Cultura
Quanta verità in una bugia: conversazione con Ayelet Gundar-Goshen

Intervista all’autrice israeliana, in occasione della presentazione a Milano del suo terzo romanzo

Qual è stata la prima volta che abbiamo mentito? Conserviamo, tra i ricordi di famiglia, la memoria del primo dentino, della prima parola, della prima avventura a gattoni o su due gambe, ma non quella della prima bugia. La memoria di quella prima volta in cui il potere delle parole si è rivelato ai nostri occhi: usandole, possiamo non solo descrivere la realtà, ma anche crearla.

C’è un passaggio in Bugiarda, il terzo romanzo della scrittrice israeliana Ayelet Gundar-Goshen, in Italia tradotto da Raffella Scardi e pubblicato da Giuntina, che pone proprio questa domanda. La bugia ci definisce, ci forma, l’intreccio delle linee tra ciò che dichiariamo e ciò che davvero è, tesse la persona che siamo. Mentire è, perlopiù, parlare, raccontare. Ed è quasi inevitabile pensare a come, col suo potere di formare mondi nuovi, l’azione della parola, scritta o parlata, sia l’azione umana che più avvicina (o illude di avvicinare?) alla dimensione creatrice propria del divino. Proprio da questo potere delle parole inizia la conversazione con Ayelet, che incontro qualche ora prima della sua presentazione al Teatro Franco Parenti di Milano.

I personaggi del romanzo, attraverso le bugie, e quindi attraverso le parole, danno vita a mondi nuovi, realtà che pur non generando da fatti veritieri, finiscono per acquisire autonomia, creare a loro volta: qual è il rapporto tra un fatto accaduto e le parole che lo raccontano?

Penso sia interessante il fatto che non abbiamo solo una parola: per ogni situazione, abbiamo il fatto oggettivo e poi abbiamo le persone che lo fanno accadere, e poi ancora abbiamo le storie che su di esso raccontano, a loro stesse e agli altri. Così, per ogni fatto abbiamo così tante versioni alternative, così tante narrative.

Guardiamo per esempio alla fondazione dello Stato di Israele: per un ebreo religioso è espressione della volontà di Dio; per un ebreo laico, sionista, della volontà del popolo; per un musulmano, è una catastrofe; per un cristiano evangelico, un miracolo. Quindi, sopra un solo evento che è davvero accaduto, poggiano tutte le storie delle persone che vi hanno assistito, o che con esso hanno qualcosa a che fare.

I protagonisti di Bugiarda fioriscono attraverso la menzogna: essa permette loro di sbocciare, di esprimere qualcosa di loro stessi che altrimenti non saprebbero esprimere. Nello stesso tempo, la distinzione tra fatti e fantasie rimane chiara lungo tutto il corso della lettura: sappiamo che l’accaduto da cui tutto parte (la molestia sessuale) non sussiste, sappiamo che Lavì non si sta davvero allenando per entrare nelle forze speciali dell’esercito, e così via… Possiamo davvero tracciare una demarcazione netta tra vero e falso?

C’è comunque una verità nella bugia. È vero che Nufar, la giovane protagonista, non subisce un’aggressione sessuale. Però subisce un’aggressione, e questo è innegabile. Avishai Milner, l’antagonista, la assale, viola la sua dignità di persona, solo che lo fa in un modo che non lo obbliga a rendere conto, non punibile dal codice penale. Oggi, finalmente (e abbiamo ancora tanta strada da fare!), la società è pronta a condannare la violenza sessuale, ma ci sono molti altri tipi di violenza che si fatica a riconoscere. È solo attraverso la bugia che Nufar riesce a fare in modo che l’aggressione di cui è stata vittima venga riconosciuta dalla società.

Come la storia parallela di Raymonde, la signora di origini marocchine che, solo attraverso una terribile menzogna (fingersi una sopravvissuta della Shoah) riesce a trovare un pubblico disposto ad accogliere il racconto del razzismo e della discriminazione che ha subito. Raymonde ha sofferto davvero di razzismo, ma in un contesto (ashkenaziti vs mizrahim) per il quale la società israeliana per lungo tempo non si è assunta responsabilità. La bugia che usa è terribile, ma la usa per dire qualcosa di vero, per raccontare un dolore che altrimenti nessuno si prenderebbe la briga di ascoltare.

L’Israele contemporanea sta diventando più sensibile nei confronti delle narrative “altre”, come quelle degli ebrei fuggiti dai Paesi arabi?

Sì, penso che nell’Israele di oggi ci siano più consapevolezza e tolleranza rispetto a due generazioni fa. Mia nonna si è sempre rifiutata di riconoscere l’esistenza del razzismo in Israele, all’interno della società ebraica. Diceva: gli ebrei non possono essere razzisti con altri ebrei, perché sappiamo cosa vuol dire, sappiamo cosa significa essere minoranza. Penso che avesse torto e vedo la mia generazione molto più capace di riconoscere il razzismo interno alla società ebraica, ad esempio tra asheknaziti e mizrahim. Perciò, l’eco delle narrative “altre”, oggi è più forte, più ascoltato. Nello stesso tempo, non siamo ancora pronti per il riconoscimento di narrative esterne alla società ebraica, come quella palestinese.

Quanto Bugiarda è universale e quanto locale? Quanta Israele c’è nel romanzo?

La storia è decisamente universale, le vicende di un’adolescente che finisce inviluppata in una ragnatela di bugie potrebbero capitare ovunque. Nello stesso tempo è anche molto locale: essendo israeliana, quando scrivo esprimo sempre qualche aspetto della mentalità del mio popolo. Uno di questi è il fatto che ci piace pensarci vittime, questo si riflette nel modo in cui i personaggi reagiscono a ciò che succede.

Qual è il ruolo delle storie, della letteratura, nell’aiutarci a conoscerci?

Parte della nostra cultura consiste nel conoscere e sapere utilizzare le “bugie sociali”. In questo momento, tu non potresti mai dirmi che il libro non ti è piaciuto e che ti hanno forzato a intervistarmi. Io non potrei mai dirti che non mi va di stare qui, che è la mia prima volta a Milano e voglio visitare la città. Abbiamo codici molto severi su quello che possiamo dirci o non dirci l’un l’altro.

Una parte dell’educazione nell’infanzia è riservata a come gestire queste bugie sociali: come dire grazie di fronte a un regalo che non desideri, rispondere “Grazie, non ho fame”, quando invece di fame ne hai eccome, ma il cibo che ti hanno offerto è disgustoso; insegniamo ai nostri bambini a non fissare qualcosa di interessante, perché non sta bene, il che è costringerli a mentire, obbligarli a fingere di non provare interesse.

Così, l’educazione ai bambini si compone per metà dell’esortazione a usare le bugie sociali quando servono, e per l’altra metà dell’ammonimento a non mentire. A non dire tutte le altre bugie, quelle considerate “cattive”.

Con la letteratura, accade che facciamo esperienza di aprire un libro e trovarvi qualcuno che dice tutto ciò che non ci è permesso dire, parla dei sentimenti che non ci è permesso provare, dei pensieri che non ci è permesso pensare: e allora troviamo così tanta verità in quella storia, diciamo: “Finalmente, qualcuno che ne parla!”. E proviamo sollievo, per quella parte di noi stessi che abbiamo forzato al silenzio e che ora parla tra le pagine.

Post-verità, fake news e, soprattutto nell’arena politica, personaggi che vogliono imporsi nel loro essere “veri, autentici”. Cosa sta succedendo?

Politica e letteratura sono due situazioni differenti. La letteratura può e deve rivelare ciò che abbiamo dentro, anche se non è bello. Assimiliamo i valori della nostra cultura, pur cercando di non combatterli, e così in tutti noi, anche nei liberali di sinistra, c’è un po’ di razzismo, e sempre in tutti noi, anche nelle donne, c’è un po’ di maschilismo.

Ora, capita che un personaggio pubblico, un politico, dica qualcosa di apertamente razzista, o maschilista, e che vi siano reazioni come: “Oh, finalmente qualcuno che lo dice a voce alta!”. Ecco, credo che la politica, non dovrebbe sdoganare questi atteggiamenti. Il fatto che li abbiamo dentro non significa che vadano celebrati, sventolati come una bandiera. Sono pensieri veri, autentici? È autentico anche l’andare in bagno, ma non per questo lo facciamo davanti a tutti!

Il romanzo è tutto un gioco di coppie, di doppi: tra il personaggio e un suo corrispondente (di solito più bello, sicuro di sé, invidiabile) e anche tra le due versioni, quella vera e quella immaginata, dello stesso personaggio. Qual è il ruolo del confronto nel definire noi stessi? Quale scarto tra l’Israele reale e l’Israele immaginata?

C’è sempre uno spazio, una relazione delicata tra chi siamo e chi vogliamo essere. Come il complicato rapporto di ognuno davanti al proprio specchio. Penso sia lo stesso per Israele, perché gli ebrei hanno aspettato duemila anni per avere un proprio Stato: vuol dire un sacco di tempo per immaginarlo, fantasticarci sopra, pensare a come sarà. E quando finalmente ottieni lo Stato che hai tanto sognato, hai questa grande domanda: sarà all’altezza delle aspettative e delle fantasticherie che abbiamo coltivato?

Credo che oggi molte persone pensino: “Questa non è l’Israele che sognavo”. Forse proprio come si guardano allo specchio e dicono: dovrei essere molto meglio di così.

 

“Bugiarda” di Ayelet-Gundar Goshen, Casa Editrice Giuntina, traduzione di Raffaella Scardi, 260 pagine, 17 euro

Silvia Gambino
Responsabile Comunicazione

Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.


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