Cultura Cibo
Erbe amare ed erbe verdi

Sul maror, tra Pesach e una ricetta

Che la primavera ormai alle porte sia la stagione delle erbe e delle verdure fresche è un dato di fatto. Non c’è dunque da meravigliarsi che la festa ormai prossima di Pesach le veda come protagoniste. La loro presenza è richiesta in tre dei sei spazi del classico piatto del seder: il karpas, un’erba verde, e i due maror, ossia le due erbe amare, indicate rispettivamente con il termine stesso di maror e di chazeret.

Su quali siano le verdure previste per questo pasto narrativo in cui ogni elemento coincide con una parte dell’Esodo dall’Egitto, le opinioni non sono, tanto per cambiare, tutte concordi. Certo, si può guardare a quanto è in uso presso le diverse comunità e a quanto sia ormai entrato nell’abitudine, ma volendo andare alle origini le letture non sono univoche. Così come i significati. La stessa composizione del seder è andata sviluppandosi nel corso dei secoli a partire dai quattro comandamenti dati dalla Bibbia, ossia quello di mangiare l’offerta sacrificale, matzot e  maror con l’offerta stessa e di raccontare la storia dell’Esodo. Con la distruzione del Tempio il rito del sacrificio non è più stato osservato, mentre si sono aggiunti altri punti e dettagli sia nella celebrazione del seder sia nell’interpretazione di quali dovessero essere le erbe amare e quale quella verde.
Volendo fare ordine, possiamo partire dall’inizio. E quindi dalla prima delle due immersioni previste per il pasto, quello del karpas. Fonte di curiosità per i bambini e secondo alcuni introdotte proprio per stimolarne le domande, le verdure verdi possono essere immerse nell’acqua salata e ricordare così le lacrime versate dagli ebrei durante la schiavitù in Egitto. Già qui però ci si troverebbe al primo bivio, visto che non tutti usano l’acqua e il sale. Lo stesso Talmud non prende posizione al riguardo, limitandosi a prescrivere che i vegetali siano intinti. Alcuni così scelgono l’aceto rosso, altri il succo di limone, altri ancora il charoset… A ciascuno di questi usi corrisponde un significato diverso, che va dalle già citate lacrime al sangue, toccando via via punti diversi della storia biblica. In generale, si può dire che presso gli ashkenaziti si sia imposto l’uso dell’acqua e sale, mentre verso il Mediterraneo e il Medio Oriente si tenda a preferire l’aceto o il succo di limone.

Il vero dilemma resta però su quali erbe usare. Anche qui il Talmud si astiene dal dare indicazioni precise. Quello babilonese non ne fornisce del tutto, mentre quello di Gerusalemme parla in un punto di foglie di barbabietola, in altri si limita a chiedere di non utilizzare le stesse verdure usate per il moror, a meno che non si abbia a disposizione solo quelle. Tra i vegetali più gettonati troviamo comunque il prezzemolo, il sedano, la lattuga e la rucola. E ognuno di essi avrebbe le sue buone ragioni, sia simboliche sia storiche, climatiche e geografiche per essere scelto per l’inizio del seder. L’unica prescrizione riconosciuta dai talmudisti è infatti che il karpas sia verde, dato che tra i significati attribuiti a questo termine di origine persiana ci sarebbe proprio tale colore (l’altra traduzione possibile è “fine cotone bianco”, ma ad affrontarla finiremmo fuori strada…).
Prezzemolo e sedano sono comunque gli ortaggi più usati. Entrambi sono dotati di foglie dalle proprietà antispasmodiche e secondo alcune letture costituirebbero un punto di contatto tra il Seder di Pesach e i banchetti greco-romani, dove queste piante erano servite per facilitare la digestione. Se il prezzemolo non ha granché bisogno di presentazioni, trattandosi dell’erba aromatica più diffusa al mondo, il sedano ha invece una storia più complessa e meno universale. Nella sua versione selvatica pare che questo ortaggio nato sulle sponde del Mediterraneo orientale non fosse commestibile da crudo e che se ne consumassero perlopiù i semi e le foglie. Sembra che siano stati i Romani a coltivarlo per primi e a introdurne l’impiego in ogni parte del pasto, compreso il dessert, ma si trattava comunque di un ortaggio dal gusto eccessivamente forte e amaro per i gusti contemporanei. Perché il sedano acquistasse il sapore vagamente dolce che oggi gli attribuiamo bisognava arrivare al XVII secolo. È alla fine del Seicento, infatti, che in Italia si giunse alla sua versione odierna, ed è sempre qui che si impose la coltivazione delle due classiche tipologie bianche e verdi, l’una da mangiare cruda, l’altra più adatta alla cottura.
Il fatto che nei testi antichi sedano e prezzemolo siano considerati interscambiabili come karpas è legato al loro essere in effetti parenti stretti, con le foglie molto simili e i semi praticamente indistinguibili. Al tempo stesso, pare che anticamente solo il prezzemolo fosse coltivato in Israele e che quindi fosse più facile incontrarlo come sostituto del sedano tanto amato dagli antichi Romani. Nei secoli successivi anche questa pianta dai gambi carnosi si è guadagnata il meritato favore dei cuochi, diventando uno degli ingredienti centrali della cucina del Medio Oriente, dove viene servito ripieno, in salamoia o cotto. Stufato e abbinato a ceci e spezie è uno dei protagonisti della cucina sefardita, mentre i persiani lo impiegano per condire il riso. Gli ebrei della Turchia e di diverse parti dei Balcani cucinano per Pesach l’apio, a base di coste di sedano cotte in agrodolce, mentre in Italia il sedano si trasforma in condimento per le polpette della vigilia di Yom Kippur. Tornando al Seder, qui il sedano può comparire solo in versione cruda e, quando non c’è, viene in genere sostituito dal prezzemolo.
Tra le verdure a foglia verde che saltuariamente vengono intinte nell’acqua e sale (o aceto, succo di limone, charoset…) troviamo anche la rucola. Popolare nelle insalate fin dalla Roma antica, è probabilmente la pianta selvatica chiamata oroth citata nel Libro dei Re. Nella versione originale dell’Haggadah, Amram Gaon la raccomandava tra gli ortaggi a foglia adatti al karpas. Sempre a foglia verde e quindi adatta a questa fase del pasto di Pesach è anche la lattuga, purché nella sua versione più giovane, a foglia tenera e piccola. Quando diventa più grande, chiara e dalle costole dure e lattiginose (se spezzate), tale ortaggio passa invece automaticamente tra quelli più adatti al maror.
A questo proposito si apre il capitolo forse più difficile da illustrare del seder. Già l’obbligo di consumare le cosiddette erbe amare tecnicamente sarebbe decaduto con la distruzione del Tempio. Venuto a mancare il rito dell’offerta sacrificale, anche il consumo di ortaggi amari in suo accompagnamento non avrebbe più avuto senso. La letteratura rabbinica lo ha comunque conservato, senza però, anche qui, giungere a una versione univoca su quali fossero i vegetali da intingere nel charoset. Quello che è certo è che dovevano rispondere a tre caratteristiche: secernere linfa, avere una colorazione verde pallido (un po’ grigiastra) e, soprattutto, essere dotati di un gusto amaro. Le ragioni di tale amarezza sono naturalmente legate, come il resto del seder, al racconto dell’Haggadah e alle difficoltà vissute dagli ebrei in Egitto. Tra le altre prescrizioni del Talmud c’è, come nel caso del karpas, che le verdure fossero consumate crude e fresche. Nella Mishnash si legge di cinque possibili alimenti che potrebbero essere considerati moror: chazeret, ulshin, tamcha, charchavina e maror. Di questi, solo il primo (anche in ordine di importanza) trova tutti d’accordo nella traduzione. Consisterebbe infatti nella lattuga, erba annuale già nota e consumata almeno 4.500 anni fa. Allo stato selvatico questo vegetale si distingueva per l’estrema amarezza e per la colorazione intensa, e solo con i Romani, che iniziarono a coltivarla intorno all’800 a. C., avrebbe perso parte del gusto amaro, del lattice e della tinta scura. Sarebbero poi stati gli arabi a portarla in Spagna e a trasformarla nella verdura oggi nota come lattuga romana, consentendo ai sefarditi di accoglierla come maror per il loro seder di Pesach.
Quanto alla seconda erba amara, l’ulshin, potrebbe trattarsi di indivia o di cicoria così come di entrambe, dato che sono comunque parenti strette. Insieme alla scarola sono state accolte da molte famiglie sefardite e mizrachi come maror, specie nella loro versione più matura, quando perdono la tenerezza e la dolcezza delle foglie giovani acquistando un gusto più amaro. Unite alla rucola e alla lattuga romana, entrambe compongono tra l’altro un’insalata che i sefarditi servono per Pesach.
Sul significato di tamcha è ancora più difficile mettersi d’accordo. Secondo Rashi si tratterebbe del marrubio, pianta officinale usata per sciroppi contro la tosse o per produrre liquori. Avrebbe tutte le caratteristiche del maror, compreso il sapore amarissimo, ma sembra che l’identificazione non abbia mai convinto gli ashkenaziti, che hanno accolto al suo posto il rafano. Molto diffuso nei paesi dell’Est Europa e qui ammesso come sostituto degli altri vegetali a foglia nei luoghi e nelle occasioni in cui questi non sono disponibili, il bianco fittone si sarebbe con il tempo imposto come il maror per eccellenza. E questo nonostante manchi di tutte le caratteristiche richieste dal Talmud.

Passando al quarto alimento possibile, il charchavina viene accostato all’eringo di campo o di mare, erba perenne simile al cardo con foglie amare e dentate che possono essere consumate sia crude sia cotte. Per finire, l’ultimo anche per rilevanza è curiosamente proprio la pianta denominata come maror. Secondo alcuni interpreti si tratterebbe dell’assenzio, erbacea dalle foglie grigio verdi e il sapore effettivamente molto amarotico, ma la maggior parte degli studiosi pensa invece che consista nel cardo selvatico. Chiamata murar in arabo, questa pianta rispetterebbe in effetti sia le prescrizioni riguardo al gusto sia quelle sulla linfa dato che, una volta spezzati, i suoi fusti secernono un liquido lattiginoso.
Qualunque sia la verdura (o radice) scelta, l’unico punto fermo resta comunque il modo di consumarla durante il seder, ossia intinta nel charoset, simbolo del lavoro a cui erano costretti gli ebrei in Egitto. L’amarezza, dunque, intinta nella sua stessa origine.

Apio (sedano alla sefardita)

Ingredienti per 6
2 cespi di sedano
120 ml di succo di limone appena spremuto
60 ml di olio extravergine d’oliva
zucchero
sale

Eliminare le foglie dal sedano (che eventualmente possono essere impiegate come karpas), separare le coste e privarle dei filamenti duri, poi tagliarle a tocchetti.
Mescolare 240 ml di acqua in una casseruola con il succo di limone, l’olio, da 1 a 3 cucchiai di zucchero e 1-2 cucchiaini di sale. Mettere sul fuoco e portare a ebollizione.
Tuffare i pezzi di sedano nel liquido in ebollizione, abbassare quindi la fiamma al minimo, mettere un coperchio e lasciare cuocere a fuoco bassissimo per circa 20 minuti, fino a quando gli ortaggi saranno teneri.
Servire l’apio ancora ben caldo come contorno oppure tiepido o freddo, come antipasto.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.