Cultura
Déborah Couturier, la stilista della modestia

Storia di un ebraismo ritrovato e di una moda che rispetti le regole religiose senza trascurare la femminilità di chi la indossa

Che cosa può nascondersi dietro a una linea di costumi da bagno che fin nel nome, Anava (anavaparis.com), richiama il termine ebraico per indicare l’umiltà e la modestia? La risposta più semplice è che si tratti di articoli che rispettino le norme di tzniut, il pudore nel vestire per la legge ebraica. Parlando di abbigliamento da mare, la questione si fa complessa, soprattutto per la difficoltà di andare in spiaggia relativamente coperte in tutta tranquillità, senza subire occhiate strane, ma senza neppure tradire i propri principi.
Di aziende che si occupano di questo settore del vestire il mondo ebraico è ovviamente ben fornito, ma forse mancava ancora qualcosa. Così come c’era qualcosa che non tornava a Déborah Couturier, giovane stilista artefice di Anava, marchio di moda con sede a Parigi. La sua storia è raccontata da Alma , che ha intervistato l’imprenditrice andando al di là della già affascinante storia professionale.

Con un nome di origini francesi che è tutto un programma e che, si vedrà, nasconde a sua volta una parte della storia, Deborah cresce in un ambiente cristiano, con la madre nata in Costa d’Avorio e originaria del Ghana, con lontane ascendenze egiziane. Da ragazza, si rende conto di aver seguito il catechismo fin dall’infanzia, da quando ha tre anni, ma di non sapere in realtà granché della propria religione. Inizia così a studiare l’ebraismo rendendosi conto, come spiega nell’intervista, che «l’Antico Testamento della Bibbia cristiana è la Torah». Proseguendo con il racconto, Deborah ricorda di essersi chiesta quali fossero le differenze tra le due religioni, a parte Gesù: «Molti dei principi fondamentali dell’ebraismo mi erano affini e, mentre approfondivo, cominciavo a chiedermi se dovessi convertirmi. All’inizio pensavo di essere pazza, e poi non avevo ebrei intorno a me in quel periodo».
In seguito, informandosi e parlando con più interlocutori, viene a conoscenza delle cosiddette “anime perdute”, di persone cioè che, secondo gli insegnamenti mistici ebraici, nascono in famiglie non ebree pur avendone l’anima, che si è reincarnata in loro. Combattuta tra l’idea di essere una di queste anime, destinata quindi alla conversione, e il timore invece di essere ammattita, la ragazza continua i suoi studi fino al giorno in cui, ormai ventenne,  decide, nel cuore di una notte rivelatrice, di volersi davvero convertire. Prima, però, pensa che possa farle bene un viaggio in Israele. Alla vigilia della partenza va a trovare il padre, con il quale ha ripreso i rapporti negli anni delle scuole superiori, incontrandolo di tanto in tanto.
Mentre parlano del viaggio imminente, ma non del desiderio di conversione, del quale la ragazza non dice ancora nulla, il padre racconta alla figlia qualcosa che non le aveva mai detto prima. Le dice, cioè, di essere un ebreo polacco cresciuto nella zona dell’Alsazia Mosella dopo che i bisnonni di Deborah, morti poi a pochi giorni l’uno dall’altro, avevano lasciato la Polonia per trasferirsi in Francia. Da bambino, come spesso accadeva all’epoca, l’uomo era poi stato mandato a studiare presso una istituzione cattolica. «Non ha più voluto parlarmi di questo in seguito. Ma ho pensato che, dopo tutto, forse ero davvero un’anima perduta», conclude la Couturier. Al ritorno dal viaggio in Israele, la ragazza non ha ormai più dubbi, tanto da cominciare il processo di conversione nell’ottobre 2016 e concluderlo a dicembre 2018.

Fin qui, la storia personale e religiosa. Anche quella professionale, però, non poteva che modellarsi sulle vicende più profonde. Nei primi tempi tutto scorre per Deborah in maniera abbastanza convenzionale, nonostante una grandissima passione per la moda e i vestiti, rinforzata dalla madre che fin da piccola le regala macchine da cucire e una curiosa coincidenza nel nome. Per quanto non si sappia quale fosse l’originario cognome ebraico dei bisnonni, quello scelto per vivere in Francia, Couturier, ossia sarto, la dice lunga sull’attività di famiglia e, di nuovo, sul destino della pronipote. Che però inizialmente prende altre strade, laureandosi in Legge con un master in Diritto commerciale e iniziando poi a esercitare la professione di avvocato in fondi fiscali e di investimento statunitensi. «Ma anche se mi piaceva molto l’argomento, mi sono resa conto che avevo bisogno di fare qualcosa di più creativo», racconta la stilista ad Alma.
L’occasione le viene offerta proprio dalla religione. «Quando mi sono convertita, ho iniziato a vestirmi in modo più modesto e non era facile trovare costumi che mi piacessero e, soprattutto, non sentirmi stigmatizzata in spiaggia», prosegue, spiegando così come si è avvicinata a quella che oggi è la sua attività principale. «Molte donne durante l’estate mi inviavano messaggi su Instagram dicendo che non si vedevano a indossare un costume da bagno coperto, ma allo stesso tempo non se la sentivano di indossare un bikini. È così che mi è venuta l’idea di creare costumi da bagno che potessero parlare a tutte le donne. L’idea è di offrire alternative con diversi livelli di copertura».

Detto fatto, i costumi Anava sono accollati e con le spalle coperte e, per chi desidera coprire anche le gambe, sono abbinati a gonne e a parei. Il tutto senza perdere un briciolo di femminilità, che viene semplicemente mostrata in maniera più sottile.
Attenta alla qualità dei tessuti usati e alla loro eco sostenibilità, oltre a perseguire l’obiettivo del “plastica zero”, la Couturier è attiva anche nel sociale. Attraverso la sua azienda collabora infatti con una scuola di Abidjan a cui dona libri: «Sono molto legata ai Chabad della Costa d’Avorio, ben radicati ad Abidjan. È per questo motivo che ho deciso di impegnarmi in una causa che mi sta a cuore e in cui credo. Credo che l’istruzione sia il futuro e che tutti dovrebbero averne accesso».

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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