Israele
Contaminazioni artistiche a Tel Aviv

Intervista a Ivo Bisignano dalle sue installazioni nelle grotte di Beit Guvrin agli anni del suo primo disegno su commissione, alla scuola materna

Trent’anni di carriera attraverso un percorso interdisciplinare e transmediale tra architettura, arte e animazione. Dopo aver vissuto tra Milano, Berlino, Londra e New York, Ivo Bisignano ha scelto – almeno per il momento – di fermarsi a Tel Aviv. In questa intervista, oltre a raccontarci il suo percorso fin qui, ci spiega anche perché ha scelto Israele come sua nuova casa.

Come è cominciato il tuo percorso artistico?
A Regalbuto, in Sicilia, dove sono nato. Quando all’asilo mi hanno chiesto di disegnare una casa ho disegnato una torre a forma di stivale con all’interno tutti i componenti della mia famiglia. La maestra ha immediatamente detto a mia madre “suo figlio ha dei problemi” e io in risposta ho cominciato a colorare ogni punto della casa, mettendola a ferro e fuoco, utilizzando, quando necessario, i mobili al posto dei fogli.
Terminato il liceo scientifico la mia passione per l’arte e per la costruzione mi ha portato a iscrivermi alla Facoltà di Architettura di Palermo. Lì ho scoperto che studiare architettura non significava solo progettare ma anche leggere l’arte attraverso la lente di grandi maestri. Viventi, come come Bruno Munari e Alvaro Siza – che insegnava a studiare con il metronomo – e i grandi attraverso il loro lascito: dal capolavoro barocco dei Quattro Canti a Palermo, allo studio della scuola di Le Corbusier. Sempre in quegli anni ho partecipato ad un concorso a Berlino, che mi ha portato a concludere la mia tesi presso quella Università. Erano gli anni successivi alla caduta del muro e trapelava ovunque una grande energia di rinnovamento.

Quanto Berlino ha influenzato il tuo percorso artistico?
Quando sono arrivato a Berlino, Christo aveva appena impacchettato il Reichstag. Erano gli anni di Renzo Piano ed ero circondato da musei ovunque andassi. Entravo la mattina ed uscivo e la sera. Mi trovavo, letteralmente, al posto giusto nel momento giusto, ma, tra tutti, il luogo che ha sicuramente influenzato di più la mia percezione – e, in seguito, la mia realizzazione – dell’arte, è stato il Museo di Pergamo. Finita l’università ho capito che non potevo ritornare in Sicilia e la Berlino italiana negli anni Novanta era a Milano, dove ho cominciato fin da subito a lavorare nella Galleria Corso Como. Mi occupavo della produzione delle mostre, e attraverso Carla Sozzani ho conosciuto sua sorella Franca he presto mi ha coinvolto in Conde Nast. Luoghi diversi e diversi modi di apprendere. Una delle cose più interessanti che ho scoperto era il menabò del giornale, che andava pensato nella sua struttura totale. Così ho cominciato a fare lo stylist e questo mi ha aiutato ad espormi a materiali inusuali, come per esempio la pelle, che quando mi sono ritrovato a dover utilizzare nell’editoria mi ha permesso di esplorare tutto il mio sapere accumulato attraverso gli studi precedenti. Mi sono ritrovato a fare un servizio di 8 pagine sui gioielli di Maria Callas ispirandomi alle cartoline di Salvador Dalì. Più lavoravo e più disegnavo, così da sylist sono diventato illustratore, fino a quando ho capito che quella era la mia vera passione, e ho fatto la mia prima mostra al Club Plastic di Milano.

Cosa ti ha lasciato Milano più di tutto?
Milano mi ha spalancato le porte verso il resto del mondo, grazie al rapporto privilegiato con i grandi nomi della moda internazionale, dai Fratelli Rossetti ad Alessandro dell’Acqua, passando per Steven Jones – il “cappellaio matto” di Londra – per cui ho curato la mostra Hat-ology. A San Pietroburgo, come artista, ho messo in scena Animal Portraits, utilizzando tessuti di Missoni. Poi ho creato per Prada Minimal Baroque, delle illustrazioni per i loro prodotti con animali al posto delle donne, che ricordavano un teatro del Brunelleschi. Tutte queste occasioni sono state un trampolino di lancio che poi mi ha fatto lasciare il mondo della moda per darmi alla mia vera passione, il disegno e l’animazione, con cui ho iniziato a fare cortometraggi ispirati alla figura di Elsa Schiaparelli, per uno storyboard che è stato presentato ad una rassegna cinematografica, in suo omaggio, presso il Centre Pompidou di Parigi. Milano per me è stato tutto questo, l’hub da cui partire e tornare negli anni in cui trascorrevo più tempo in aereo che in studio. Quando poi passavo da Milano, spesso lavoravo durante la settimana del Salone del Mobile, allestendo le vetrine delle grandi firme attraverso la tecnica della realtà aumentata. Non mi sono mai spaventato di fronte a nessun materiale e nessuna tecnologia. Ogni nuovo progetto era sempre una buona occasione per mettersi alla prova, soprattutto quando gli spazi a disposizione erano complicati.

Quali altri luoghi sono stati cruciali negli ultimi anni prima di scegliere Tel Aviv?
Gli anni 2000 li ho vissuti nel triangolo Parigi – New York – Londra. Sono stati gli anni in cui mi sono dedicato soprattutto all’animazione attraverso alla tecnica dello stop motion, costruendo veri e propri set cinematografici a fianco del grande artista Angelo Flaccavento. Poi nel 2015 c’è stata la grande sfida di Londra, dove, assieme al mio compagno Alex Meitlis, architetto, abbiamo lavorato a quattro mani per la realizzazione di Shoreditch Platform, un intero edifico pensato come spazio di coworking, dove i proprietari ci hanno dato carta bianca per creare un percorso che andasse dal pavimento ai soffitti, inclusa la facciata, contaminando lo spazio a 360 gradi. A Londra ho cominciato anche a lavorare sul concetto di arte applicata al brand, creando una collezione apposita per i ristoranti di Yotam Ottolenghi, israeliano di origine ma londinese di adozione. Ho sempre amato la libertà con cui Ottolenghi riusciva ad esprimersi attraverso la sua cucina, luogo di incontro tra oriente e occidente, che ha così ispirato la mia arte anche nel disegnare oggetti dall’uso quotidiano. In questo senso mi considero un artista rinascimentale contemporaneo, che si nutre di quello che ha davanti, che si tratti di cibo o letteratura. Ogni scoperta è sempre stata per me fonte di ispirazione.

Alla fine, cosa ti ha portato in Israele?
Inizialmente il mio compagno Alex, che ho conosciuto a Londra ma che era originario di Tel Aviv. Parlando di spazio, in Israele mi sono immediatamente innamorato degli spazi infinti del deserto. Proprio prima di trasferirmi a Tel Aviv avevo partecipato ad un’art residence a Pavia, il cui risultato era stata un’opera in cui trasformavo il Ticino in un fiume di metallo. Metallo e legno sono diventati le nuove sfide sui cui lavorare, e mi hanno portato a sviluppare il concetto di Human Form. Ispirato alla solidità della presenza del corpo umano, ho utilizzato il legno proveniente dal nord di Israele: materiale rigorosamente riciclato, perché mai avrei potuto distruggere un albero di questa terra così fragile, per fare una mostra che già mi immaginavo di allestire in uno spazio in mezzo alla natura. Quando Alex mi ha portato alle grotte di Beit Guvrin mi si è aperto un mondo: la cornice perfetta dove far dialogare sia le sculture che le video installazioni, in una sorta di struttura teatrale nascosta tra le grotte, in cui le sculture si integravano alle ombre create dalle pareti murarie, che le rendevano cinque volte più grandi delle opere originali. In questo progetto è stato fondamentale il contributo della set lighter Felice Ross, israeliana, ma come me cittadina del mondo, che ha lavorato fianco a fianco con il grande artista sudafricano William Kentdrige. Per me lui è uno dei più grandi maestri dell’arte contemporanea, capace di contaminare i luoghi attraverso la materia e i suoni, creando pièce teatrali a tutto tondo, come durante i grandi spettacoli teatrali del medioevo, allestiti con le macchine sceniche di Leonardo. Lavorare al fianco di Felice Ross è stato come chiudere un cerchio.

 

A proposito di chiudere un cerchio, per concludere, cosa hai imparato in questa nuova esperienza israeliana?
Una delle cose che ho appreso in Israele è l’importanza di sviluppare un processo creativo soltanto mio. Qui ho imparato a ripulirmi di tanti orpelli. In questo Paese c’è una grande apertura mentale che mi ha aiutato a fare piazza pulita dell’Ivo che arrivava carico del bagaglio della vecchia Europa e a ricominciare con una nuova attitudine. Forse quello che qui chiamano, nell’ambito high tech “innovazione”, io l’ho adottato prima di tutto su di me e sul mio nuovo modo di progettare. Se Berlino e Londra mi hanno formato e plasmato attraverso la loro arte e i loro musei, ora io mi sto formando e plasmando attraverso la natura ed il deserto israeliano. Più viaggio e più mi rendo conto che la città ideale non esiste, ma solo città immaginarie come quelle magistralmente descritte da Italo Calvino. Anche la mia città utopica, in quanto tale, non esiste, ma la ritrovo ogni volta che mi allontano da Tel Aviv e mi avvicino al deserto. Qui la natura è davvero incontaminata. Non c’è fonte di ispirazione più grande, per alimentare la mia arte che si sviluppa attraverso un continuo processo di contaminazione.

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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