Cultura
Elezioni in Israele, una prima analisi

Gli scenari possibili dopo questa tornata elettorale

Che ne sarà di Benjamin Netanyahu? Poiché è questa la vera domanda intorno alla quale ruoterà la politica israeliana di qui alle prossime settimane. Difficile pensare che in cinque mesi, tanti ne sono trascorsi dalle passate elezioni di aprile, che hanno abortito la ventunesima legislatura, lasciando quindi Israele senza un vero governo politico, potessero mutare i sentimenti politici e, con essi, la disposizione di voto dell’elettorato.

Il confronto tra Likud e Blu e Bianco (Kahol Lavan), ossia tra destra e centro, continua ad essere il fuoco della divisione. I risultati lo confermano. A spoglio delle urne quasi ultimato dei 120 seggi in palio 31 vanno a Likud, 32  a Kahol Lavan; 13 alla Joint List, l’unione delle liste arabe, che diventa il terzo gruppo in Parlamento; 9 ad Yisrael Beiteinu; 9 ai religiosi dello Shas; 8 ad United Torah Judaism; 7 a Yamina; 6 all’unione elettorale tra Labor e Gesher; 5 alla Democratic Union. A conti fatti, una coalizione di destra non supererebbe i 55 seggi, quella di centro-sinistra non andrebbe oltre i 43. Troppo poco in entrambi i casi, poiché l’obiettivo agognato per ogni governo a venire sarà quello di garantirsi almeno 61 seggi, la soglia minima di maggioranza. Il regista delle manovre future per la formazione dell’esecutivo sarà, in tutta probabilità, Avigdor Lieberman, che non nasconde di volere celebrare un matrimonio di coalizione tra il suo partito, il Likud e Kahol Lavan.

La media dei sondaggi, quelli ancora resi pubblici prima della prova elettorale, indicavano un testa a testa tra Likud e Kahol Lavan (32 seggi a testa); 10,5 seggi per la Joint List (HaReshima HaMeshutefet, la coalizione di partiti arabi comprendenti Balad, Hadash, Ta’al e United Arab List); 9,5 a Yisrael Beiteinu; 9,5 a Yamina (HaYamin HeHadash, la «nuova destra» di Naftali Bennett e Ayelet Shaked); 7,5 a United Torah Judaism (Yahadut HaTora, partito religioso ultraortodosso degli hassidim); 7 allo Shas (partito ultraortodosso sefardita e mizrachi); 6 alla Democratic Union (o «campo democratico», HaMaḥaneh HaDemokrati, composto dal Meretz, da Democratic Israel di Ehud Barak, dal Green Movement e da fuoriusciti dal movimento laburista); 5,5 all’alleanza di centro-sinistra tra Labor di Avi Gabbay e Gesher di Orly Levy; 4 seggi, infine, a Otzma Yehudit («potere ebraico», la lista più a destra dell’arco politico, depositaria del “kahananismo”, la dottrina del rabbino Meir Kahane). La somma supera i 120 seggi poiché doveva tenere in considerazione i margini di oscillazione nella media tra le diverse rilevazioni.

Visioni ad urne chiuse

Ad urne chiuse ciò che i due maggiori partiti hanno rivelato di non riuscire ad intercettare sono una serie di questioni che accompagnano i pensieri, ed in immediato riflesso le scelte, degli elettori. La prima di esse – di cui non per caso si è fatto alfiere Avigdor Lieberman, con indubbia scaltrezza politica – è il rapporto tra religiosi e laici. Una faglia divisiva che accompagna lo Stato degli ebrei dalla sua genesi, ma che in ragione dei più recenti trend di crescita e trasformazione sociodemografica oggi assume un peso ancora più consistente. Rimanda peraltro ad un complesso di elementi, riconducibili alla questione dell’uso dello spazio pubblico: sistema di Welfare e suo accesso; oneri della fiscalità generale e loro ripartizione tra i diversi gruppi della popolazione; partecipazione e condivisione degli obblighi di cittadinanza (la questione del servizio di leva, al riguardo, è emblematica); secolarizzazione delle istituzione dello Stato e degli apparati della pubblica amministrazione; la stessa presenza fisica sul territorio israeliano, laddove dinamiche che rimandano ad insediamenti fortemente connotati sul piano dell’appartenenza (come certi quartieri urbani oppure alcune municipalità), creano frizioni con la parte maggioritaria della popolazione israeliana, quella secolarizzata. Siamo lontani dall’avere a che fare con un esclusivo tema strettamente ideologico, semmai richiamando un problema che attraversa tutti i paesi a sviluppo avanzato, ossia il processo di sostituzione, alle vecchie culture politiche di sinistra ma anche di destra, di un identitarismo sempre più marcato, che in Israele trova nella crescita del campo religioso, e nei conflitti che ciò comporta, un suo concreto approdo.

Netanyahu, che in questi ultimi anni ha giocato sempre più spesso la carta delle divisività, non solo perché marcato stretto dalle sue vicende giudiziarie ma anche perché consapevole del declino del vecchio Likud, ha di nuovo trasformato le elezioni in un referendum sulla sua figura, cercandola di identificare tout court con le ragioni del Paese. In realtà questa strategia, che cerca di rafforzare il concetto di un “uomo solo al comando”, garante della sicurezza, dei confini, della residua e crepuscolare contrattazione con la controparte palestinese, sconta una grande stanchezza. Se non altro perché il discorso nazionalista, così come era tradizionalmente formulato dalla destra revisionista, oggi deve più che mai confrontarsi anche e soprattutto con quello del mosaico interno alla società israeliana e ai suoi mutevoli punti di equilibrio. Su questo passaggio, dove si innesca come esplosivo il tema dei confini mobili tra laicità e religiosità, il premier uscente si è fatto sottrarre il cavallo di battaglia da Avigdor Lieberman, meno vincolato da pregressi rapporti di reciprocità con le formazioni politiche religiose. Bibi Netanyahu ha quindi ripiegato su un piano molto più scivoloso, quello dell’irrisolta sospettosità nei confronti della cospicua minoranza araba (nei confronti della quale, invece, il Meretz, la sinistra sionista, si è attivamente adoperata con una campagna elettorale molto vivace), contando anche sul fatto che in questi mesi il residuo riferimento ad eventuali accordi di pace con i palestinesi è pressoché scomparso dall’agenda politica.

L’apparentamento delle liste arabe nella Joint list è risultata premiante, sancendo la nascita di un gruppo di deputati, una dozzina, che sarà il terzo in ordine di dimensioni alla Knesset. La sinistra, per parte sua, è oramai secondaria. Non è una questione che si riveli solo nell’oggi ma i magri risultati, anche dinanzi agli apparentamenti elettorali dei laburisti e del Meretz, suggellano la sua persistente marginalità. Una parte dei suoi elettori ha peraltro già da tempo optato per il “voto utile” verso Blu e Bianco. Nella settimana precedente alla tornata elettorale il premier uscente aveva annunciato che in caso di vittoria al voto (ossia, di un premio di seggi al Likud tale da permettergli di contrattare la composizione alla Knesset di una maggioranza parlamentare in una posizione d’autorevolezza) avrebbe proceduto all’annessione dei territori della valle del Giordano (per intendersi, quelli dell’area C secondo gli accordi di pace di Oslo). In tutta franchezza, ancorché politicamente dirompente, una tale intenzione non è per nulla nuova nell’establishment israeliano, e non solo della destra. Già nel ’67 il piano Allon prevedeva qualcosa di similare, tuttavia in un contesto storico completamente diverso da quello attuale. Giocando su una sorta di implicito Washington Consensus, offertogli dall’attuale presidenza Trump (assai più vicina ad Israele che non agli ebrei come tali), Netanyahu sta cercando di rilanciare il suo ruolo politico sul piano delle possibili annessioni territoriali. Si tratterebbe, se la cosa dovesse proseguire, non più dell’estensione e della diffusione degli insediamenti ebraici ma della formalizzazione legale di una sovranità israeliana. Un fatto che taglierebbe con la spada il nodo di Gordio delle relazioni con la controparte palestinese, sancendo un nuovo capitolo nel confronto con Ramallah connotato dal declino definitivo dell’ipotesi di «due Stati per due nazioni». Ma anche consolidando il corposo spostamento a destra dell’asse politico israeliano, con un accentuato nazionalismo che nell’ultimo anno, con la legge sullo «Stato-nazione», l’avallo statunitense al riconoscimento della sovranità di Gerusalemme sul Golan e lo spostamento dell’ambasciata americacana, ha ricevuto più di un riconoscimento.

Un’alleanza di scopo

Ora, ad urne chiuse, la formazione del nuovo esecutivo sarà una bella gatta da pelare. Poiché ancora una volta Netanyahu, da mago delle coalizioni qual è, si giocherà il tutto per tutto. Difficilmente mollerà il campo anche se dovesse risultare sgradito ai potenziali partner, che potrebbero però coalizzarsi per fare a meno di lui. Da una parte, infatti, se fosse “retrocesso”a parlamentare, dinanzi alle inchieste giudiziarie che incombono su di lui non potrebbe contare sulle tutele e le prerogative altrimenti offertagli dal premierato. La cosa è di per sé abbondantemente risaputa, anche e soprattutto tra i suoi connazionali. Dall’altra, la sua estromissione ne segnerebbe, in tutta probabilità, la marginalizzazione politica definitiva, avendo poche speranze, una volta escluso dalla carica di Primo ministro, di potervi tornare in futuro. È vero che la politica israeliana era e rimane agitata, anche dopo questo passaggio elettorale, ma è non meno vero che se esso va inteso anche come un pronunciamento sulla sua figura politica, la tiepidezza di assensi verso il Likud sono un giudizio incontrovertibile sulla necessità di avere un nuovo leader nazionale. Anche per risparmiarsi un verdetto impietoso da parte delle urne Bibi aveva battuto i tasti della radicalizzazione identitaria, portando non solo il Likud ma una parte della stessa politica israeliana verso i lidi delle posizioni sovraniste, della identificazione etno-religiosa dei fondamenti di legittimazione delle istituzioni statali, dell’interlocuzione e di sostegno alle domande di spazio pubblico dell’ultraortodossia. Come contropartita, invece, aveva cercato di non abboccare all’amo avvelenato dell’islamismo radicale, cercando di contenere le sue spinte da Gaza e dal Libano meridionale, senza cadere in un nuovo conflitto armato a spirale. Il consolidamento dell’asse della diplomazia silenziosa con i sauditi e la lotta contro l’Iran nucleare (a partire dalla regione di Fars) si inscrive in questo quadro di gestione dei precari equilibri geopolitici. L’uscente governo israeliano ha quindi vissuto con celato disagio la diplomazia statunitense verso Teheran, volta ad ottenere un’attenuazione degli attriti. Il ricorso ad un conflitto di bassa intensità, infatti, misurato fino ad oggi sulle guerra delle dichiarazioni, delle affermazioni e delle smentite, ha giocato a favore di Netanyahu, trascinando i suoi avversari politici sul terreno a lui maggiormente congeniale, quello rassicurante di «Mister Sicurezza». Un ulteriore elemento da registare, soprattutto dopo il fallimento, a maggio, delle defatiganti trattative per arrivare ad un nuovo esecutivo, sono state le sue ripetute accuse contro il «Deep State» (lo Stato profondo, ovvero lo Stato nello Stato), l’insieme di poteri, di figure istituzionali, amministrative, pubbliche che, a suo dire, avrebbero remato contro la sua persona. Plausibile, quindi, che se l’incarico di guidare il governo dovesse ancora toccare a lui, con il quinto mandato, cercherebbe di mettere mano agli assetti istituzionali vigenti nel Paese. Ma il risultato elettorale sembra allontare una tale prospettiva. Cosa accadrà ora? L’ipotesi maggiormente accreditata è quella di una coalizione di unità nazionale che metta fuori gioco, al medesimo tempo, Benjamin Netanyahu e la destra religiosa. Si tratta dell’ipotesi caldeggiata da tempo, apertamente da Avigdor Lieberman che, in tale modo, vedrebbe notevolmente accresciuto il suo ruolo. Un’alleanza di scopo, in altre parole, che continui ad offrire alcune garanzie agli elettori (tenere alta la guardia sulla sicurezza interna e regionale; incentivare l’evoluzione economica del Paese; non andare oltre l’attuale status quo nei confronti dei palestinesi) basandosi su una intesa di contenuti e metodi (tra Likud e Kahol Lavan gli spazi di interconnessione e scambio possono essere molti) escludendo tuttavia la residua influenza del premier uscente e il potere di condizionamento della destra non laica. Una parte di Israele convergerebbe su una tale piattaforma anche se il vero problema, in questo caso, è per la parte restante l’apparente mancanza di una leadership che non faccia rimpiangere la rassicurante aggressività di Bibi.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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