Cultura
Erdoğan e Macron, polemiche al gusto nazista

L’accusa del capo di stato turco a quello francese è di riservare ai musulmani lo stesso trattamento che fu riservato agli ebrei prima della Guerra. Analisi di un’affermazione muscolare, che mostra l’ambivalente rapporto di Erdogan con Hitler, tra il ludibrio l’identificazione

La sequenza è nota: durante le esequie di Samuel Paty, il professore barbaramente trucidato da un giovane islamista ceceno, il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron ha rivendicato l’insindacabilità e l’irrevocabilità della laicità francese. Lo aveva già fatto precedentemente, in questo caso quindi ripetendosi. A stretto giro, Recep Tayyip Erdoğan, presidente della Repubblica turca, pur non essendo chiamato direttamente in causa , in un discorso televisivo gli ha seccamente risposto che avrebbe dovuto fare dei «controlli mentali», posti i modi con i quali lo stesso Macron si occuperebbe dei musulmani, discriminandoli insieme agli appartenenti ad altre minoranze religiose. Testualmente: «che cosa si può dire di un capo di Stato che tratta milioni di membri di comunità religiose diverse in questo modo, [se non l’invitarlo a] farsi fare esami di salute mentale». Fin qui lo scambio di male parole. La presenza turca (e di franco-turchi, in possesso della cittadinanza) in Francia ammonta ad oltre 600mila elementi (su poco meno di 68 milioni di cittadini), secondo stime attendibili. L’insediamento musulmano, estremamente difficile da quantificare, varierebbe da un minimo di quattro milioni ad un massimo di otto, calcolando, in quest’ultimo caso, anche i convertiti all’Islam e, soprattutto, le persone che, pur provenendo da famiglie di tale origine, di fatto non sono osservanti né si sentono titolari di una specifica identità orientata nel senso di una peculiare appartenenza religiosa. Le proiezioni per i tempi a venire indicano che entro il 2050 la popolazione francese sarà costituita, secondo una forbice che varia da un minimo del 12,7% ad un massimo del 18%, da musulmani.

Queste cifre aiutano a comprendere il vivace confronto di “opinioni” intercorso tra il presidente francese e quello turco, proseguito nel mentre. Infatti, se già a marzo di quest’anno Macron aveva contestato la presenza sul territorio nazionale di un «Islam consolare», ossia di una rete di moschee, organizzazioni, gruppi e circoli finanziati da paesi musulmani, intendendo sottrarne il controllo alle influenze esterne e garantendone la supervisione alle autorità nazionali, la risposta di paesi come la stessa Turchia era stata dichiaratamente negativa se non ostile. L’assassinio di Paty, e le sue esequie pubbliche, trasformatesi nella circostanza per rivendicare ancora una volta la natura della cittadinanza repubblicana francese, in nessun modo disponibile a derogare dai principi sui quali si fonda, a partire dalla rigorosa separazione tra Stato e religioni, sono in tale modo diventate un terreno di scontro tra leadership che guardano al Mediterraneo come ad un obbligato sbocco delle rispettive egemonie. Su piani di molto separati, poiché mentre a Parigi il rispetto delle regole democratiche rimane un fatto assodato, non la medesima cosa può essere detta per Ankara. Non a caso il presidente turco, in un successiva dichiarazione pubblica, si è affrettato ad affermare che «contro i musulmani d’Europa è in corso una campagna di linciaggio simile a quella condotta contro gli ebrei europei prima della Seconda guerra mondiale». Rincarando poi la dose, con un caustico «siete fascisti nel vero senso della parola. Siete anelli della catena del nazismo», accusa evidentemente da estendere anche ad altri paesi europei. Ne è derivata un conflitto politico e diplomatico in corso ancora in queste ore.

Nella bizzarra ma calcolata condotta di Erdoğan entrano in gioco molteplici fattori, tra i quali sia la necessità di stornare l’attenzione dei suoi connazionali dalle crescenti difficoltà economiche nelle quali si trova il paese sia il tentativo che da tempo il leader turco va facendo per rafforzare e consolidare la propria “autorevolezza” in campo sunnita. Se si guarda la sua biografia politica, peraltro, si trovano indizi estremamente interessanti, soprattutto se i temi sono quelli che rimandano al «nazismo». Per il quale, evidentemente, nutre un irrisolto rapporto di amore e di odio, di identificazione come di rifiuto. Già quattro anni fa, di ritorno da un viaggio in Arabia Saudita, ad una specifica domanda sulla preferibilità di un modello rigorosamente presidenziale (in un paese, va ricordato, di quasi ottanta milioni di individui, dove a tutt’oggi vige un sempre più precario sistema istituzionale basato sul parlamentarismo “mitigato” e nel quale svetta la figura del presidente della Repubblica) Erdoğan, elogiandone le qualità, si era così espresso: «ci sono esempi in tutto il mondo e ci sono esempi anche del passato. Quando guardate alla Germania di Hitler, lo vedete». Stava dicendo di come il Terzo Reich costituisse un interessante modello di riferimento, quanto meno sul piano istituzionale. Hitler, infatti, dal 1934, con la morte dell’allora Presidente della Repubblica Paul von Hindenburg, aveva fuso nella sua persona, quella del «Führer», il cancellierato e la presidenza. Come dire: un uomo solo al comando.

Il nesso tra efficacia ed efficienza di un sistema presidenziale contemporaneo con l’hitlerismo è di per sé un indice interessante per capire come una parte delle autorità turche pensino a se stesse, al proprio futuro e a quello della nazione che governano. Non di meno, è un segno dello sdoganamento che alcuni aspetti del nazionalsocialismo stanno ottenendo non tanto dai soliti nostalgici ma da chi pensa a sé e ai propri sodali come parte di un percorso imperialista in divenire. Non è un caso, peraltro, che le incaute affermazioni del presidente turco, all’epoca si fossero da subito incrociate con la “liberalizzazione” in corso della stampa e della pubblica diffusione (nei fatti già era comunque possibile accedervi alla lettura senza troppi problemi), del «Mein Kampf», il libro autobiografico nonché programmatico di Hitler. Decorsi e definitivamente scaduti i settant’anni che la legge prevede per ciò che concerne i diritti d’autore, nel 2016 la sua circolazione si è infatti resa illimitata, non vincolata da filtri legali di sorta.
In Turchia, peraltro, il libro circolava liberamente da molto tempo, essendo un volume di riferimento, tra gli altri, per l’organizzazione estremista dei Lupi grigi, l’articolazione giovanile del Partito di azione nazionale, Millyetçi Hareket Partisi, la cui ideologia è dichiaratamente xenofoba, ipernazionalista e fondamentalista. Diverse decine di migliaia di copie della farraginosa e delirante opera del capo del nazismo sono parte integrante delle biblioteche del corposo ambito della destra estrema turca, alla quale Erdoğan guarda da molto tempo con interesse per trovare diffusi appoggi, non solo in sede parlamentare, ai suoi progetti di un’ancora più radicale riforma costituzionale, in senso autoritario, dell’attuale sistema di potere turco. Non c’è peraltro bisogno di aderire apertamente all’hitlerismo affinché l’ambiguità di certe formulazioni si sciolgano nell’evidente intenzionalità di governare – ovviamente nel nome del «popolo» – vincolando, o addirittura distruggendo, la democrazia. La Turchia contemporanea, dal 1923 al 2018 democrazia rappresentativa parlamentare, con il referendum del 2017 ha infatti introdotto l’elezione a suffragio universale del presidente della Repubblica, al quale fanno capo il controllo diretto e pressoché esclusivo del governo. L’ufficio di Primo ministro, infatti, è stato abolito mentre i suoi poteri sono passati in mano ad Erdoğan. Pur essendo ancora un paese di grande vivacità politica, i processi di desecolarizzazione, con l’islamizzazione di significativi aspetti della vita civile e la morsa autoritaria che continua a manifestarsi, ne limitano quindi i residui spazi di libertà.
La Turchia, che rimane un paese aderente alla Nato, peraltro si confronta con le crisi che costellano le regioni limitrofe, da quella mediorientale alla caucasica, alimentandone una golosità imperiale di cui l’attuale leadership ne è piena espressione. Non di meno, nel dissidio dialettico tra modernizzazione e democratizzazione, la scelta del primo polo a scapito del secondo è oramai un fatto diffuso, a tratti quasi di senso comune. Il ritorno di attenzione per Hitler, allora, non è l’improbabile riproposizione di un regime storicamente esauritosi bensì la vecchia, inossidabile idea che l’autorità non sia il prodotto dell’autorevolezza che le classi dirigenti si debbono conquistare sul campo bensì il tasso, variabile così come si fa con il ricorso ad un rubinetto, di autoritarismo e centralismo, monopartitismo (agognato) e dirigismo, populismo e fondamentalismo. In ciò, e nell’ossessivo richiamo alla presenza di un nemico interno, di una minaccia onnipresente, di forze ostili che minerebbero la compattezza della «nazione», si trovano quelle risorse dalle quali, nel passato così come oggi, si attinge per governare attraverso il ricorso all’uso politico della paura.

Anche per tale ragione il lucido delirio di un libro sconclusionato, feroce e incongruente al medesimo tempo qual è il «Mein Kampf», rimane di attualità. Non per quello che dice ma per come lo fa, ossia abbaiando ferocemente. Si afferma provocatoriamente che ai musulmani, in Europa, si starebbe riservando il trattamento persecutorio messo in atto dai nazisti contro gli ebrei; al medesimo tempo, tuttavia, si arride a chi fu il massimo propugnatore di tale condotta. Le due cose (ludibrio e identificazione) si tengono insieme, nel nome di una proiezione mediterranea, dove la ricerca di una identità politica forte, muscolare fa premio su tutto. Si tenga poi conto che la Turchia intrattiene da più di un secolo rapporti molto intensi con la Germania, ridimensionatisi solo in anni relativamente recenti, soprattutto per via del ruolo dell’Unione europea.
Scoprire che Recep Tayyip Erdoğan, da tempo conosciuto anche come il «sultano», sia decisamente refrattario, se non indisponibile, sul versante della democrazia e dei diritti umani, è come sorprendersi che l’acqua, quando va bollendo, possa scottare. Lo si sapeva, lo si tollerava, lo si mitigava sulla scorta di un patto ferino e faustiano che, tra le altre cose, implicava anche e soprattutto una divisione dei compiti: a lui la gestione di una parte non secondaria della scottante questione dei profughi e dei rifugiati, non solo quelli provenienti dalla regione siro-irachena; all’Europa l’accettazione delle molte ambiguità che sono il carattere costitutivo del suo esercizio politico. Il quale, con l’abortito golpe militare dell’estate del 2016, si è fatto dominio aperto, sistema al medesimo tempo patriarcale, maschilista, paternalista, regressivo e, proprio in quanto tale, rivendicato a pieno titolo come misura di lungimiranza.
Vicenda oscura, per l’appunto, quella di quattro anni fa: auto-golpe per alcuni; tentativo abortito, in quanto esperimento fragile e incerto, per responsabilità di certe componenti dell’esercito, secondo altri (nel qual caso, un autogol dei militari); messinscena integrale per la parte restante degli spettatori. Rimane il fatto – comunque la si pensi – che la notte turbolenta nella quale si videro alcuni reparti delle forze armate turche occupare, peraltro con scarsa solerzia e manchevole determinazione, posizioni pubbliche e arterie di traffico perlopiù ad Ankara e Istanbul, abbia nei fatti consegnato ad un Erdoğan incattivito, se non truce (del quale si diceva volasse nel mentre per i cieli dell’Europa alla ricerca di rifugio, parlando ininterrottamente attraverso un iPhone, per poi repentinamente atterrare e riprendere in mano il controllo della situazione), la possibilità di scatenare una repressione che ha poi colpito “scientificamente”, con implacabile determinazione, l’intera società turca. Quanto meno di quelle tanti parti che si ritengono non allineate con il volere del sultano neo-ottomano. Cosa da ciò ne è conseguito è stata soprattutto la realizzazione di un piano di “normalizzazione” della Turchia che era comunque già nelle intenzioni dell’attuale leadership prima ancora che si consumasse la cesura di una notte folle e, per alcuni aspetti, incomprensibile. Il fallito colpo di mano voluto da una parte dei militari, infatti, più che avere pregiudicato o ridimensionato il potere del «presidente eletto dal popolo» lo ha semmai corroborato. Potendosi così dedicare alla cura della «Cara Nazione» (così nel linguaggio orwelliano della presidenza) in un clima a tutt’oggi ancora gravido di rabbie, timori ma anche di sospetti e di desideri di vendette. I messaggi lanciati a Macron, che parlano tuttavia all’Europa intera, si inseriscono dentro queste dinamiche, rivelando che Ankara cercherà comunque di giocare ancora un ruolo di attore primario nelle crisi in corso nel Mediterraneo orientale. E non solo questo, beninteso, attendendo gli sviluppi geopolitici di un’area tormentata ma anche potenzialmente ricca di risorse e, quindi, di opportunità.

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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