Cultura
Dal pianto al sorriso. Intervista a Lia Levi

Il nuovo libro nasce da uno scritto composto a dodici anni, nell’autunno 1944, quando Roma era ormai liberata, ma nell’Italia del nord ancora si combatteva

Una importante scrittrice in dialogo con se stessa, oppure con un’altra persona. O forse con sé e con un’altra nello stesso tempo. Lia Levi da quasi quaranta anni, cioè dal felice esordio con Una bambina e basta (e/o 1994), racconta l’interruzione della quotidianità tramite leggi che dividono artificiosamente i cittadini italiani in due gruppi, non ebrei ed ebrei, privando i secondi dei diritti e aprendo alla persecuzione.

Le leggi razziste stabiliscono che cosa si può fare e che cosa no, ma di fatto arrivano ben presto a rimodulare l’intera area di esistenza degli esclusi, le loro amicizie, abitudini, emozioni, paure e speranze. In questo percorso Lia Levi ha scelto dapprima la strada del romanzo autobiografico e poi, in molte occasioni, quella dell’invenzione, come è il caso tra gli altri del più recente romanzo, Ognuno accanto alla sua notte (e/o 2021), recensito su queste colonne. Allo stesso tempo, mentre Una bambina e basta diventava testo di riferimento per la didattica della Shoah in Italia, la scrittrice ha cominciato a parlare direttamente ai ragazzi sia intervenendo di persona nelle scuole sia attraverso libri rivolti ai giovani. Le sue ultime fatiche sono La storia di Anna Frank (raccontata da Lia Levi e illustrata da Barbara Vagnozzi per i bambini intorno ai sette anni, pubblicato da Gallucci), e per i ragazzi Dal pianto al sorriso (Piemme), che sebbene porti il suo nome è un libro di cui Lia Levi si considera autrice e non autrice allo stesso tempo. Si tratta infatti di uno scritto composto a dodici anni, nell’autunno 1944, quando Roma era ormai liberata ma nell’Italia del nord ancora si combatteva, scoperto per caso pochi mesi fa. L’editore ha insistito per pubblicare questo testo, donando simbolicamente il volume alla scrittrice per il suo novantesimo compleanno. Il racconto di Lia bambina incastonato tra una introduzione di Lia scrittrice che racconta la scoperta inattesa dello scritto e un dialogo tra le due Lie che spinge a interrogarsi su che cosa significhi dialogare con qualcuno che è se stessi e contemporaneamente una persona diversa, lontana nel tempo; in appendice la riproduzione del manoscritto originale e alcune fotografie a corredo. Lia scrittrice, in ogni caso, dice “lei” quando si riferisce all’autrice del testo.

Come è avvenuta la scoperta del manoscritto?

È stata una scoperta del tutto casuale. Quando esce un libro, anche se è più o meno autobiografico c’è l’invenzione. Qui invece è stato tutto diverso. Avevo il diario scritto a mano da mia madre giorno dopo giorno dal 16 ottobre 1943 alla liberazione di Roma. Lo avevo letto tanti anni fa, poi mia sorella lo ha trascritto e da allora ho sempre letto questa copia quando mi servivano informazioni. Così quando l’anno scorso mi hanno chiamata a partecipare a una tavola rotonda per il 25 aprile, giorno della Liberazione, e mi hanno chiesto di parlare di Roma, mi è venuta un’idea: invece di riferire parole mie, tiro fuori quel diario scritto a mano e mostro l’originale che ha scritto mia madre. Cercandolo ho tirato fuori un diario scritto a mano in una custodia di pelle un po’ vecchiotta che non avevo mai più aperto. Aveva le alette della copertina in pelle e piccoli foglietti bianchi, che avevo sempre pensato essere in sovrannumero, non utilizzati. Ma quel giorno l’ho rovesciato e ho scoperto che si trattava invece di un racconto mio, un racconto che ricordavo di avere scritto e consegnato come regalo ai miei genitori. Loro, come spesso i genitori di un tempo, mi avevano detto grazie senza però entusiasmarsi, io ero quindi sicura che fosse andato perduto o fosse stato buttato via. Era una piccola cosa, paragonabile a un biglietto di auguri. Così l’ho preso in mano, era composto da fogli ripiegati tenuti insieme da un cordoncino viola. Subito mi sono un po’ emozionata, poi ho telefonato ai miei figli. Infine l’ho letto ed è stata una sorpresa, perché io ero sicura di aver raccontato più o meno la nostra storia, quella che poi è diventata Una bambina e basta, anche se magari un po’ romanzata. Invece era una storia tutta inventata, molto diversa dalla nostra. Sono rimasta molto stupita perché non potevo dire “ho provato”, “ho sentito”, “ho pensato”: il fatto di dire “lei ha scritto” mi è venuto subito spontaneo. Se a proposito del testo mi chiedono “che cosa pensavi?” non capisco subito a chi si stanno riferendo: a me oppure all’autrice di quelle pagine, a lei? Questo libro non lo conosco, ed è per me una sensazione strana. Ho poi aggiunto un dialogo come espediente per mettere in relazione lei e me. Questa è la storia.

Autobiografia e invenzione sembrano richiamarsi nel testo, che è in ogni caso già letteratura.

Alcuni amici me lo hanno detto. C’è una data appuntata in fondo, “finito di scrivere il 26.12.44 – di copiare il 16.2.45”. Come le è venuto in mente, mi chiedo. Perché quello è il particolare che rende il testo un documento di un periodo preciso. Altrimenti avrei potuto dire, in generale, di averlo scritto a dodici anni, ma anche a sedici. Poi, oltre alla data, ci sono alcuni espedienti già letterari. Lo posso dire perché c’è il distacco, il testo è scritto da lei.

La divisione precisa in capitoli, l’equilibrio del testo e quello tra descrizione e dialogo, la crescita di tensione fino a un punto cruciale e poi la risoluzione nel finale ma anche le chiuse dei singoli capitoli che contengono spesso brevi commenti ai fatti narrati sono espedienti di una scrittrice abile che di rado una dodicenne possiede.

Ho ammirato, per esempio, quando invece di scrivere “bisogna portare l’oro” lei scrive, rivolgendosi alla madre, “mamma, dov’è la tua catenina?”. E poi prosegue: “La mamma non rispose, attirò a sé i bambini e li abbracciò stretti stretti”. Sono trucchetti se non altro scenografici.

C’è un rapporto di parentela tra questo scritto di una Lia bambina e il primo libro di Lia scrittrice, Una bambina e basta?

Forse il carattere malgrado tutto della protagonista. O forse no, anzi no di sicuro, perché lei è una ragazzina coraggiosa, molto più coraggiosa di me. Forse allora qualcosa nello stile. A me, quando scrivo, la cosa che più piace è inventare personaggi, dare loro sfumature, un volto e un corpo. Quando la scrittrice dodicenne descrive tutti i personaggi della pensione, soffermandosi sui vestiti e sulle contraddizioni, penso di avere forse qualcosa in comune con lei.

Leggendo Dal pianto al sorriso si coglie la passione per le lettere di una bambina che coltiva il sogno di diventare scrittrice. È cambiato qualcosa negli ultimi 78 anni?

Non ho mai cambiato niente. Anche quando facevo un altro mestiere sempre sapevo che avrei scritto, sapevo che il momento giusto sarebbe venuto. E dopo mai mi sono pentita, anzi mi sono chiesta retrospettivamente come ho fatto a fare per tanti anni la giornalista, io non sono affatto tagliata per il giornalismo, che prevede una scrittura rapida, mentre io sono lenta, scrivo e riscrivo.

Funzione della letteratura è di portare dal pianto al sorriso? Di farsi ponte tra questi due atteggiamenti così tipicamente umani?

Certo. Il titolo non l’ho cambiato, era già quello. Può forse suonare banale ma la letteratura per me è proprio questo. La letteratura anche quando racconta eventi tragici è qualcosa che dà felicità perché trasmette la forza della vita, è vita che racconta vita. Muove dal pianto e procede verso il sorriso.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.