L’ Agenzia per i Diritti Fondamentali dell’Unione Europea lancia un’indagine sullo stato dell’antisemitismo. Ioannis Dimitrakopoulos, direttore del dipartimento Uguaglianza e Diritti dei cittadini, tra i dirigenti che sovraintenderanno al progetto, ne parla con noi.
Atti vandalici e discriminazioni sotto traccia; insulti a viva voce o – più spesso – a mezzo social; gesti intimidatori e stereotipi duri a morire. Periodicamente, in Italia e non solo, tornano a emergere nelle cronache manifestazioni più o meno violente di un germe duro a morire nel Vecchio Continente: l’antisemitismo. Ma quanto è davvero diffuso e pericoloso l’odio antiebraico oggi in Europa?
Più delle percezioni, come in ogni ambito, a parlare sono i numeri. Quelli che emergeranno dalla seconda indagine continentale sul fenomeno in preparazione in queste settimane da parte dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione Europea. Un lavoro lungo e meticoloso che promette di mappare il fenomeno su un arco geografico di tredici Paesi membri, dalla Spagna alla Lettonia. Ioannis Dimitrakopoulos, direttore del dipartimento Uguaglianza e Diritti dei cittadini dell’Agenzia con sede a Vienna, è tra i dirigenti che sovraintenderanno al progetto.
Dott. Dimitrakopoulos, perché realizzare oggi un’indagine pan-europea sull’antisemitismo? Quali gli obiettivi prioritari per l’Agenzia e per l’Ue più in generale?
Quella in preparazione è la seconda edizione di questo progetto, la prima – i cui risultati sono pubblicamente consultabili – essendo stata realizzata sul finire del 2012. Cinque anni sono un periodo di tempo ragionevole per dedicarci ora a verificare quali siano stati i cambiamenti derivanti dalle politiche nel frattempo adottate. Non dimentichiamo infatti che a seguito della prima indagine il Consiglio Ue ha adottato delle conclusioni di policy chiedendo agli Stati membri di attuare specifiche misure, ad esempio nel settore dell’educazione o delle politiche culturali. Ora è il momento di verificare se e in che modo le cose siano cambiate. Inoltre questo secondo sondaggio ci permetterà di valutare la situazione in un gruppo di altri Paesi che non erano inclusi nella ricerca del 2012: Austria, Danimarca, Paesi Bassi, Spagna e Polonia.
Ciò che dobbiamo fare è lavorare perché le persone si sentano al sicuro, protette sul piano sociale ed economico – altrimenti si innesta quel processo di ricerca del capro espiatorio che sempre colpisce la parte più vulnerabile della popolazione, ossia le minoranze: siano queste gli ebrei, gli omosessuali, i musulmani o altro. Questo è ciò che la storia ci ha insegnato.
In che modo vi proponete di verificare fino a che punto l’antisemitismo sia oggi una minaccia in Europa? Quali domande, a livello pratico, rivolgerete ai rispondenti al sondaggio e quanti di questi prevedete di raggiungere?
Le domande, soprattutto per un’evidente ragione di continuità nell’analisi dei dati, resteranno per la gran parte le stesse di quelle contenute nel questionario del 2012, consultabile pubblicamente sul nostro sito. Sulla base dell’esperienza raccolta nella precedente tornata prevediamo tuttavia di aggiungere alcune ulteriori domande. Per quanto concerne il raggiungimento dei rispondenti, stiamo lavorando in queste settimane a rinsaldare i contatti con un’ampia gamma di organizzazioni ebraiche o collegate al mondo ebraico proprio per diffondere il più possibile la consapevolezza di quest’indagine nei Paesi interessati. Se nella maggior parte delle inchieste di questo tipo ci si dedica a vagliare i punti di vista e le opinioni della popolazione generale, infatti, noi facciamo un lavoro diverso: cerchiamo di raccogliere i pareri dei soggetti stessi interessati. E di questi right-holders, come li definiamo, miriamo a catalogare non soltanto le opinioni, ma anche le esperienze: è questo in ultima analisi il valore aggiunto del nostro lavoro.
Quali le tempistiche di realizzazione dell’indagine?
Il sondaggio aprirà nei prossimi mesi, verosimilmente tra aprile e maggio, non appena completato il processo di coordinamento con le organizzazioni locali. Prevediamo di pubblicare i risultati entro la fine del 2018. A questo seguiranno rilievi più approfonditi da parte dell’Agenzia stessa, oltre che da parte del mondo accademico se lo riterrà, e soprattutto da parte delle istituzioni europee che dovranno far uso, nel modo che riterranno opportuno, dei dati raccolti. È uno sforzo da cui ci auguriamo nascano azioni concrete di lungo periodo anche se – tengo a sottolinearlo – gli stessi governi nazionali potrebbero e dovrebbero condurre con regolarità attività di monitoraggio di questo tipo in maniera più agevole oltre che a un costo minore.
Qual è il Paese dell’area Ue che oggi vi preoccupa di più?
Da una prospettiva europea, la visuale d’insieme somiglia a un mosaico di tradizioni e modalità d’espressione anche molto diverse di antisemitismo: pensiamo solo a casi diversi come quelli della Francia, del Belgio, dell’Ungheria o della Lettonia. Paesi con un’alta percentuale di migranti di fede musulmana possono essere influenzati dalla trasposizione di eventi e dinamiche mediorientali; in altri con tassi d’immigrazione di questo tipo pressoché inesistente possono esservi movimenti di estrema destra che esprimono forme diverse di antisemitismo. In che modo esattamente ciò influenza la vita quotidiana degli ebrei è ciò che vedremo dai risultati. Di certo sarà interessante conoscere più a fondo la realtà di Paesi che non erano stati interessati dal primo survey, come ad esempio l’Austria.
Tra le più grandi preoccupazioni per l’Unione europea in queste settimane c’è senza dubbio la situazione della Polonia, anche per la tolleranza da parte dell’attuale governo di movimenti nazionalisti d’estrema destra che riportano la mente agli anni più bui del continente. Crede che gli altri Paesi Ue debbano seguire la via tracciata dalla Commissione con l’applicazione dell’articolo 7 del Trattato e adottare sanzioni contro Varsavia?
Non sta a me dare valutazioni di natura politica. Detto ciò, non posso non sottolineare che la Commissione è il guardiano dei Trattati: la sua missione fondamentale è quella di assicurare il rispetto dello stato di diritto. Se verifica che questo non è rispettato, la Commissione ha il dovere di agire, per specifica prescrizione dei Trattati stessi.
Nell’ambito delle trattative per la formazione di un nuovo governo in Germania, alcuni esponenti della Csu (partito cristiano-democratico bavarese alleato della Cdu di Angela Merkel) hanno proposto l’espulsione dal Paese degli immigrati che si “macchino” di antisemitismo. Crede sarebbe una misura utile?
Non conosco l’esatta formulazione di questa proposta. Ciò che è certo tuttavia è che già oggi i cittadini di Paesi terzi che commettano dei reati devono far fronte a delle conseguenze di tipo penale, così come gli stessi cittadini europei d’altra parte. Ovunque è in vigore ormai una qualche forma di legislazione contro i discorsi d’odio, come la negazione dell’Olocausto, a ricezione della decisione quadro del Consiglio del 2008.
Sulla base del vostro monitoraggio di entrambe le forze, crede che antisemitismo e islamofobia fermentino in uno stesso terreno fertile in Europa, o sono due fenomeni con matrice distinta?
Nessuno dei due è qualcosa di nuovo: entrambi i fenomeni trovano radici profonde nella storia del continente. Negli ultimi dieci anni non abbiamo dati affidabili su cui basare una risposta certa alla domanda. Di certo però ciò che osserviamo è un cambiamento di percezione da parte di vaste fette di popolazione europea rispetto al mondo circostante: moltissime persone si sentono oggi insicure, minacciate dal futuro. Ciò che dobbiamo fare è lavorare perché le persone si sentano al sicuro, protette sul piano sociale ed economico – altrimenti si innesta quel processo di ricerca del capro espiatorio che sempre colpisce la parte più vulnerabile della popolazione, ossia le minoranze: siano queste gli ebrei, gli omosessuali, i musulmani o altro. Questo è ciò che la storia ci ha insegnato.
Politologo di formazione, giornalista di professione, si occupa in particolare di politica italiana ed europea. Già impegnato nel lancio del festival Biennale Democrazia a Torino e del think-tank ThinkYoung a Bruxelles, lavora per Reset e Good Morning Italia e collabora con altre testate nazionali.