È una presenza radicata nella storia quella degli ebrei in Ucraina, residenti nelle città più grandi del paese: Kiev, Odessa e Kharkiv
Se l’attuale presenza ebraica in Ucraina è difficile da stimare, dall’inizio delle ostilità con la Russia circa 3mila persone sono già giunte in Israele. Si tratta di una piccola avanguardia che potrebbe precedere un trasferimento in massa. Peraltro, è molto difficile sapere con certezza quanti ebrei risiedano ancora nel Paese. Per il demografo Sergio Della Pergola, la voce più autorevole in materia, il numero dovrebbe essere di 49mila soggetti. Non è invece dello stesso avviso l’European Jewish Congress, che arriva quasi a decuplicare la cifra, calcolando un insediamento che oscillerebbe tra i 360mila e 400mila elementi. Ma si tratta, in questo caso, di numeri poco plausibili. Peraltro, i calcoli sono resi complicati sia dal fatto che l’ultimo censimento ucraino è stato fatto nel 2001 (quello successivo avrebbe dovuto avere luogo nel 2020, ma è stato posticipato al 2023) sia dai criteri con i quali si definisce l’appartenenza o meno all’ebraicità degli individui presi in considerazione.
Sta di fatto che la maggior parte degli ebrei ucraini vive nelle città più grandi del paese, tra le quali Kiev, Odessa e Kharkiv. Quindi, dal momento che queste ultime costituiscono il target principale dell’invasione russa, sono tra i cittadini che subiscono a cascata i peggiori effetti degli sviluppi bellici. Tuttavia, esistono anche altre comunità ebraiche, più piccole, disseminate in tutta l’Ucraina, fino ai centri rurali minori. Kiev, con quasi 3 milioni di abitanti, ospiterebbe circa 110mila ebrei, secondo la Jewish Telegraphic Agency, insieme ad una mezza dozzina di sinagoghe attive. Dnipro, nell’Ucraina orientale, arriverebbe addirittura a circa 60mila ebrei, secondo The Atlantic. La città ha una decina di sinagoghe, ristoranti kosher, diverse attività commerciali di proprietà ebraica. Un grande centro comunitario, chiamato «Menorah», è stato aperto nel 2012. Kharkiv, la città industriale più vicina al confine russo, raccoglierebbe circa 45mila ebrei e almeno cinque sinagoghe. Del milione di persone che vivono a Odessa, la strategica città portuale del sud, circa 45mila sarebbero ebree. Si contano almeno quattro sinagoghe attive, un museo ebraico, due centri della comunità ebraica, una dozzina tra scuole e asili ebraici e quattro orfanotrofi. Usare il condizionale è tuttavia d’obbligo poiché se è accertato il radicamento storico dell’ebraismo in Ucraina, la difformità nel calcolarne la presenza costituisce un ostacolo enorme nel capire quali potrebbero essere i suoi successivi sviluppi, di fronte all’evoluzione della tragica situazione bellica in corso.
Valga comunque per tutti il rimando a Uman, una città ucraina pur di dimensioni contenute, con una popolazione totale di poco più di 80mila abitanti. È degna di nota perché ospita la tomba del rabbino chassidico Nachman di Breslov. Ogni anno, intorno a Rosh Hashanah, decine di migliaia di fedeli compiono un pellegrinaggio, in quanto tributo al sepolcro (e alla memoria) del venerato religioso e maestro delle Scritture, nonché fondatore di una dinastia rabbinica. Alcune centinaia di ebrei, per lo più di cittadinanza israeliana, peraltro risiedevano stabilmente nell’area urbana fino a tempi recentissimi. Prima del precipitare dei rapporti con la Russia, il presidente ucraino Zelensky aveva dichiarato, in un’intervista del 2020, che il suo governo confidava di costruire una «Piccola Gerusalemme» proprio in quel di Uman, includendovi un museo storico, un grande parco e il rifacimento della sinagoga. Ciò che si sa, ad oggi, è che invece la locale comunità è stata evacuata a seguito dei bombardamenti russi. Un’altra manifestazione significativa del giudaismo orientale sono le radici ucraine del movimento Chabad-Lubavitch, a partire dalla carismatica figura di Menachem Mendel Schneerson, «il Rebbe», che nacque a Mykolaiv, sul Mar Nero, il 5 aprile 1902. Più in generale, la cultura yiddish ha trovato su quelle terre potenti e ripetute forme di espressione.
L’ebraismo ucraino (se ha un qualche senso sovrapporre l’appartenenza nazionale all’identità culturale, famigliare, comunitaria e religiosa di un qualsiasi monoteismo) ha subito le stesse torsioni alle quali furono sottoposte, negli anni di esistenza dell’Unione Sovietica, tutte le confessioni presenti sul suo territorio. L’ebraicità, di fronte ad un tale quadro repressivo, era quindi vissuta non necessariamente come atto consapevole ed attivo ma del pari ad un’appartenenza implicita, in qualche modo assegnata dalle circostanze e dal destino agli individui. Si trattava quindi di una «realtà vaga ma inevitabile» (così la studiosa Izabella Tabarovsky), qualcosa che si inscriveva nel libro della vita di coloro che ne venivano chiamati in causa, traducendosi in un sentimento di appartenenza che, tuttavia, non obbligava a gesti e atti specifici, soprattutto se pubblici. «Essere ebrei per loro era più una mentalità e un’interpretazione condivisa della realtà che un insieme di espressioni ebraiche specifiche», ha rilevato lo storico Yaakov Ro’i.
Il rovescio della medaglia di questa secolare situazione è dato dal fatto che l’Ucraina rimane anche la terra attraversata e marchiata da un efferato antisemitismo. Dalla fine del XIX secolo, con le violenze fomentate dalle autorità zariste e dalla Chiesa ortodossa, gli atti di ostilità contro gli ebrei, dalle interdizioni legali fino agli omicidi di gruppo, si sono succeduti per un lungo tempo. Sono proseguiti, dopo la caduta dell’Impero, fino al 1921, ovvero allorquando ebbe termine la feroce guerra civile innescatasi con la rivoluzione del 1917. Le truppe delle armate «bianche», attrezzatesi contro il potere bolscevico, avevano conteso all’Armata rossa il controllo di quei territori, commettendo saccheggi, violenze e massacri all’insegna dell’accostamento e dell’immediata sovrapposizione del comunismo all’ebraismo. Questa lunga scia di sangue, accentuata dalla presenza di un movimento nazionalista ucraino dai tratti marcatamente antisemitici, peraltro non si concluse con la “normalizzazione” delle terre a qual punto garantite al potere sovietico. Le stesse vicende che si succedettero nei primi anni Trenta, con la grande carestia che colpì il Paese, generando il collasso di intere comunità locali e la morte per inedia di un grande numero di piccoli proprietari fondiari (l’Holodomor), esacerbò la contrapposizione tra una parte degli ucraini, il potere moscovita (quindi i russi) e, in immediato riflesso – ancorché secondo un criterio del tutto arbitrario – gli ebrei. L’equazione tra “rivoluzione”, espropriazione dei propri beni e complotto giudaico veniva in tale modo rinnovata dinanzi alle politiche dello stalinismo,volte a depauperare l’Ucraina, sia per distruggere alle radici il nazionalismo locale sia per acquisire risorse con le quali finanziare i processi di repentina industrializzazione di tutta l’Unione Sovietica.
In un tale quadro storico si inserisce quindi la vicenda della distruzione dell’ebraismo ucraino negli anni dell’implacabile ed efferata occupazione tedesca. Verificatosi tra la fine di giugno del 1944 e la primavera del 1944, comportò, in tutta probabilità, la morte di 1.600mila ebrei ucraini. Le stime, anche in questo caso, non sono certe per più ragioni, posto che non poche persone, se non intere comunità, furono inghiottite nel crepaccio della Shoah senza lasciare tracce significative di sé. Un elemento di incertezza sui numeri è ad esempio correlato al riconoscimento di ebraicità attribuito alla popolazione preesistente. Il numero dei morti è quindi connesso ai criteri con i quali si definivano le appartenenze di gruppo. In plausibilità, rispetto alle anagrafi dell’epoca, non tutti gli ebrei viventi in quelle terre erano stati riconosciuti come tali dal potere sovietico.
Non altrettanto sarebbe invece poi successo per quello nazista, attraverso la meticolosa caccia di chiunque potesse essere sospettato di una qualche ombra di “giudaicità”. La stessa storiografia ha faticato molto nell’esercizio di una tale, macabra ma necessaria, contabilità. La svolta, se di ciò si può parlare, è stata offerta dall’apertura parziale degli archivi sovietici negli anni Novanta: le ricerche condottevi in loco hanno fatto lievitare le stime sul numero degli uccisi. Nel bilancio finale sono peraltro considerati anche quegli ebrei che risiedevano nei territori di confine, passati sotto diverse giurisdizioni, così come gli assassinati dai gruppi nazionalisti polacchi ed ucraini.
Nel 1939, due anni prima dell’arrivo delle truppe naziste, la presenza ebraica del Paese – secondo i confini allora vigenti – si ritiene fosse costituita da poco più di un milione e mezzo di individui, corrispondenti al 3% dell’intera popolazione. Dal 22 giugno 1941, giorno dell’inizio dell’invasione tedesca, una minor parte di essa fu evacuata dai sovietici ad Est. Si trattava perlopiù di elementi reputati indispensabili per lo sforzo bellico dell’Urss oppure di appartenenti all’amministrazione comunista. La veloce occupazione nazista, tuttavia, fece sì che i programmi di eliminazione dell’ebraismo autoctono procedessero con altrettanta speditezza. Già nella tarda estate del 1941 almeno 600mila ebrei ucraini erano stati assassinati. La fragilità dell’ebraismo autoctono era peraltro dettata anche dal fatto che il suo insediamento fosse di antico lignaggio. L’Ucraina, infatti, componeva il nucleo territoriale più importante di quella «Zona di residenza coatta» che, dalla fine del XVIII secolo, costituiva la residenza obbligata per quasi cinque milioni di ebrei aschenaziti. La sua decadenza legale e giuridica, dopo la rivoluzione di ottobre del 1917, non aveva comportato una rilevante redistribuzione della popolazione in altri territori della futura Unione Sovietica.
In altre parole, la concentrazione era rimasta perlopiù invariata in molti distretti provinciali. Quelle stesse aree che, con il consolidamento della presenza germanica dall’estate del 1941, entrarono a fare parte del Commissariato del Reich Ucraina, del Governatorato generale (parte della Polonia sotto il tallone hitleriano), di quello della Crimea e della Transnistria così come di aree regionali della Rutenia sub-carpatica (all’epoca compresa nell’Ungheria) e della Bucovina settentrionale (acquisita dalla Romania). Tutte queste terre, se oggi sono parte dell’Ucraina, erano allora sottoposte alle diverse sovranità degli occupanti. Si raggiunge quindi la cifra plausibile di più di un milione e mezzo di assassinati se si considera lo spezzettamento territoriale dell’epoca. In altre parole, l’Ucraina di oggi, per come è raffigurata sulle mappe e sui planisferi, non è la medesima di allora: confini e linee di divisione si sono nel mentre spostati. La stessa presenza tedesca su quei territori, all’epoca, non si risolveva in un’unica autorità ma piuttosto in un insieme di soggetti, spesso in competizione tra di loro, che tuttavia dovevano garantire il raggiungimento di determinati obiettivi unitari (l’eradicazione sistematica dell’ebraismo, la spoliazione dei beni, la distruzione delle forme residue di opposizione e di resistenza, la sottomissione della parte restante della popolazione), ancorché in rapporti di reciproca competizione, nel mentre le armate naziste contendevano le linee mobili dei fronti ai sovietici.
Il tributo di sangue ucraino alla guerra nazista è stimato in oltre quattro milioni di morti, comprendendovi anche gli ebrei. Questi ultimi furono uccisi perlopiù in loco, non necessitando delle deportazioni in appositi luoghi di sterminio, che invece interessarono i correligionari dell’Europa centro-occidentale. Si tratta della «Shoah dei proiettili», compiuta attraverso l’azione sistematica di unità di fucilatori, le Einsatzgruppen, adibite alla “bonifica” dei territori conquistati dall’esercito tedesco e quindi assicurati al predominio nazista. Insieme a nuclei di collaborazionisti locali, offertisi per l’opera di assassinio, a singoli reparti della polizia militare e della stessa Wehrmacht, di fatto le unità mobili compirono la grande parte del genocidio in quelle terre. Peraltro, le disposizioni operative erano già state messe nere su bianco prima ancora dell’inizio dell’invasione dell’Unione Sovietica, con una serie di «ordini criminali» impartiti allo stesso esercito. Alle unità speciali era affidato il compito di garantire l’«ordine» nelle retrovie eliminando tutti gli elementi ritenuti indesiderati o potenzialmente pericolosi: gli ebrei per primi, le comunità nomadi, i membri del partito comunista, i commissari politici dell’esercito sovietico, gli oppositori, le autorità civili che non avessero collaborato agli ordini dei nuovi signori, quanti avessero manifestato anche solo un minimo segno di dissenso, i nuclei di soldati sovietici rimasti intrappolati dall’avanzata nemica. Non si trattava esclusivamente di “ripulire” le terre della presenza di elementi ostili ma di iniziare un’opera di trasformazione sociale e demografica dei territori dell’Est livellando la popolazione e avviando un processo di decimazione. Di tutta questa lunga teoria di massacri, compiuti attraverso le fucilazione di massa, il più tristemente noto, tornato agli onori della cronaca a causa del recente bombardamento russo, è quello consumatosi nella fossa di Babij Yar (in lingua ucraina anche Babyn Yar), a Kiev, quando tra il 29 e il 30 settembre 1941 furono annientati 33.771 ebrei. Ad essi sarebbero poi seguite non poche altre vittime tra la popolazione non ebraica.
A tale riguardo operavano tre unità operative, composte da un minimo di un migliaio di uomini ad un massimo di tremila, suddivise su base operativa regionale: l’Einsatzgruppen C era attiva nell’Ucraina settentrionale e centrale, la D in quella meridionale, nella Crimea, nel Caucaso e nella Moldavia. Ognuno dei due grandi gruppi si suddivideva in reparti operativi minori, gli Einsatzkommandos e i Sonderkommandos, che dovevano rastrellare minuziosamente le aree assegnategli. A questa architettura omicida si aggiungevano la presenza di collaborazionisti locali, a partire dalle unità ausiliarie ucraine e da due reggimenti di volontari russo-ucraini, aggregati ai reparti della morte. Già i nazionalisti anticomunisti e antisemiti dell’Upa, l’Esercito insurrezionale ucraino, avevano offerto i loro servigi all’occupante. Ad essi si aggiunsero poi altri elementi, variamente inquadrati, sia in unità di polizia territoriale che in veri e propri gruppi di combattimento. Tra di essi le Confraternite dei nazionalisti ucraini, l’Esercito nazionale ucraino, le Unità militari nazionaliste, l’Esercito di liberazione ucraino, gli elementi della quattordicesima divisione Waffen SS. Il frazionamento dei gruppi era funzionale, dal punto di vista germanico, per evitare che si federassero e si coalizzassero tra di loro, nel tentativo poi di avanzare richieste di autonomizzazione dei territori sotto dominio nazista, come anche per garantirsi un alleggerimento dei compiti di occupazione, altrimenti demandati interamente alle truppe tedesche. Di fatto, si ritiene che almeno 250mila ucraini abbiano concorso, finché fu loro possibile, al regime criminale che era stato imposto con il ferro e con il fuoco dalla Germania nazista.
E tuttavia, al netto delle indiscutibili responsabilità di chi si mise al servizio dei peggiori occupanti, partecipando direttamente o indirettamente al genocidio, rimane un fatto importante, ossia che costoro costituirono solo una piccola parte della popolazione nazionale di allora, composta da una quarantina di milioni di individui. Proporzionalmente, il collaborazionismo ucraino rappresenta la presenza minore nel circuito dei paesi dell’Europa dell’Est che cooperarono in qualche modo con i nazisti. Lo testimonia anche l’elevato numero di «Giusti tra le Nazioni» che in quelle terre si adoperano invece per salvare le vite minacciate dal rullo compressore dell’occupante. Il fatto sorprendente e sconcertante, quindi, non sta nel numero dei collaborazionisti bensì nella capacità di mietere così tante vittime per parte tedesca.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.