Cultura
Charlotte Salomon, in mostra i suoi meravigliosi fogli a tempera

“Vita o teatro?” è il titolo dell’autobiografia in oltre 700 fogli a tempera della pittrice tedesca scappata in Francia e morta ad Auschwitz. Un lavoro intenso tra immagine e parole, spesso considerato precursore degli attuali graphic novel

Una giovane donna fragile travolta da un destino crudele. È stata a lungo considerata in questi termini, ma non è questa Charlotte Salomon. Se guardiamo i fogli che compongono l’opera pittorica con cui Charlotte ha rappresentato sé stessa e le persone a lei vicine, emerge tutto un altro profilo. Quello di una persona pronta ad affrontare le difficoltà e le tragedie attraverso lo strumento più formidabile inventato dal genere umano, l’arte.

Charlotte termina all’inizio del 1943 il suo lavoro di 769 fogli a tempera (senza considerare quelli esclusi nella versione definitiva). Vive nella Francia meridionale, a Saint-Jean-Cap-Ferrat presso Nizza, ma viene da Berlino. A giugno sposa Alexander Nagler, come lei ebreo mitteleuropeo esule in Francia, e rimane presto incinta. A settembre, probabilmente per una denuncia, i due vengono presi e deportati nel campo di Drancy. A ottobre sono spediti ad Auschwitz, dove Charlotte viene immediatamente uccisa. Nagler sopravviverà qualche mese, senza tuttavia superare l’inverno del 1944. Prima della cattura la ventiseienne Charlotte ha consegnato al medico di Villefranche-sur-Mer la sua opera, che verrà consegnata a guerra finita, nel 1947, ai genitori della giovane, nascosti in Olanda durante la Shoah e sopravvissuti. Dopo il rifiuto di due importanti istituzioni museali – lo Stedelijk di Amsterdam e il Museo di arte moderna di Tel Aviv – nel 1971 i fogli vengono donati al Museo ebraico di Amsterdam, che oggi li custodisce. Dopo alcune mostre e pubblicazioni parziali, nel 1981 esce la prima edizione completa dell’opera.

Il resto è cronaca. Biografie, cataloghi, un balletto, spettacoli e film: come ha scritto Camilla Marini in occasione dell’uscita di un film di animazione su Charlotte, una sfida difficile che la contemporaneità ha raccolto. Ma la centralità data alla figura e all’opera di Salomon nel racconto della Shoah deriva anche da una mostra a cura del Museo ebraico di Amsterdam che da anni gira tra le principali città europee e non solo. Dopo essere stata, tra gli altri luoghi, a Londra, Milano, Parigi e Toronto, fino a settembre 2023 è ospite a Monaco di Baviera della Lenbachhaus, il museo che conserva la più grande collezione al mondo del Cavaliere azzurro, il gruppo di artisti espressionisti che negli anni precedenti la prima guerra mondiale annoverava Vasilij Kandinsky, Franz Marc e August Macke. Non è in mostra l’opera completa ma una sua cospicua parte: 237 fogli a tempera, accompagnati da brevi video e documentazione sull’autrice.

Oggi considerare il lavoro di Charlotte Salomon alla stregua della testimonianza storica, anche se importante, è certamente riduttivo. È senza dubbio anche questo, ma è anche molto di più: un’opera d’invenzione in cui si intrecciano temi diversi tra cui quello fondamentale del rapporto tra arte e vita. Questo aspetto emerge fin dal titolo Leben? Oder Theater? – Vita? O teatro? Cioè autobiografia o finzione? Verità o racconto? Veglia o sogno? Realtà, irrealtà o iperrealtà? Qual è poi la funzione di questa piccola parola, “o”, che separa i due termini? Congiunzione o disgiunzione? Unisce le due dimensioni o le distingue presentando un’alternativa? Vita è teatro e viceversa, oppure non si possono avere entrambi, bisogna scegliere?
I colori a tempera sul foglio sono pochi e sempre gli stessi. Con poche eccezioni, i colori primari. I colori degli espressionisti – per questo è tanto significativo che a Monaco questi lavori siano a breve distanza da quelli del Cavaliere azzurro – i colori di Matisse verso il quale la giovane artista sembra tanto debitrice. E se il risultato appare naif, ebbene lo è davvero nella stessa misura in cui lo sono tempere, pastelli, oli e ritagli di Matisse, come lei e prima di lei ispirato dalla luce della riviera francese.

D’altra parte se è vero che Charlotte Salomon si inserisce in un contesto artistico che è quello delle avanguardie, altrettanto vero è che innova, inventa, insomma crea qualcosa di originale e interessante di per sé. A questo proposito non si può non citare il rapporto tra testo scritto e immagine, che anticipa in qualche modo il genere oggi fortunato della graphic novel in un intreccio volutamente inestricabile. Al testo e all’immagine si aggiunge talvolta anche la musica con una serie di riferimenti  che la mostra valorizza con una serie di punti ascolto. L’Inno alla gioia in un momento nevralgico della narrazione come l’epilogo – tra il suicidio tentato e quello riuscito della nonna – accosta nel racconto sfere sensoriali diverse che svolgono sinesteticamente, come nelle migliori pagine di Arthur Schnitzler, un ruolo di commento, accompagnamento, enfasi o contrappunto.

Ma ci sono altri aspetti che rendono quella di Charlotte Salomon una grande opera d’arte. Ciascun foglio dell’opera è come una scena di teatro: non il tassello di una vera e propria autobiografia, anche se la storia è nel complesso quella dell’artista e dei suoi famigliari e conoscenti. Salomon però innesta altro sulle proprie memorie di vita, varia e inventa. Si comporta, insomma, non come una documentarista interessata a conservare traccia di qualcosa, ma come un’artista che a partire dalle proprie esperienze costruisce – il medesimo procedimento seguito da Primo Levi in Se questo è un uomo o da Elie Wiesel nella Notte. Che il teatro sia fonte di ispirazione è evidente e questo si riflette dal punto di vista tematico – molte le scene di teatro (la seconda moglie del padre è una famosa cantante lirica) – ma anche nello sguardo dell’artista (Solomon spesso raffigura la scena come se si svolgesse su un palcoscenico, e non mancano le riprese “cinematografiche” dall’alto e i carrelli) e infine nella metafora complessiva da cui deriva il titolo.

Un terzo elemento di originalità, presente soprattutto nella prima parte dell’opera, è l’accostamento su un unico foglio di più scene in cui vediamo agire la stessa figura più volte. In questo modo l’artista costruisce sequenze temporali in uno stile tipico del fumetto ma adoperato già nel medioevo, per esempio da Memling che nelle sue tele ama raffigurare scene multiple (per esempio i diversi momenti della passione di Cristo dall’entrata a Gerusalemme alla resurrezione) all’interno di un medesimo paesaggio urbano e rurale e naturalmente di una medesima cornice. Mentre inoltre i primi fogli non comprendono scritte – l’artista aveva pensato a sottili fogli di carta velina con le scritte, da sovrapporre a quelli a tempera – a partire da un certo punto i testi scritti vengono prodotti direttamente sul foglio a tempera. Allo stesso tempo i fogli, con il procedere del lavoro, rappresentano sempre più spesso una scena unica. Nell’epilogo, che comincia con la fuga in Francia dopo la Notte dei cristalli, cambia lo stile, che adesso si fa più veloce e abbozzato. Lo stesso foglio viene spesso utilizzato due volte – fronte e retro – per risparmiare carta.

La narrazione comincia nel 1913, l’anno prima della tempesta della Grande guerra. La guerra è un tragico punto di inizio che permette però ai futuri genitori di Charlotte di conoscersi – lui illustre accademico che presta servizio in ospedale, lei infermiera. Charlotte nasce nel 1917 a Berlino. La sua infanzia è ricca di stimoli artistici e intellettuali, ma anche di solitudine. È anche una tipica infanzia all’interno di una famiglia della buona borghesia intellettuale: gli amici, i giochi, le candele e l’albero a Natale, poi la scuola e le vacanze. Quando la giovane protagonista ha nove anni la madre si suicida gettandosi dalla finestra, ma a Charlotte viene detto che è stata colpita da una misteriosa febbre. Qualche anno più tardi il padre si risposa con una celebre cantante che Charlotte adora. Fin dall’inizio la vita rima con la morte. Come a teatro, dove si soffre e si muore ma solo per un po’, non davvero. Almeno, sembra. Perché a volte è la vita a prendere le forme del teatro, un teatro macabro in cui le comparse anonime marciano compatte in camicia bruna al passo dell’oca. Inutile parlare del 30 gennaio 1933, con l’ascesa al potere dei nazionalsocialisti, della propaganda antisemita dello Stürmer, del padre cacciato dall’università, degli ebrei che non sono tedeschi ma antitedeschi da cui la Germania tornata imperiale deve difendersi come da topi o bacilli.
La parte centrale del racconto si dipana tra il 1937 e il 1938. Al centro del centro, l’amore per l’insegnante di canto. A calare come una condanna l’ondata di pogrom di regime scatenata la notte del 9 novembre 1938, la Notte dei cristalli. Il padre viene per breve tempo costretto ai lavori forzati, prima di essere rilasciato. Gli ebrei tedeschi che non hanno già lasciato il paese e che hanno i mezzi per farlo se ne vanno.

Con la fuga in Francia comincia l’ultima sezione. Charlotte raggiunge i nonni a Villefranche presso Nizza. Sono ospiti della benefattrice americana Ottilie Moore, alla quale Charlotte dedicherà la propria opera con enorme riconoscenza. Accolti con gioia, ma pur sempre nelle mani della generosità altrui. La nonna prova a uccidersi impiccandosi in bagno ma viene soccorsa in tempo. Allora il nonno racconta del suicidio della figlia, cioè la madre di Charlotte, e anche della sorella della madre, la zia. Charlotte non lascia un minuto la nonna. È il momento dell’Inno alla gioia. “Dio mio, non farmi impazzire”, scrive. Poi un giorno la nonna, di fronte agli occhi della nipote, si butta dalla finestra e muore. Charlotte è l’unica delle donne della famiglia a non essersi uccisa. È in questo momento che si mette a dipingere.

Per quasi due anni compone la sua opera fluviale al ritmo di due o anche tre fogli al giorno. Prima a Villefranche, poi per non abusare della generosità di Ottilie nel paese vicino di Cap-Ferrat. Intrecciando le tecniche e gli stili, racconta e crea. Nell’ultimo foglio Charlotte dipinge in riva al mare. La vediamo voltata di schiena, su cui si legge la scritta Leben oder Theater, vita o teatro. Così il cerchio è chiuso, e potrà cominciare una vita nuova. Forse. In questa ultima pagina l’artista tiene in mano un foglio di cui si vede il contorno: la pagina è come trasparente e mostra un frammento di mare e uno spicchio della figura della stessa giovane inginocchiata su uno scoglio – il teatro della vita.

 

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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