Dopo anni di discussioni le istituzioni Ue si dotano di una definizione univoca di antisemitismo. Servirà a combattere più efficacemente il fenomeno?
Se vuoi sconfiggere il tuo nemico – recita il vecchio adagio – devi prima conoscerlo. Vale in guerra; vale nello sport; e vale anche nel conflitto tra forze ostili che si misurano nell’Europa d’inizio 2018. C’è questa semplice, banale constatazione dietro l’ultima decisione delle istituzioni Ue sul fronte della lotta all’antisemitismo: l’adozione – per lo meno in termini formali – di una definizione univoca del fenomeno stesso.
A chi vive quotidianamente sulla propria pelle il disagio della diffidenza più o meno esplicita di concittadini per la propria appartenenza ebraica la notizia potrà certo apparire priva di significato, una presa d’atto ai limiti dell’ovvietà per il continente che ha prodotto il più terribile genocidio della Storia. Eppure i gruppi non governativi e le istituzioni ebraiche hanno salutato come un grande successo il sostegno alla definizione messo nero su bianco dal Parlamento Europeo lo scorso giugno, e poche settimane fa dalla Commissione.
Quanto mai sintetica, la working definition stilata nel maggio 2016 dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), una rete transnazionale cui aderiscono trentuno Paesi, identifica l’antisemitismo come «una certa percezione degli ebrei, che può esprimersi sotto forma di odio contro di essi». «Le manifestazioni fisiche o verbali di antisemitismo – recita ancora la definizione – sono dirette contro individui ebrei o non e/o contro i loro beni, contro istituzioni comunitarie ed edifici religiosi ebraici».
C’è chi si preoccupa che governi e parlamenti non si “lavino la coscienza” con il semplice atto formale per poi rifiutarsi di dare seguito con programmi ed azioni più strutturali.
Davvero queste poche righe possono fare la differenza nella lotta all’antisemitismo? La domanda sorge tanto naturale quanto legittima. «Per combattere efficacemente un fenomeno è indispensabile prima di tutto mettersi d’accordo su cosa questo sia esattamente», spiega Michael Whine, responsabile relazioni istituzionali al Community Security Trust, una delle più importanti organizzazioni ebraiche inglesi, che al processo di definizione della dichiarazione ha lavorato per anni. «E a chiedere di farlo, sono state in primis le stesse istituzioni europee, non le associazioni ebraiche». Membro della Commissione europea per il razzismo e l’intolleranza, Whine ha appena finito di scrivere un articolo per l’Israel Journal of Foreign Affairs in cui ripercorre la lunga lista di azioni e strumenti messi in campo negli ultimi anni dall’Unione per combattere l’antisemitismo.
Tra i fautori della “identificazione del fenomeno”, in effetti, nessuno pensa che la semplice adozione della definizione possa bastare ad imprimere la svolta nella lotta all’antisemitismo. Anzi, c’è chi si preoccupa perfino che governi e parlamenti non si “lavino la coscienza” con il semplice atto formale per poi rifiutarsi di dare seguito con programmi ed azioni più strutturali. Ma gli attivisti delle organizzazioni ebraiche europee sembrano concordare su un punto essenziale: mettere in chiaro i termini della questione dà a magistrati, forze di polizia e in fondo agli stessi cittadini un punto di riferimento fondamentale per denunciare e perseguire gli atti anti-ebraici. «Quando la matrice antisemita di un atto ostile non viene riconosciuta in sede pubblica, la vittima subisce un secondo trauma, e con lei la sua famiglia e la sua comunità», nota Melissa Sonnino, coordinatrice del progetto europeo Facing facts!. «Il risultato è che quella persona la volta successiva rinuncerà a denunciare l’aggressione, fisica o verbale che sia, così che le autorità stesse finiranno per non avere i dati e le informazioni utili a monitorare la pervasività del fenomeno».
Sebbene le critiche a Israele simili a quelle mosse verso qualsiasi altro Paese non possano essere ritenute antisemite, si precisa infatti nel prosieguo del documento, il prendere di mira lo Stato d’Israele in quanto collettività ebraica rientra a pieno titolo nella gamma di atti antisemiti.
Proprio la schedatura e monitoraggio degli atti antiebraici sembra uno degli scopi principali della definizione, recepita a oggi da nove Paesi, tra cui Regno Unito, Austria, Romania e Germania, oltre a Israele. Per sua stessa ammissione, la dichiarazione è infatti stilata come una “definizione operativa non vincolante sul piano giuridico”. Non un atto dotato di valore legale, dunque, ma uno strumento pratico, un punto di riferimento per supportare l’azione di forze di polizia e magistratura in particolare nell’identificare e punire le aggressioni anti-ebraiche. «L’antisemitismo assume forme diverse non soltanto col passare del tempo, ma anche da un Paese all’altro», osserva ancora Sonnino. «Ecco perché è importante che la definizione si configuri come uno strumento flessibile, funzionale al contesto di riferimento».
A emergere come vere novità in quest’ottica, più del testo scarno della definizione, sono gli “esempi” di manifestazioni tipiche di antisemitismo che l’accompagnano. Sebbene le critiche a Israele simili a quelle mosse verso qualsiasi altro Paese non possano essere ritenute antisemite, si precisa infatti nel prosieguo del documento, il prendere di mira lo Stato d’Israele in quanto collettività ebraica rientra a pieno titolo nella gamma di atti antisemiti. Così come lo sono, ad esempio, accusare cittadini ebrei di essere più leali a Israele che al loro Paese di provenienza, o di essere collettivamente responsabili per le azioni dello di Israele; o ancora negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione o accostare le politiche israeliane a quelle dei nazisti. Affermazioni di principio, queste sì, tutt’altro che scontate e dal forte sapore politico. E che rendono la votazione a sostegno del documento da parte del Parlamento Europeo, e più recentemente la sua pubblicazione sul portale web della Commissione, atti più “pesanti” di quanto una prima lettura non suggerisca.
Se per scoraggiare e debellare il veleno antisemita dalle società europee servono sforzi ben più ampi e strutturali, insomma, la definizione internazionale di antisemitismo può segnare un punto fermo di riferimento quanto mai significativo. Presto forse anche alle nostre latitudini. Alla guida dell’IHRA da marzo del 2018, l’Italia potrebbe essere secondo molti osservatori il prossimo Paese ad adottare ufficialmente la definizione. Sempre che a Roma si insedi, prima o poi, un nuovo governo.
Politologo di formazione, giornalista di professione, si occupa in particolare di politica italiana ed europea. Già impegnato nel lancio del festival Biennale Democrazia a Torino e del think-tank ThinkYoung a Bruxelles, lavora per Reset e Good Morning Italia e collabora con altre testate nazionali.