Cultura
Eva Stories, la Shoah ai tempi di Instagram

Cosa significa raccontare l’Olocausto e perché farlo sui social? Ne parliamo con Simon Levis Sullam, Sara Ferrari e Guri Schwarz

Banalizzare oppure diffondere. Desacralizzare oppure offendere. Costruire oppure demolire. Le azioni che riguardano la memoria collettiva possono precipitare in ognuna di quelle su indicate: dipende da come si agisce. Nella memoria è custodita l’identità di chi o di cosa si vuole ricordare, e nei modi di farlo, il rischio di trasformarla in un monumento (magari sacro) quanto quello di minimizzarla. Sì, sto parlando di Shoah, territorio per eccellenza di un fare memoria necessario tanto più in questo tempo fatto di populismo e nuove ondate di antisemitismo e soprattutto di una distanza da quei fatti maggiore della vita dei testimoni. Di chi poteva andare nelle scuole e raccontare, seguire quella dolorosa linea del narrare di fatti abnormi e terribili ma realmente accaduti, trasmettendoli alle nuove generazioni. Per non dimenticare, certo. Per fare storia, oltre che memoria, anche. Per sensibilizzare. L’indifferenza non è solo di oggi. Dal giorno dopo la Liberazione, almeno in Italia, è stato difficilissimo raccogliere i documenti e le testimonianze necessarie a fare luce sull’orrore. E Massimo Adolfo Vitale, un militare dalla storia romanzesca a capo del Centro Ricerche Deportati (che poi confluirà nel CDEC), si scontra subito con l’indifferenza: la gente preferisce dimenticare, non parlarne, archiviare quella storia così mostruosa.
E poi, oggi. Argomento trito, già affrontato migliaia di volte, oggetto di film e romanzi e di diversi capitoli nei libri di storia adottati nelle scuole di ogni ordine e grado: così viene spesso liquidata, come se ormai sulla Shoah si sapesse già tutto. Un altro film sull’olocausto? hanno chiesto a Roberta Grossman mentre lavorava al suo bellissimo Chi scriverà la nostra storia, sul ghetto di Varsavia. Beh, la sua risposta è stata geniale: “Non mi risulta siano stati fatti più di sei milioni di film sull’argomento!”. E apre le porte a un altro scenario che pone una domanda importante: cosa significa oggi parlare di Shoah?
Nel tentativo di rispondere ho guardato trailer e qualche episodio di Eva Stories, l’esperimento che un padre e una figlia, Mati e Maya Kochavi, stanno facendo su Instagram come se una ragazzina degli anni 40 avesse avuto a disposizione uno smartphone. La base delle storie visive è reale, il diario di Eva Heyman, tredicenne ungherese morta ad Auschwitz. Il linguaggio, contemporaneo. Un crash. Ma in parte funziona: è una di quelle finzioni mediatiche simile a quelle di cui fanno uso anche i musei sull’olocausto americani. Quando si entra in uno di quei luoghi, si diventa un’altra persona, la cui storia è raccolta là dentro. Insieme al biglietto ai visitatori viene dato un nome e su quel nome si incentrerà buona parte della visita. Un metodo discutibile, ma che sicuramente rende il visitatore soggetto attivo. Nel nostro caso, Eva è un’amica o, con più distacco emotivo, un account da seguire. Intervista a due storici e una docente di lingua e letteratura ebraica esperta di cinema per analizzare il progetto Eva Stories.

Cosa significa raccontare la Shoah?
Simon Levis Sullam: Sul tema della rappresentazione della Shoah si sono intrecciati complessi dibattiti tra gli studiosi, ma anche gli scrittori e gli artisti: che cosa significhi rappresentare un evento limite della storia dell’umanità; se sia possibile fare “poesia”, ma anche letteratura, cinema, dopo Auschwitz; in che forme e con quali approcci ricostruire quegli eventi, tramandarne la memoria senza fossilizzarla, monumentalizzarla oppure banalizzarla. Personalmente da storico ritengo che sia necessario raccontare e rappresentare la Shoah, anche in forme creative e di invenzione, specie ora che vanno definitivamente scomparendo i testimoni diretti: trovare il modo di trasmetterne in forme nuove l’esperienza e i significati alle future generazioni.

Sara Ferrari: Era ovvio che questo progetto suscitasse reazioni contrastanti, dipende da cosa si intende per memoria. Se è qualcosa che va celebrato solo attraverso forme tradizionali non è accettabile l’idea di Eva Stories. Personalmente sono a favore e ritengo sia un’operazione degna di valore. Perché è ormai assodato che le celebrazioni istituzionali della memoria seguano particolari rituali e linguaggi, ma nulla vieta al singolo di sperimentare il proprio metodo se si muove entro i confini del rispetto. E trovo che questa iniziativa sia perfetta da questo punto di vista.

Guri Schwarz: Nel farsi perno attorno a cui ruota l’immaginario contemporaneo e prodotto dalla cultura pop, la memoria della Shoah viene inevitabilmente banalizzata. Quando, nel 1978, uscì la miniserie televisiva Holocaust, che giocò un ruolo importantissimo nell’introdurre una nuova stagione della memoria, Elie Wiesel contestò la trivializzazione della Shoah. Aveva colto un elemento reale, d’altra parte la costruzione del discorso pubblico, e l’elevarsi di quel frammento del passato a punto di riferimento simbolico, porta inevitabilmente con sé anche la banalizzazione, l’appiattimento dei contesti e della complessità storica. Questo è un problema generale, che riguarda la memoria della Shoah come anche la rappresentazione di altri aspetti del passato. Ciò che turbava Wiesel, e che periodicamente infastidisce vari osservatori, concerne i rischi di dissacrazione della memoria. Personalmente ritengo che la memoria sia un oggetto della comunicazione, un campo di battaglia in cui si sviluppano conflitti di vario genere, qualcosa di plastico e in costante trasformazione e non qualcosa che va preservato sotto teca perché resti incontaminato. Ci sono due principali tipi di memorie: da un lato quelle vive e dinamiche, dall’altro quelle morte e inerti. Fintanto che sarà viva e operativa, la memoria della Shoah sarà soggetta a plurime risemantizzazioni, nonché a varie sperimentazioni con tutti i mezzi tecnici a disposizione.

Instagram per raggiungere i più giovani: pregi e difetti del mezzo e del suo linguaggio.
Simon Levis Sullam: Credo che verificati i contenuti e l’assenza di distorsioni e banalizzazioni, Instagram come altri mezzi di comunicazione anche di massa possa essere utilizzato per familiarizzare i giovani con le vicende della Shoah. Quello proposto è una sorta di diario in diretta di ciò che avviene a una ragazzina ebrea perseguitata e questo tipo di mezzo può probabilmente creare una modalità di accesso più immediata per i giovani di oggi alla sua storia e all’esperienza dello sgretolarsi della vita quotidiana e poi della persecuzione. Ma personalmente diversificherei diversi media e non mi affiderei certo solo a instagram: indurrei i giovani a leggere, a discutere tra di loro e con gli insegnanti, certamente anche a guardare film e documentari. A unire ricostruzioni storiche e interpretazioni artistiche di quegli eventi.

Sara Ferrari: I giovani usano Instagram, è vero, dunque se serve per raggiungerli va benissimo usare questo mezzo. Ma c’è un altro elemento importante: la storia di un singolo individuo. In Israele si è parlato molto della differenza tra parlare per cifre: 6milioni oppure se parlare delle storie dei singoli. Nel primo caso, si erige una distanza, mentre nel secondo è più semplice rendersi conto dei fatti, al di fuori dei gusci protettivi della retorica. E questa idea è stata cavalcata anche dal museo dell’Olocausto di Washington: all’ingresso si riceve l’identità di un vittima e si fa esperienza attraverso la sua storia. La riappropriazone dellestorie degli individui la considero una operazione geniale. E se provo a mettermi nei panni di un ragazzino, penso che il messaggio lanciato da Eva Stories arriverebbe forte.

Guri Schwarz: Questo è un esempio clamoroso, notevole anche per via del consistente investimento di risorse che è stato messo in campo al fine di realizzare un prodotto esteticamente molto curato, e tuttavia non è certo l’unico caso recente in cui i social media sono utilizzati come veicolo per la comunicazione del passato, anche a scopo didattico ed educativo. A mero titolo di esempio possiamo ricordare il bel progetto #1917live, che proponeva twitter come strumento per un ‘viaggio nel tempo’, creando una sorta di gioco di ruolo immersivo, in tempo reale, per raccontare la storia della Rivoluzione Russa attraverso i tweet di centinaia di personaggi storici (da Lenin allo Zar Nicola II). Anche in quel caso, secondo il modello della nuova comunicazione digitale e social, si puntava all’interazione degli utenti con i protagonisti riportati virtualmente in vita. Era solo questione di tempo perché un modello simile fosse utilizzato per la memoria della Shoah. In questo caso la differenza sta nel mezzo, ovvero nel ricorso a una piattaforma che attribuisce un ruolo preponderante alle immagini, ma la logica mi pare la medesima. Reputo che un prodotto pensato per la comunicazione di massa vada valutato per i suoi contenuti, e misurato rispetto agli standard e ai modelli che caratterizzano l’estetica del mezzo, piuttosto che in virtù della sua potenzialità – tutta da verificare – di promuovere una vera e piena comprensione del passato. Personalmente trovo interessante l’uso che viene fatto delle immagini, in particolare il ricorso al corpo femminile come chiave d’accesso a un passato angoscioso all’interno di una piattaforma che spesso utilizza la figura della donna in chiave più o meno sottilmente erotica. Ci ritrovo manifestazioni di un estetica kitsch, ma non è qualcosa di completamente nuovo; il grande storico Saul Friedlander sottolineò già quasi quarant’anni fa come la dimensione del kitsch giocasse un ruolo importante in certe rappresentazioni del nazismo e della morte.

Che valora ha l’idea di attualizzare il diario di Eva Heyman in un racconto su instagram?
Simon Levis Sullam: I musei della Shoah, a cominciare da quello di Washington hanno utilizzato negli ultimi trent’anni proprio l’associazione dei singoli visitatori con il destino specie delle vittime, puntando all’identificazione con i destini personali come vie di accesso alla comprensione storica. Credo che questa sia una chiave possibile ma che allo stesso tempo occorra far comprendere il contesto in cui si svolsero gli eventi; provocare reazioni e riflessioni anche con altri mezzi ad esempio artistici; sollevare domande sui pericoli dell’intolleranza e del razzismo oggi. Tutto ciò non passa solo attraverso l’identificazione né può esaurirsi in una app.

Sara Ferrari: Trovo che i social siano dei mezzi di comunicazione fantastici. Purtroppo sono territori di attacchi antisemiti e di altre espressioni di violenza insopportabili. E l’idea di tradurre il diario di Eva e farlo passare lì sopra mi piace, potrebbe diventare anche luoghi di cose buone e di messaggi istruttivi. La trovo una boccata di ossigeno.

Guri Scwarz: Mi pare ci siano due ordini di problemi. Il primo riguarda la valenza di una singola testimonianza come chiave d’accesso al passato, in questo senso è secondario il fatto che il veicolo primario attraverso cui quel racconto raggiunge le masse sia un social network.   L’enfasi sulle vicende della giovane Eva – come su qualsiasi caso particolare – finisce, per forza di cose, col mettere in ombra la complessità del processo storico cui alludiamo con il termine Shoah. La distruzione degli ebrei d’Europa non fu l’esito ovvio e scontato di un progetto coerente, bensì il punto di approdo di una serie di politiche contraddittorie, soggette a costanti rinegoziazioni, e che trovavano applicazioni assai difformi nelle diverse realtà politiche e nazionali.   La natura di quell’esperienza fa sì che non sia riassumibile attraverso nessun singola prospettiva individuale. Lo sguardo della giovanissima Eva è significativo e interessante, e tuttavia la sua esperienza non è paradigmatica. Quanto i fruitori del progetto possono cogliere della complessità dei processi storici? Temo poco, d’altra parte lo stesso si potrebbe dire della maggioranza dei prodotti più tradizionali dedicati a questo tema, siano diari e memorie autentici o opere di fiction come romanzi e film.

Il secondo problema riguarda lo spazio che occupano la storia e gli storici nel sistema della comunicazione. Credo che uno storico debba aver la consapevolezza di essere uno dei tanti pesci che nuotano nell’impetuoso fiume della comunicazione. Dentro quella corrente si muovono tanti attori, ciascuno con le sue caratteristiche, e molti hanno una capacità di raggiungere il grande pubblico che lo studioso non ha (e forse non vuole avere, perché opera su un altro piano). Credo che gli storici debbano accettare serenamente questo dato e nel contempo sforzarsi di fare il loro mestiere, ovvero   leggere e interpretare criticamente questi prodotti, riconoscendo in essi le spie che rivelano il funzionamento dei processi culturali e comunicativi.   A mero titolo di esempio, mi pare interessante che sovente si parli di Eva Heyman come di un’altra Anna Frank. Questo è dovuto alla forza paradigmatica acquisita dalla memoria dell’adolescente di Amsterdam, anche se le due testimonianze fanno riferimento a realtà lontanissime, e non solo geograficamente. Per alcuni aspetti il diario di Eva Heyman potrebbe esser meglio accostato a un altro diario, quello di Mary Berg (alias Miriam Wattenberg) che illustra la vita nel ghetto di Varsavia, ma anche in questo caso le differenze sono molteplici. Riassumendo, per lo storico questo prodotto è interessante essenzialmente come oggetto di studio, è un squarcio aperto sui meccanismi della comunicazione e sui processi di costruzione della memoria pubblica al tempo dei social. Era solo questione di tempo perché la Shoah, tema che occupa un posto privilegiato nel nostro immaginario, approdasse anche nella mediasfera virtuale. Sarà interessante osservare questa nuova fase della memoria pubblica, osservando come si articolerà, che associazioni simboliche promuoverà e che linguaggi specifici andrà elaborando.

 

Ricordiamo ai lettori che il diario che ha ispirato l’esperimento Eva Stories è pubblicato in Italia da Giuntina: “Io voglio vivere. Il diario di Èva Heyman“. A cura di Àgnes Zsolt, traduzione di Andrea Rényi, 156 pagine, 15 euro.

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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