Cultura
Definire l’antisemitismo

Abbiamo analizzato e messo a confronto i testi dell’International Holocaust Remembrance Alliance con la Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo

La definizione di antisemitismo fatta propria da almeno una trentina di Stati (tra i quali l’Italia ed Israele, insieme alla stessa Unione europea) è quella messa a fuoco, in maniera giuridicamente non vincolante, dall’«Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto». L’ International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) è un’organizzazione intergovernativa, istituita nel 1998 dal primo ministro svedese Göran Persson, che unisce esponenti e delegati dei governi insieme ad esperti, ricercatori e studiosi. L’obiettivo è di promuove, diffondere e rafforzare i processi educativi come tutte quelle iniziative che possano sensibilizzare l’opinione pubblica non solo sulla memoria della Shoah ma anche sugli eventuali rischi di genocidi a venire.

La nascita di questa conferenza permanente, che si inserisce tra gli organismi consultivi che operano nell’ambito del complessi reticoli del sistema delle organizzazioni internazionali, affiancandosi quindi all’operato dei singoli Stati – a cui si rivolgono fornendo degli indirizzi operativi sulle materie di propria competenza – è avvenuta all’interno di una logica di partenariato globale. L’idea di fondo è che su questioni che possono riguardare la globalità dei paesi, o comunque un grande numero di essi, sia necessario giungere da subito a forme di collaborazione diretta, che vedano coinvolte non solo le autorità politiche e le istituzioni (chiamate comunque a tradurre le linee programmatiche in condotte concrete) ma anche tutti i protagonisti collettivi nella lotta contro il pregiudizio antiebraico.

L’Italia fu tra i primi paesi ad aderire all’iniziativa, la cui prima sessione di lavori ebbe corso nel maggio del 1998. Poco meno di due anni dopo, tra il 26 e il 28 gennaio 2000, nella ricorrenza della liberazione del campo di Auschwitz, si tenne il Forum internazionale di Stoccolma, alla presenza di partecipanti provenienti da una cinquantina di Stati. L’obiettivo, soprattutto dinanzi alla recrudescenza dell’antisemitismo, era quello di promuovere un’unione transnazionale per la lotta contro il genocidio. Di fatto, tra i partecipanti e nella discussione che ne derivò, da subito si manifestarono alcuni indirizzi di fondo non necessariamente omogenei. La spinta più forte era determinata dall’emergere in tutta Europa di un nucleo di partiti e movimenti di destra radicale, ad impianto ipernazionalista, populista e sovranista, che coltivavano posizioni sospese tra il negazionismo, l’esaltazione delle violenza, il rifiuto dei metodi democratici e le ripetute professioni di intolleranza, non solo verbale. A ciò, tuttavia, si accompagnavano gli echi dei conflitti mediorientali, che interessano l’Europa come “protagonista assente”, ovvero soggetto incapace di svolgere un’azione incisiva a livello diplomatico. I riflessi della lunga contrapposizione tra israeliani ed una parte del mondo arabo-musulmano, si proiettavano quindi sui lavori dell’Alleanza, costretta a misurarsi con i veleni che derivavano dalle posizioni antiebraiche espresse nell’agone internazionale, in diverse riprese, dagli antagonisti più accesi dello Stato ebraico.

Ben presto si pose infatti il problema di confrontarsi non solo con le forme di antisemitismo maggiormente consolidate ma anche con quelle manifestazioni avverse ad Israele e al sionismo, laddove l’uno e l’altro erano intesi come prodotto di un complotto giudaico per il dominio del mondo. La conclusione del Forum di Stoccolma fu comunque formalizzata da una Dichiarazione, approvata dall’unanimità dei partecipanti. Composta di otto paragrafi, afferma che: «l’Olocausto (Shoah) ha sostanzialmente sfidato i fondamenti della civiltà. Il carattere senza precedenti dell’Olocausto avrà sempre significato universale […]. L’ampiezza dell’Olocausto pianificato e realizzato dai nazisti deve essere impressa per sempre nella nostra memoria collettiva. […] La profondità dell’orrore e gli apici dell’eroismo possono essere pietre angolari della nostra comprensione della capacità umana di fare il male e il bene. Di fronte ad un’umanità ancora segnata dal genocidio, dalla pulizia etnica, dal razzismo, dall’antisemitismo e dalla xenofobia, la comunità internazionale condivide una responsabilità solenne nella lotta contro questi mali. Insieme dobbiamo mantenere viva la terribile verità dell’Olocausto contro coloro che la negano. Dobbiamo rafforzare l’impegno morale dei nostri popoli e quello politico dei nostri governi, per avere la certezza che le future generazioni possano comprendere le cause dell’Olocausto e riflettere sulle sue conseguenze». In sostanza era ribadita la premessa per cui la Shoah, nella sua assoluta specificità di evento catastrofico, costituisce una pietra di comparazione (ma certo non di parificazione) per altri eventi, in quanto tragedia, per l’appunto, dal «significato universale». Conoscere e studiarne le dinamiche, non solo storiche, è funzionale anche all’identificazione, così come alla prevenzione, di qualsiasi pratica di sterminio laddove questa dovesse manifestarsi.
Da ciò, quindi, venivano fatti derivare alcuni impegni, ovvero: «[il] moltiplicare gli sforzi per promuovere l’educazione, il ricordo e la ricerca relative all’Olocausto […]. Condividere l’impegno ad incoraggiare lo studio dell’Olocausto in tutte le sue dimensioni […]. Condividere l’impegno a commemorare le vittime dell’Olocausto e ad onorare coloro che vi si opposero. Incoraggeremo nei nostri paesi forme appropriate di ricordo dell’Olocausto, inclusa la ricorrenza annuale del Giorno della Memoria. […] Condividerel’impegno a far luce sui lati ancora oscuri dell’Olocausto. Compiremo tutti i passi necessari per facilitare l’apertura degli archivi, per assicurare che tutti i documenti che abbiano rilevanza siano disponibili per i ricercatori».

Fino al gennaio 2013, l’organizzazione fu conosciuta come il «Gruppo di lavoro per la cooperazione internazionale sull’educazione, il ricordo e la ricerca sull’Olocausto» (Task Force for International Cooperation on Holocaust Education, Remembrance and Research). Formazione delle giovani generazioni, commemorazione delle vittime, studio delle dinamiche e dei processi di genocidio e informazione costante della cittadinanza europea sono i quattro assi sui quali l’IHRA ha costruito nel tempo le sue proposte, indirizzate al consolidamento di una piattaforma operativa, da utilizzare nei diversi paesi interessati e quindi coinvolti dal suo lavoro. Un tale obiettivo si è quindi concretizzato nel 2016 con l’identificazione, la stesura, l’approvazione e poi la divulgazione di una «definizione operativa» (working definition) di antisemitismo. Uno dei fuochi di tale documento è costituito dall’accostamento critico tra antisemitismo e antisionismo. In realtà, tra i due fenomeni non è stata stabilita nessuna diretta sovrapposizione. Semmai si identificano alcune complesse similitudini. Il testo dell’IHRA, infatti, denuncia le forme di demonizzazione di Israele, ovvero «la sua trasformazione in uno Stato paria perennemente messo in discussione e giudicato secondo standard che non si applicherebbero a nessun altro Stato» (David Meghnagi). La working definition non interviene nel merito del conflitto politico e territoriale che contrappone israeliani a palestinesi. Semmai raccoglie gli echi antisemitici che possono annidarsi in quell’antisionismo secondo il quale Israele, per il fatto stesso di esistere come prodotto storico, sarebbe di per sé non solo una forzatura ma soprattutto un obbrobrio morale ed un esercizio di abusivismo politico da emendare con la sua cancellazione fisica.

Lo sforzo di specificazione, è risultato in sé comunque controverso, o  discutibile, ad una parte degli studiosi e dei ricercatori. Così come da subito si è ritenuta troppo incerta, poiché generica, la definizione di antisemitismo come di «una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio nei loro confronti. Le manifestazioni retoriche e fisiche di antisemitismo sono dirette verso le persone ebree, o non ebree, e/o la loro proprietà, le istituzioni delle comunità ebraiche e i loro luoghi di culto». Di certo, da tali premesse ne è derivata una concezione ampia, per certuni addirittura troppo generica, delle diverse casistiche di riferimento. Per l’IHRA rientrano infatti un ambito antisemitico, tra gli altri: «incitare e contribuire all’uccisione di ebrei o a [procurare] danni a loro scapito, o a giustificarli, nel nome di un’ideologia radicale o di una visione estremista della religione; avanzare accuse false, disumanizzanti, perverse o stereotipate sugli ebrei, in quanto tali, o sul potere degli ebrei come collettività, ad esempio, ma non esclusivamente, il mito di una cospirazione mondiale ebraica o degli ebrei che controllano i media, l’economia, il governo o altre istituzioni sociali; accusare gli ebrei di essere responsabili di comportamenti scorretti, effettivi o immaginari, commessi da una sola persona o da un gruppo ebraico, o addirittura di atti commessi da non ebrei; negare il fatto, l’ambito, i meccanismi (ad esempio le camere di gas) o l’intenzionalità del genocidio degli ebrei perpetrato dalla Germania nazionalsocialista e dai suoi sostenitori e complici durante la Seconda guerra mondiale (l’Olocausto); accusare gli ebrei come popolo, o Israele come Stato, di aver inventato o esagerato le dimensioni dell’Olocausto; accusare i cittadini ebrei di essere più fedeli a Israele, o alle presunte priorità degli ebrei in tutto il mondo, che agli interessi dei propri paesi; negare al popolo ebreo il diritto all’autodeterminazione, ad esempio, sostenendo che l’esistenza di uno Stato di Israele è un atteggiamento razzista; applicare una doppia misura, imponendo a Israele un comportamento non previsto o non richiesto a qualsiasi altro paese democratico; usare simboli e immagini associati con l’antisemitismo classico (ad esempio gli ebrei uccisori di Gesù o praticanti rituali cruenti) per caratterizzare Israele o gli israeliani; paragonare la politica odierna di Israele a quella dei nazisti; ritenere gli ebrei collettivamente responsabili delle azioni dello Stato di Israele».

Nel merito del nesso tra antisemitismo e antisionismo, ovvero tra nuova giudeofobia e avversione per Israele, si considerano espressioni di odio razzista gli «attacchi contro lo Stato d’Israele concepito come collettività ebraica». Non rientrano in quest’ultima fattispecie, pertanto, le critiche mosse alla politica dei governi israeliani, così come le opinioni che valutino aspetti della condotta dello Stato ebraico nel suo insieme, ma solo quando sono espresse al pari di come si giudicano le condotte di tutti gli altri Stati. Se queste invece prescindono dal merito effettivo delle scelte effettuate da Israele (usando quindi pretestuosamente certi fatti solo per esprimersi – per interposto oggetto, ossia coprendo con un alone di finzione le proprie intenzioni reali – nell’obiettivo di delegittimare il diritto storico, giuridico, politico e morale all’esistenza di quello Stato), vanno pienamente intese come atti di antisemitismo.  Già il 1° giugno 2017, il Parlamento europeo ha quindi approvato una risoluzione che invita gli Stati membri dell’Unione europea, e le loro istituzioni, ad adottare e applicare la definizione operativa di antisemitismo proposta dall’IHRA. Il contenuto della medesima, articolato in tre premesse e venti punti operativi, rimanda alla premessa per cui «considerando che negli ultimi anni il numero degli episodi di antisemitismo verificatisi negli Stati membri dell’Unione europea è significativamente aumentato», e che da ciò si determina un pericoloso scollamento nella coesione sociale, ne deriva che il «combattere l’antisemitismo [sia] responsabilità dell’intera società». In ragione di tale premessa, posto che «l’incitamento all’odio e ogni forma di violenza contro i cittadini europei ebrei sono incompatibili con i valori dell’Unione europea […]», il Parlamento europeo  «invita gli Stati membri e le istituzioni ed agenzie dell’Unione europea ad adottare e applicare la definizione operativa di antisemitismo utilizzata dall’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (IHRA), al fine di sostenere le autorità giudiziarie e di contrasto nei loro sforzi volti a identificare e perseguire con maggiore efficienza ed efficacia le aggressioni antisemite […]».

Insieme ad una serie di misure istituzionali e di sollecitazioni sul ruolo dei mezzi di informazione e delle agenzie formative, a partire dalla scuola, rimanda inoltre alla necessità di introdurre fattispecie penali nei singoli ordinamenti nazionali («invita gli Stati membri in cui l’invocazione di motivi fondati sulla razza, l’origine nazionale o etnica, la religione o il credo non costituisce ancora un’aggravante di reato a rimediare quanto prima a questa lacuna, e ad adoperarsi per far sì che la decisione quadro del Consiglio sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale sia integralmente e correttamente recepita e applicata, in modo da garantire che gli atti di antisemitismo siano perseguiti dalle autorità degli Stati membri dell’Unione sia online che offline»).

Nel mese di marzo di quest’anno, a ricalco – sia pure nettamente critico – di un tale lavoro si è affiancata, dopo circa un anno di discussioni, la «Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo» (The Jerusalem Declaration on Antisemitism-JDA), firmata da più di duecento studiosi, specialisti «negli studi sull’antisemitismo e nei campi correlati, inclusi gli studi ebraici, sull’olocausto, su Israele, sulla Palestina e sul Medio Oriente», tra cui alcuni italiani. Le firme sono state apposte in calce al documento prodotto dal Van Leer Institute di Gerusalemme. Rispetto al documento dell’IHRA è netta la presa di posizione critica contro quegli accostamenti che sono stati ritenuti indebiti o comunque basati su una meccanica sovrapposizione di problemi e situazioni altrimenti tra di loro differenti. Un esempio tra i diversi: «non è antisemita sottolineare la discriminazione razziale sistematica. In generale, le stesse norme di dibattito che si applicano ad altri Stati e ad altri conflitti sull’autodeterminazione nazionale si applicano nel caso di Israele e Palestina. Quindi, anche se controverso, non è antisemita, di per sé, confrontare Israele con altri casi storici, incluso il colonialismo dei coloni o l’apartheid».

Se la JDA contiene una definizione di antisemitismo che riprende alcuni aspetti del documento dell’IHRA, di fatto dettagliandola, a tratti polemicamente («poiché la definizione IHRA è poco chiara in aspetti chiave e ampiamente aperta a diverse interpretazioni, ha causato confusione e ha generato polemiche, indebolendo così la lotta all’antisemitismo»), vi aggiunge anche l’affermazione per cui «c’è un bisogno ampiamente sentito di chiarezza sui limiti del discorso e dell’azione politica legittima riguardo al sionismo, ad Israele e alla Palestina». In quanto, combattendo l’antisemitismo è tuttavia più che mai necessario «proteggere uno spazio per un dibattito aperto sull’annosa questione del futuro di Israele/Palestina». La preoccupazione al riguardo sembra essere l’aspetto più significativo dell’intero documento. Si riscontra, in merito, che «mentre l’antisemitismo ha alcune caratteristiche distintive, la lotta contro di esso è inseparabile dalla lotta globale contro tutte le forme di discriminazione razziale, etnica, culturale, religiosa e di genere». Poiché «è  razzista essenzializzare (trattare un tratto caratteriale come intrinseco) o fare ampie generalizzazioni negative su una data popolazione. Ciò che è vero per il razzismo in generale è vero per l’antisemitismo in particolare».

L’JDA si premura di affermare che il «determinare che una visione o un’azione controversa non sia antisemita non implica né che la sosteniamo né che non lo facciamo». La questione, in altre parole, non è misurarne il tasso razzista ma il capirne il merito, evitando di mettere etichette che potrebbero infine risultare non solo inappropriate bensì controproducenti. Esiste semmai un problema di contesto e di significati in sé mutevoli: «il contesto può includere l’intenzione dietro un’espressione, oppure un modello di discorso nel tempo, come anche l’identità di chi parla, specialmente quando il soggetto è Israele o il sionismo. Quindi, ad esempio, l’ostilità nei confronti di Israele potrebbe essere un’espressione di un animus antisemita, oppure potrebbe essere una reazione a una violazione dei diritti umani, o potrebbe essere l’emozione che un palestinese prova a causa della sua esperienza per mano dello Stato [ebraico]. In breve, occorrono giudizio e sensibilità nell’applicazione di queste linee guida a situazioni concrete».

All’interno di una tale intelaiatura viene inserita la definizione di premessa, quella per cui «l’antisemitismo è discriminazione, pregiudizio, ostilità o violenza contro gli ebrei in quanto tali (o le istituzioni ebraiche)». In altre parole, l’atto di avversione, qualunque esso sia, deve avere ad obiettivo una persona, una cosa, una determinata situazione, delle organizzazioni che sono identificare come «ebraiche» dall’aggressore. L’antisemita non colpisce solo un ebreo ma l’idealizzazione negativa che di esso nutre, la visione pregiudiziosa. Il costrutto antisemitico, infatti, si raccoglie intorno all’«idea che gli ebrei siano legati alle forze del male. Questo è al centro di molte fantasie antiebraiche, come l’idea di una cospirazione ebraica in cui “gli ebrei” possiedono un potere nascosto che usano per promuovere la propria agenda collettiva a spese di altre persone. Questo legame tra ebrei e male continua nel presente: nella fantasia che “gli ebrei” controllino i governi con una “mano nascosta”, che possiedano le banche, controllino i media, agiscano come “uno Stato nello Stato” e siano responsabile della diffusione delle malattie (come il Covid-19). Tutte queste caratteristiche possono essere strumentalizzate da cause politiche diverse (e persino antagonistiche)». Quindi, «l’antisemitismo può manifestarsi in parole, immagini visive e azioni» così come «può essere diretto o indiretto, esplicito o codificato. Ad esempio, “I Rothschild controllano il mondo” è una dichiarazione in codice sul presunto potere degli “ebrei” sulle banche e sulla finanza internazionale. Allo stesso modo, ritrarre Israele come il male supremo o esagerare grossolanamente la sua effettiva influenza può essere un modo codificato per razzializzare e stigmatizzare gli ebrei». L’identica cosa può essere detta del «negare o minimizzare l’Olocausto affermando che il genocidio deliberato nazista degli ebrei non ha avuto luogo, o che non c’erano campi di sterminio o camere a gas, o che il numero delle vittime era una frazione del totale effettivo», trattandosi di atteggiamenti comunque chiaramente antisemiti. Ma, si basi bene, «in molti casi, l’identificazione del discorso codificato è una questione di contesto e giudizio […]». Ovvero, richiede sempre una ricognizione sul merito e sui modi in cui si manifestano idee, discorsi, atteggiamenti, pratiche che, poste determinate premesse, sono di chiaro stampo antigiudaico. Altrimenti, il rischio è di incapsulare il dibattito, ancorché sgradevole ma legittimo, dentro una camicia di forza.

Da ciò possono derivare esempi di condotte «che, a prima vista, sono antisemite»come l’«applicare i simboli, le immagini e gli stereotipi negativi dell’antisemitismo classico allo Stato di Israele; ritenere gli ebrei collettivamente responsabili della condotta di Israele o trattare gli ebrei, semplicemente perché sono ebrei, come agenti di Israele; richiedere alle persone, poiché sono ebree, di condannare pubblicamente Israele o il sionismo […]» così come il supporre « che gli ebrei non israeliani, semplicemente perché sono ebrei, siano necessariamente più fedeli a Israele che ai loro paesi […]». A rovescio di ciò, nel documento si fanno anche «esempi che, a prima vista, non sono antisemiti», a prescindere dal fatto che si approvi o si biasimi le azioni in esse contenute. Rientrano in un tale novero il «sostenere la richiesta palestinese di giustizia e la piena concessione dei loro diritti politici, nazionali, civili e umani, come incapsulato nel diritto internazionale; criticare o opporsi al sionismo come forma di nazionalismo, o sostenere una varietà di accordi costituzionali per ebrei e palestinesi nell’area tra il fiume Giordano e il Mediterraneo […]; [la] critica basata sull’evidenza di Israele come Stato. Ciò include le sue istituzioni e i principi fondanti. Include anche le sue politiche e pratiche, nazionali e internazionali, come la condotta di Israele in Cisgiordania e Gaza, il ruolo che Israele gioca nella regione o qualsiasi altro modo in cui, come stato, influenza gli eventi nel mondo. Non è antisemita sottolineare la discriminazione razziale sistematica. In generale, le stesse norme di dibattito che si applicano ad altri Stati e ad altri conflitti sull’autodeterminazione nazionale si applicano nel caso di Israele e Palestina. Quindi, anche se controverso, non è antisemita, di per sé, confrontare Israele con altri casi storici, incluso il colonialismo dei coloni o l’apartheid». Il significato di questi passaggi richiede un supplemento di interpretazioni: si possono opinare le azioni politiche d’Israele, non solo attraverso le scelte dei suoi governi ma per l’insieme delle funzioni che vengono assunte dalle sue istituzioni rispetto alle dinamiche di quadro, ossia a livello mediorientale. Fare ciò, dicono i firmatari dell’JDA, in linea di principio non comporta necessariamente un’intenzione antisemitica. Da un tale preambolo di merito viene infine fatto derivare che «il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni sono forme comuni di protesta politica non violenta contro gli Stati. Nel caso israeliano non sono, di per sé, antisemiti». In altre parole ancora, nel suo insieme «il discorso politico non deve essere misurato, proporzionato, moderato o ragionevole per essere protetto […]. Le critiche che alcuni potrebbero considerare eccessive o controverse, o che riflettono un “doppio standard”, non sono, di per sé, antisemite. In generale, la linea tra discorso antisemita e non antisemita è diversa dalla linea tra discorso irragionevole e ragionevole». Per i firmatari del documento si tratta di «rafforzare la lotta contro l’antisemitismo chiarendo cos’è e come si manifesta».

Al di là degli auspici, così come dei distinti contenuti, sono forse due gli elementi più importanti che separano il testo dell’IHRA da quello dell’JDA. Il primo di essi è l’impatto istituzionale; nel caso dell’IHRA è rilevante, trattandosi del prodotto di un lungo percorso di lavoro intergovernativo contro l’antisemitismo; nel secondo, invece, si è in presenza di una dichiarazione di studiosi che intervengono nel dibattito alimentatosi nel corso di questi ultimi due decenni. Allo stesso tempo, ed è l’elemento successivo, l’IHRA genera documenti e pratiche operative che implicano la mediazione tra figure politiche, istituzionali e civili, mentre l’JDA esprime delle posizioni sui punti più critici dell’analisi dell’antisemitismo, tuttavia in base ad un approccio prevalentemente culturale ed intellettuale. Anche per questo, se ne può stare certi, la parte più rilevante della Dichiarazione di Gerusalemme, quella che ancora una volta slega il pregiudizio antiebraico dall’arcipelago antisionista, sarà fonte di molte discussioni se non di rinnovate polemiche, soprattutto in campo ebraico.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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