essenziali della vita dell’uomo sulla terra: il tempo e lo spazio. Dunque l’architettura, o meglio il progettare, si inserisce in un ragionamento filosofico sulla declinazione delle due coordinate – spazio e tempo – nell’espressione artistica. Vale anche l’inverso: l’espressione artistica – tutta – riflette e da forma al pensiero che ogni uomo ha circa le due coordinate. Questo piccolo ma intenso librino torna in libreria adesso, in occasione del centenario dalla nascita dell’autore, in una nuova edizione curata dallo storico dell’architettura Manuel Orazi, per Giuntina.

Come scrive Orazi nell’introduzione, I love Bruno!, questo è l’unico libro in cui l’autore fa i conti con il suo ebraismo, ma non si limita alla condizione esistenziale, bensì raccoglie le battaglie civili combattute da Zevi sempre in prima persona e fino alla fine dei suoi giorni.Fino al 1993 infatti si era limitato a scrivere esplicitamente di ebraismo in modo del tutto fortuito”, scrive Orazi, “al contrario di sua moglie Tullia Calabi che è stata a lungo presidente dell’UCEI. Ebraismo e architettura può essere considerato un risarcimento verso questo lato identitario costitutivo e fondamentale, rimasto a lungo in secondo piano rispetto alle maschere pubbliche che Zevi di volta in volta ha indossato nelle sue infiammate bat- taglie civili, politiche, culturali, urbanistiche”.  Per rivelarne l’aderenza di fondo: i suoi ideali, l’ebraismo e la sua concezione di cosa sia l’architettura, infatti, collimano.

In Zevi su Zevi scrive infatti: «I morti di Giustizia e Libertà, del Partito d’Azione, della Resistenza fondono con i sei milioni dei campi di sterminio. Sono del P.d.A. solitario, sono ebreo, per loro. Aggiungo: credo nello spazio come protagonista dell’architettura, come fonte di gioia e matrice di comportamenti individuali e sociali – per loro. Odio l’accademia, il classicismo, la simmetria, i rapporti proporzionali, le cadenze armoniche, gli effetti scenografici e monumentali, la retorica e lo spreco degli “ordini”, i vincoli prospettici, gli impianti edilizi statici, non temporalizzati e quindi non plasmati in chiave di fruizione – per loro. Di più per loro – perché sono tanti e diversi – apprezzo, o subisco, richiami contraddittori: il desiderio di una famiglia tradizionale, e l’inevitabilità dell’amore; l’impegno nella programmazione economica e urbanistica dall’alto, e l’attrazione per l’advocacy planning, alla Danilo Dolci; la modanatura sottile e il kitsch; Schönberg e Moustaki; l’introversione di Gadda e l’estroversione di Pasolini. Detesto la setta sangallesca nemica di Michelangiolo, i cinquecentisti, Bernini, Valadier, Sacconi, Piacentini e i suoi accoliti – per loro. Amo i rituali e non sopporto il conformismo. È cristallino, proprio nella latitudine delle sue dissonanze. Sono del Partito d’Azione».

Un manifesto programmatico. E lo seguiamo in quell’articolazione dissonante lungo il primo saggio, la prima traccia di questo concept album di musica zeviana, Ebraismo e concezione spazio-temporale nell’arte. Mettiamo subito in chiaro un assunto di partenza: l’ebraismo, per Zevi, nega alla radice una concezione spaziale e lo dimostra nella stessa idea di Dio. Il quale getta ogni volta nello sconcerto e nello stupore chi legge il primo comandamento perché non si presenta come il Signore, bensì  come “un leader di un movimento rivoluzionario, il capo di una brigata partigiana sfuggita all’assedio di criminali fascisti. Dice: «Io sono il Signore tuo Dio che ti trasse dalla terra d’Egitto», da una condizione di schiavitù. Il passaporto esibito da Dio a Mosè sul Sinai è vidimato da un preciso evento storico: non da un atto, ma da un’azione; non da un miracolo, ma da un impegno di lotta contro la repressione e l’oscurantismo, impegno temporalizzato non solo in senso cronologico, bensì anche nel dinamismo del suo esplicarsi, nella rivolta contro l’ingiustizia, nel cammino impervio per conquistare un costume di libertà”.

E nel caso in cui ci si concentrasse sulla creazione? “Se avesse rivendicato, in quel primo comandamento, il copyright della creazione del mondo”, continua Zevi, “non cesseremmo di stupirci, perché la stessa creazione del mondo non è un atto, ma un processo temporalizzato. Per quale ragione Dio impiegò sei giorni a creare il mondo, e il settimo si riposò? Non era soggetto ad un lavoro a cottimo, poteva prendersela con calma (…). Oppure, visto che, in fondo, era non solo un padre eterno, ma il Padre Eterno, poteva creare il mondo, se non in ventiquattr’ore, diciamo in cinque giorni, poi «fare il ponte» allungando il week-end. Comunque ci mise del tempo, non lo creò di getto, si impegnò con fatica, altrimenti non avrebbe sentito il bisogno di riposare, elaborò il manufatto per tappe successive, cioè non partì da un a priori, da un’idea preconcetta e cristallizzata”.

Così poi Zevi passa ad analizzare i lavori di Haim Soutine, le sue pennellate rosso sangue a contrasto con quel verde, a volte di muffa, ma sempre istintive, personali, fuori dagli eschemi; Kafka e le sue metamorfosi, in un’indagine temporale e antispaziale, dove lo spazio incarna la costrizione, la negazione di libertà; quindi Saul Bellow e Arnold Schönberg, di cui scrive: “Dissacra l’ottava, formula la dodecafonia e poi relativizza anche questa”. Dissonante, libero, relativo e in continuo divenire, l’elemento antimitico e anti idolatrico diviene simbolo di una filosofia – tutta ebraica – di concepire l’architettura. Perché la premessa è chiarita nelle prime righe del saggio in questione:

L’ebraismo in arte punta sull’anticlassico, sulla destrutturazione espressionistica della forma; rigetta i feticci ideologici della proporzione aurea, e celebra la relatività; smentisce le leggi autoritarie del bello ed opta per l’illegalità e la sregolatezza del vero.

L’elemento spaziale ha a che fare con le idolatrie, i vitelli d’oro che continuamente, nel corso della storia, si presentano all’umanità: è un oggetto, statico, non funzionale, incapace di relazionarsi con le esigenze della vita. Suo opposto è quello temporale, in continuo divinere, disponibile al cambiamento e legato alla funzione che gli uomini attribuiscono alla creazione (edificio, che sia casa, tempio, luogo di riunione….) utilizandola.

“La lotta fra tempo e spazio è lotta tra libertà e costrizione, tra inventività e accademia, in termini linguistici tra «paroles» e «langue», in termini psicanalitici tra io e super-io, in termini sociali tra struttura e sovra- struttura. Continuamente riaffiorano i vitelli d’oro, le ideologie spaziali: tornano col Rinascimento e vengono combattute dal manierismo, soprattutto da Michelangiolo quando, sul colle capitolino, ha l’inaudito coraggio di concepire una piazza anti-prospettica, trapezoidale, comprimendo, schiacciando lo spazio, risucchiandolo per caricarlo di energia. Riemergono i vitelli d’oro dopo Michelangiolo, e vengono battuti da Borromini; tornano col neoclassicismo, e vengono bruciati dal movimento moderno. Tuttavia, (…) il messaggio ebraico culmina nell’opera del massimo genio della storia architettonica, non-ebreo: Frank Lloyd Wright.”

Ci si avvia verso la conclusione, con una piccola sosta in questo viaggio temporale, considerando l’architettura nella Torah. Cosa sappiamo? L’arca di Noè viene descritta in ogni fase della sua costruzione nel testo biblico, ma non si dice nulla della sua forma finale: “L’architettura non vale per la sua immagine, ma per il suo uso”, commenta Zevi. Che, così, ci traghetta verso la celeberrima Casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright, “la vittoria del tempo sullo spazio, cioè l’incarnazione architettonica del pensiero ebraico, tanto più significativa perché realizzata da un non-ebreo”. Ovvero, “Come la musica di Schönberg, l’architettura di Wright si basa sulla polarità linguistica, sulla dissonanza emancipata, sulla contraddizione, è espressionista e insieme rigorosa, invera il concetto einsteiniano di «campo», è multidimensionata, celebra lo spazio demolendone il feticcio e i tabù, cioè fluidificandolo, articolandolo secondo i percorsi umani, intessendo un continuum tra edificio e paesaggio. Sul terreno linguistico, completa destrutturazione della forma, rifiuto d’ogni a priori filosofico e d’ogni monumentalità repressiva: architettura d’azione, tesa a conquistare sempre maggiori ambiti di libertà nella condotta umana”.

Bruno Zevi, Ebraismo e architettura, nuova edizione curata da Manuel Orazi, Giuntina, 10 euro

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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