Cultura
Cronologia di una crisi

Israele sotto attacco: le ragioni e i tempi di un conflitto sempre più violento e radicale. Che cosa è successo dal 5 maggio ad oggi

La sequenza temporale dell’ultima crisi tra israeliani e palestinesi segue un passo tanto accelerato quanto contratto. Quindi in sé notevolmente radicalizzato. È peraltro del tutto evidente che l’esacerbazione delle tensioni risponda ad una qualche preordinazione, ossia ad un’intenzione che non è il frutto dell’occasionalità bensì di un sommarsi di aggressività più o meno latenti, indirizzate poi verso uno specifico obiettivo. Non è meno evidente, tuttavia, che se le tensioni erano nell’aria già da tempo, ossia se si poteva facilmente cogliere la saturazione di aggressività che andava cumulandosi in questi ultimi mesi, è nel suo insieme l’intera contrapposizione tra Israele e le organizzazioni del radicalismo islamista che si alimenta di una linea di costanti fratture. In altre parole, anche nei momenti di minore frizione, quando sembra invece vigere lo status quo, il fuoco cova comunque sotto la cenere. Per poi produrre fiammate repentine. Una tale dinamica vige, quanto meno, dall’autunno del 2000 quando, a fronte del fallimento delle ultime negoziazioni diplomatiche, si avviò una lunga fase di recrudescenza del conflitto che dura a tutt’oggi. Il resto è, per così dire, cronaca dei giorni nostri. Conta il ricostruirla per avere il quadro di riferimento dentro il quale si consuma quest’ultima tempesta, a tutt’oggi ancora in corso.

 Il 5 maggio Yehuda Guetta, uno studente israeliano diciannovenne, che era stato colpito alla testa in una sparatoria a Tapuah Junction in Cisgiordania, muore nell’ospedale in cui era stato ricoverato. Il giorno successivo si ripetono e si confermano le crescenti tensioni in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, manifestatesi già nelle quattro settimane precedenti. Saeed Yusuf Muhammad Oudeh, di 16 anni, adolescente palestinese, viene ucciso durante alcuni scontri contro le forze di difesa israeliane, insieme ad una donna colpita mentre cercava di effettuare un’aggressione con armi da taglio. Lo stesso 6 maggio le proteste palestinesi investono Gerusalemme.  La scintilla è data da una decisione della Corte Suprema di Israele in merito allo sgombero dei residenti arabi da Sheikh Jarrah, un quartiere di Gerusalemme Est. L’area in questione è annessa alla giurisdizione d’Israele. Tuttavia, in base al diritto internazionale, rimane parte dei territori palestinesi amministrati per interposto soggetto, ossia dallo Stato ebraico, che non è riconosciuto come il legittimo titolare della sovranità su di essi. Le proteste degenerano rapidamente in violente scaramucce con gli israeliani.

La lunga disputa a Sheikh Jarrah è peraltro considerata un microcosmo delle controversie israelo-palestinesi sulle terre di comune residenza, dal 1948 in poi. Le leggi israeliane, infatti, consentono agli ebrei di presentare rivendicazioni su quelle porzioni di territorio in Cisgiordania e a Gerusalemme Est che potrebbero avere avuto in proprietà prima della nascita dello Stato, avendone poi perduto il possesso a causa delle guerre da allora intercorse. Secondo i documenti ottomani che attestano i precedenti titoli di proprietà, la terra contesa a Sheikh Jarrah fu acquistata nel 1870, per parte di consorzi ebraici, direttamente dai suoi proprietari arabi. L’autenticità di questi documenti è stata tuttavia messa in dubbio. Nel 1956, il governo giordano, in collaborazione con l’organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’Unrwa, avviò l’ospitalità di ventotto famiglie di rifugiati palestinesi, con diritto di locazione, in un complesso edilizio su un terreno che la Giordania gestiva come custode delle proprietà sotto propria occupazione militare. Dopo la Guerra dei sei giorni, l’area ricadde nella giurisdizione israeliana.

Nel 1972, il catasto generale israeliano registrò le proprietà come appartenenti ai trust ebraici, che a loro volta chiesero che gli inquilini palestinesi pagassero l’affitto di locazione. Le richieste di sfratto iniziarono tuttavia solo negli anni Novanta. Nel mentre, le case erano già state vendute ad alcune organizzazioni ebraiche che da allora in poi hanno tentato ripetutamente di sfrattare i residenti palestinesi. Il distretto di Sheikh Jarrah ospita peraltro alcuni tra i discendenti dei profughi sfollati nel 1948. Nel 2010, la Corte Suprema di Israele, chiamata a dirimere la controversia, ha quindi respinto un appello delle famiglie palestinesi che avevano risieduto in cinquantasette unità abitative del quartiere. Nei primi giorni di maggio di quest’anno, infine, la medesima Corte Suprema di Israele si è pronunciata con una sentenza definitiva sulla legittimità del procedimento di sfratto di sei famiglie palestinesi dall’area residenziale di Sheikh Jarrah. Il 9 maggio 2021, dopo un intervento del procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit, si è deciso di ritardare di trenta giorni l’esecutività della deliberazione. Contestualmente, la polizia israeliana ha vietato agli ebrei di recarsi nell’area di al-Aqsa per i festeggiamenti di Yom Yerushalayim. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha difeso le azioni della polizia israeliana e ha affermato che Israele «non permetterà a nessun elemento radicale di minare la calma». Ha anche ricordato che il governo uscente, ma ancora formalmente in carica, «respinge fermamente la pressione di non costruire a Gerusalemme».

Intanto, con l’inizio del Ramadan in aprile, la polizia israeliana aveva già provveduto a bloccare con transenne l’accesso alla Porta di Damasco, dove i fedeli musulmani di solito si riuniscono durante le ore di convivialità seguenti al digiuno diurno. Sulla scia delle proteste, le barriere erano state però rimosse. Anche l’imposizione del limite di diecimila persone all’accesso per le preghiere nella moschea di al-Aqsa aveva causato non poche tensioni. Il 15 aprile, un video postato sulla piattaforma TikTok, nel quale si vede un adolescente palestinese schiaffeggiare un ebreo ultraortodosso, era poi velocemente diventato virale, portando a diversi incidenti. Il giorno successivo decine di migliaia di fedeli palestinesi sono stati allontanati da al-Aqsa, nel primo venerdì del Ramadan. Lo stesso giorno, un rabbino è stato picchiato a Yafo, evento che ha originato due giorni di proteste. Il 22 aprile, il gruppo ebraico di estrema destra Lehava («Fiamma», ossia LiMniat Hitbolelut B’eretz HaKodesh, «Prevenzione dell’assimilazione [ebraica] in Terra Santa», affiliato al partito Otzma Yehudit) ha organizzato una marcia attraverso Gerusalemme, lanciando slogan provocatori ed arrivando ad inneggiare a favore della «morte agli arabi».

Il 23 aprile, si è quindi avviato un primo confronto militare, dopo il lancio di trentasei razzi nel sud d’Israele, con la risposta dell’esercito contro obiettivi di Hamas collocati nella Striscia di Gaza. Il 6 maggio, attacchi di palloni incendiari lanciati da Gaza hanno provocato alcuni incendi. Nello stesso giorno, Itamar Ben-Gvir, politico israeliano esponente della destra radicale, ha aperto il suo ufficio a Sheikh Jarrah. Aveva visitato il quartiere nei giorni precedenti, affermando che le abitazioni appartengono agli ebrei. Le proteste arabe più accese sono esplose il 6 maggio a Sheikh Jarrah, ma presto gli scontri si sono estesi alla moschea di al-Aqsa, a Lod, ad altre località arabe in Israele e in Cisgiordania. Palestinesi e israeliani si sono scontrati per la prima volta in prossimità delle abitazioni dalle quali le famiglie palestinesi rischiano di essere sfrattate. I manifestanti palestinesi hanno tenuto pasti serali e notturni all’aperto. Lo stesso 6 maggio, alcuni residenti negli insediamenti israeliani e appartenenti ad Otzma Yehudit hanno quindi allestito un tavolo dall’altra parte della strada, di fronte ai manifestanti arabi. I video postati nei social media mostrano entrambe le parti che si scagliano vicendevolmente insulti, pietre e sedie. La polizia israeliana è quindi intervenuta, arrestando almeno sette persone.

Il 7 maggio, un gran numero di poliziotti è stato dispiegato sul Monte del Tempio, mentre circa settantamila fedeli hanno assistito alle funzioni del venerdì del Ramadan alla moschea di al-Aqsa. Dopo le preghiere serali, alcuni fedeli palestinesi hanno iniziato a lanciare pietre ed altri oggetti, precedentemente accumulati, contro gli agenti di polizia israeliani. In risposta, i militi hanno lanciato granate assordanti, cercando di disperdere la folla e di sedare i tumulti. Un portavoce della moschea ha dichiarato che gli scontri sono scoppiati dopo che la polizia israeliana aveva tentato di evacuare il complesso, nel recinto del quale dormono molti palestinesi. Più di trecento manifestanti sono quindi rimasti feriti mentre la polizia israeliana ha poi fatto irruzione all’interno dell’area dove sorge la moschea. I palestinesi hanno ancora lanciato pietre, petardi e oggetti pesanti, mentre la polizia israeliana ha sparato di nuovo granate assordanti, gas lacrimogeni e proiettili di gomma.

I miliziani di Hamas a Gaza hanno lanciato razzi su Israele la notte seguente. Altri scontri si sono verificati l’8 maggio, data della ricorrenza islamica di Laylat al-Qadr. Gruppi di arabi hanno lanciato pietre, acceso fuochi e cantato «colpisci Tel Aviv» e «in spirito e sangue, redimeremo al-Aqsa», inneggiando ad Hamas. La polizia israeliana, in assetto antisommossa è di nuovo intervenuta, nel mentre almeno ottanta persone sono rimaste ferite o contuse.. Durante la sera e la notte dello stesso giorno 10, i rivoltosi arabi a Lod hanno lanciato pietre e bombe incendiarie contro case ebraiche, insieme ad una scuola ed una sinagoga. In seguito hanno preso di mira un ospedale. Sono stati sparati colpi di arma da fuoco che hanno ucciso un manifestante; un israeliano, ritenuto responsabile della sparatoria, è stato arrestato. Le proteste e le rivolte si sono intensificate in tutto Israele, in particolare nelle città con una presenza araba. A Lod è continuato il lancio di pietre contro gli appartamenti. Alcuni residenti ebrei sono stati evacuati dalle loro case dalla polizia.

L’11 maggio, il sindaco Yair Revivio ha esortato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a dispiegare la polizia di frontiera israeliana nella città, affermando che si era «completamente perso il controllo» della situazione, descritta drammaticamente al pari di una «guerra civile». Netanyahu ha quindi dichiarato lo stato di emergenza a Lod. Si tratta della prima volta dal 1966 che Israele usa poteri di emergenza su di una comunità arabo-israeliana. Il ministro della Pubblica Sicurezza Amir Ohana ha quindi annunciato l’attuazione degli ordini di emergenza. I disordini sono continuati il ​​12 maggio. Il presidente d’Israele Reuven Rivlin ha parlato al riguardo di «pogrom». Ad Akko un israeliano è stato aggredito e gravemente ferito da una folla inferocita, armata di bastoni e pietre, mentre guidava la sua auto. A Bat Yam, estremisti ebrei hanno attaccato i negozi arabi e picchiato i pedoni. Anche un motociclista è stato aggredito per strada dopo essere stato scambiato per un arabo. Antecedentemente, il presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, aveva già rilasciato una dichiarazione secondo cui «il brutale assalto ai fedeli nella benedetta moschea di al-Aqsa e nei suoi cortili è una nuova sfida per la comunità internazionale». Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas, aveva a sua volta commentato gli scontri tra polizia israeliana e rivoltosi al Monte del Tempio di Gerusalemme definendoli «un vero massacro e un crimine di guerra».

Nel mentre la stessa Hamas aveva ingiunto ad Israele di ritirare le sue forze dalla moschea di al-Aqsa entro il pomeriggio del 10 maggio. Pochi minuti dopo la scadenza del termine, il gruppo terrorista ha lanciato da Gaza più di 150 razzi su Israele. Un missile anticarro è stato anche sparato contro un veicolo civile israeliano, ferendo il conducente. L’ultimatum è stato poi ripetuto nella notte, seguito da un’altra salva di razzi. In risposta, Israele ha lanciato attacchi aerei di alleggerimento nella Striscia lo stesso giorno. La torre residenziale Hanadi di tredici piani a Gaza City è crollata l’11 maggio, dopo essere stata colpita. Le forze di difesa israeliane hanno dichiarato che l’edificio ospitava uffici usati da Hamas. Antecedentemente all’attacco aereo era stato formulato «un preavviso ai civili presenti nell’edificio, garantendo loro tempo sufficiente per evacuare il sito».

Hamas e la Jihad islamica palestinese hanno ancora risposto sparando centotrentasette razzi contro Tel Aviv in soli cinque minuti. Hamas ha quindi affermato di avere realizzato il «più grande sbarramento missilistico mai visto». Un oleodotto statale israeliano è stato raggiunto e danneggiato in quelle stesse ore. Il 12 maggio, l’aviazione israeliana ha colpito dozzine di installazioni di sicurezza lungo la Striscia di Gaza. Tra di esse il quartier generale della polizia. Più di ottocentocinquanta razzi, di varie dimensioni, gittata e potenza, sono stati lanciati da Gaza in Israele durante la stessa giornata. Secondo le stime dell’esercito di Gerusalemme, almeno un quarto di essi non sono riusciti a raggiungere Israele, cadendo all’interno della Striscia. Il conto delle vittime è tuttavia aperto. Circa una novantina di palestinesi, tra i quali diversi esponenti dei gruppi militanti. Sette i morti israeliani. Le scuole, nel centro e nel sud d’Israele, sono chiuse per ragioni di sicurezza. Il richiamo dei riservisti è in atto, nel mentre l’ipotesi di un’azione di terra da parte delle forze diventa realtà con il passare dei minuti.

 

 

 

 

 

 

 

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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