Cultura
Genocidio armeno: la mossa di Biden e il dibattito in Israele

Dopo lo storico riconoscimento da parte del Presidente americano, il Jerusalem Post ha scritto: “Il primo passo per garantire il ‘mai più’ è ammettere come è andata la storia”

Corrispondendo ed ottemperando a quello che era stato un suo impegno elettorale («oggi ricordiamo le atrocità subite dal popolo armeno nel Metz Yeghern, il suo genocidio. Se eletto, mi impegno a sostenere una risoluzione che riconosca il genocidio armeno e renderà i diritti umani universali una priorità assoluta», scrisse su Twitter circa un anno fa), il presidente americano Joe Biden ha formalmente dichiarato che l’assassinio di almeno un milione e mezzo di civili indifesi, tutti appartenenti alla minoranza nazionale armena (insieme alle popolazioni di altri gruppi minori presenti nella regione anatolica), compiuto durante la Prima guerra mondiale per mano dei turchi, costituisce un genocidio. Lo ha fatto sabato scorso, con una dichiarazione preparata in occasione del 106esimo anniversario dell’inizio del genocidio: «Ogni anno» ha detto «in questo giorno ricordiamo le vite di tutti quelli che morirono nel genocidio armeno dell’epoca ottomana e ribadiamo il nostro impegno a impedire che atrocità simili accadano di nuovo». Nessun altro presidente americano in carica lo aveva riconosciuto in via ufficiale; prima di lui, soltanto Ronald Reagan aveva citato il «genocidio degli armeni» in un passaggio di un documento sull’Olocausto, nel 1981, ma in seguito non vi aveva più fatto riferimento.

Non è quindi il primo pronunciamento statunitense in tale senso ma costituisce, di fatto, quello politicamente più impegnativo. Soprattutto, taglia alla radice la guerriglia parlamentare che fino ad ora aveva reso difficile per il Congresso una definitiva ed univoca presa di posizione al riguardo, malgrado diversi passi fossero già stati compiuti in tale senso. Le stesse Amministrazioni succedutesi  alla Casa Bianca in questi ultimi decenni erano state perlopiù fredde riguardo ad un atto di volontà che in sé rende ancora più difficili i già non facili rapporti con Ankara. L’uso del termine è infatti uno schiaffo morale al presidente turco Tayyip Recep Erdoğan, un fervente negatore di quel crimine.

In Israele si è quindi accesa la polemica che, peraltro, da tempo covava sotto le ceneri. Il Paese che è la casa dei sopravvissuti alla Shoah, infatti, non ha ancora ufficialmente compiuto passi nel senso di fare proprio, nei suoi documenti istituzionali, una tale dizione. Il timore di un netto appesantimento, se non di una compromissione, degli scambi diplomatici e politici con la Turchia, già da adesso comunque per nulla promettenti, è senz’altro un fattore che continua ad incidere notevolmente. Nel 2018 Tamar Zandberg, parlamentare alla Knesset per il Meretz, aveva presentato una proposta di legge per riconoscere alle persecuzione contro gli armeni durante la Prima guerra mondiale il carattere di genocidio. La richiesta si era però di fatto arenata, a fronte soprattutto dell’allora governo. La medesima cosa era poi accaduta quando un discreto numero di parlamentari di elevato profilo politico, appartenenti a diversi partiti, tra i quali Yair Lapid e Gideon Sa’ar, si era espresso a favore di una tale presa di posizione. Ancora una volta, l’esecutivo non si era mosso.

Di prassi, la ragione di questa deroga viene attribuita a calcoli di ordine geopolitico. Si tratterebbe di non alienarsi i residui rapporti con la Turchia, confidando semmai in un loro futuro miglioramento. Così come, nel conflitto aperto tra Armenia e Azerbaigian per il controllo della regione contesa del Nagorno-Karabakh, Gerusalemme intenderebbe mantenere la preferenza di per Baku, alla quale ha fornito armi, logistica e know-how militare. Tuttavia, questi atti di realpolitik sembrano stridere con il principio per il quale lo Stato degli ebrei non deve essere solo un rifugio contro le persecuzioni a danno dei propri correligionari ma anche un presidio etico contro le degenerazioni criminali della storia, ovunque esse accadano.

Ha scritto al riguardo il Jerusalem Post: «Il primo passo per garantire il “mai più” è riconoscere la storia com’è andata e chiarire che quello che è successo agli armeni è stato in realtà un genocidio. Inoltre, quando si considera la geopolitica, Israele di cosa deve avere paura dalla Turchia? Può davvero peggiorare il rapporto con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan? Non c’è motivo di temerlo, quando si comporta come un bullo antisemita in Medio Oriente. È vero che Erdoğan ha recentemente affermato che vorrebbe migliori relazioni con Israele, ma ospita ancora i leader di Hamas ad Ankara mentre il partito al governo AKP continua a paragonare Israele alla Germania nazista. La Turchia ha affermato di voler “liberare al-Aqsa”, affermando lo scorso anno che “Gerusalemme è nostra”». Ed ancora: «“La politica della Palestina è la nostra linea rossa. È impossibile per noi accettare le politiche israeliane sulla Palestina; i loro atti spietati sono inaccettabili”, ha detto Erdoğan lo scorso dicembre, dopo la preghiera del venerdì a Istanbul. Israele dovrebbe ovviamente esplorare il significato di [un eventuale] riavvicinamento con la Turchia, ma non può farlo ignorando la sua responsabilità morale e storica di stare al fianco degli armeni di fronte al male. Affinché il mondo possa garantire che queste atrocità non si ripetano, dobbiamo essere chiari su ciò che sono. Israele deve riconoscere il genocidio armeno».

Mai più, quindi. Non solo nei riguardi di alcuni ma rispetto a tutti i grandi crimini dell’umanità. La dichiarazione di Biden è parte di un obbligo morale, che la sua futura Amministrazione aveva assunto ed inserito nei programmi elettorali così come, nella politica di ogni giorno, di una moral suasion che intende esercitare verso autocrati illiberali, non solo nel Medio Oriente. In altre parole, recuperando un paradigma che le presidenze democratiche avevano usato per regolare i rapporti con l’Unione Sovietica, è del tutto plausibile che il rimando al rispetto dei «diritti umani» divenga uno strumento attraverso il quale filtrare le relazioni internazionali, regolando, di volta in volta, le condotte della Casa Bianca rispetto ai dossier più spinosi, quelli che abitualmente vedono chiamati in causa i rapporti con quei paesi che sono poco o nulla propensi a rispettare diritti e regole di libertà. Dinanzi a questo scenario va da sé, quindi, che Israele non solo si senta chiamata in causa ma che viva una discussione interna sul come comportarsi. Il tema del riconoscimento di una tragedia di proporzioni catastrofiche, infatti, non ha rilievi solo di ordine  storico ma si riflette, da subito, sugli indirizzi politici di fondo di qualsiasi governo. Più in generale, la sanzione internazionale di un crimine costituisce un indirizzo etico che impegna le collettività, e con esse i loro rappresentanti, ad assumere condotte informate a principi inderogabili che, altrimenti, potrebbero essere facilmente elusi oppure omessi. Primo tra tutti, il rispetto della vita umana e il rifiuto di quelle forme di razzismo di Stato che invece intossicano autocrazie, dittature e «democrature». Erdoğan è senz’altro nel mirino ma, non di meno, ci sono anche Putin e l’oligarchia cinese.

Detto questo, per meglio capire le implicazioni della decisione di Biden, così come della discussione israeliana in corso, è importante mettere in luce alcune questioni rilevanti, che fanno da cornice agli atti più propriamente politici. La prima di esse è che qualsiasi genocidio non può dirsi compiuto una volta per sempre se alla cancellazione delle persone fisiche non si accompagna anche quella della loro memoria. «Genocidio» è peraltro la parola con la quale dal 1944 si definisci l’eliminazione sistematica, attraverso l’assassinio di massa, di una comunità umana per parte di un’istituzione pubblica, in genere lo stesso Stato, insieme alla distruzione delle sue radici culturali, della sua storia, del ricordo della sua presenza nel consesso umana. La negazione pubblica dello sterminio, soprattutto quand’esso si sia già completamente consumato, è parte integrante dello sterminio medesimo: non si tratta di una bizzarra coda velenosa, di un esercizio per biliosi, tracotanti e iracondi disconoscitori della realtà delle cose, bensì dell’ultimazione di un processo che letteralmente rimuove, come farebbe con scientifica precisione il bisturi del chirurgo, anche la residua immagine di quel qualcuno (e qualcosa) che invece ha convissuto da tempo immemore con il resto del consesso umano. Negare è cancellare per sempre ciò che è stato: non ci sono vittime, non c’è stato crimine. Men che meno se di Stato.

Che la moderna Turchia, quella che si origina dalla progressiva scomposizione, e poi dalla consunzione, dell’Impero ottomano, sconti un peccato di origine è cosa abbondantemente risaputa. La criminale politica della distruzione dell’insediamento armeno, perseguita con brutale determinazione tra il 1915 e la fine della Prima guerra mondiale, con una coda che durò fino al 1923, è cosa tanto risaputa da una buona parte dell’opinione pubblica internazionale quanto strenuamente negata da Ankara. Nel passato come nel presente. Affinché si abbia piena cognizione civile del genocidio è indispensabile che gli Stati – quelli che si sono eventualmente macchiati di una tale, inemendabile responsabilità, al pari del consesso internazionale delle nazioni – riconoscano quanto sia avvenuto. Il genocidio, infatti,  non rimanda solo allo sterminio di vittime innocenti ma anche all’intenzionalità politica, alle deliberazioni delle singole istituzioni pubbliche, alle procedure amministrative, al coinvolgimento continuativo e sistematico di un grande numero di carnefici che sono parte integrante della macchina dell’omicidio di massa. Il genocidio è quindi sempre un atto politico.

Se un evento catastrofico, provocato volontariamente da un’autorità pubblica, nel nostro caso lo Stato turco, si abbatte su una parte della popolazione, colpendola spietatamente per il fatto stesso di esistere, affinché di un tale fatto possa esserne restituita coscienza e memoria collettiva è pertanto indispensabile che il maggiore numero possibile di nazioni lo sanzioni sul piano politico. Il che implica un pronunciamento comune, possibilmente il più esteso. Si tratta, tuttavia, di un atto che rimanda alla sovranità dei singoli Stati, perlopiù attraverso una specifica ed inequivocabile presa di posizione dei parlamenti nazionali. Al momento, se ci si riferisce al Metz Yeghern (in lingua armena il «grande crimine»), il riconoscimento formale della sua veridicità storica è stato operato da una trentina di nazioni, tra le quali l’Argentina, l’Armenia, l’Austria, il Belgio, la Bolivia, il Brasile, la Bulgaria, il Canada, il Cile, Cipro, la Repubblica Ceca, la Francia (nella quale vive un rilevante numero di discendenti della diaspora armena), la Germania, l’Italia, la Libia, la Lituania, il Libano, il Lussemburgo, l’Olanda, il Paraguay, la Polonia, il Portogallo, la Russia, la Repubblica Slovacca, la Svezia, la Svizzera, la Siria, gli Stati Uniti, l’Uruguay, la Santa Sede ed il Venezuela. Beninteso, il “riconoscimento” delle persecuzioni, della spoliazione economica, della deportazione e dell’assassinio della comunità armeno-ottomana come atto di genocidio, secondo le convenzioni internazionali, varia a seconda dei modi, dei criteri, degli organi e del testo dei documenti approvati dai singoli paesi. Il Congresso degli Stati Uniti, ad esempio, già da un paio di anni riconosce ufficialmente il genocidio armeno. La Camera dei rappresentanti, a tale riguardo, ha affermato la sua posizione con la risoluzione 296 del 29 ottobre 2019. Il Senato ha riconosciuto all’unanimità il genocidio con la risoluzione 150 del 12 dicembre 2019. Tuttavia, l’Amministrazione Trump non aveva sostenuto un tale indirizzo di fondo, rimarcando una netta differenziazione. Nel sistema dei poteri statunitensi, l’assenza di un pronunciamento della presidenza pesava quindi molto. Ora Biden lo ha colmato.

In linea generale, tuttavia, rimane materia di contenzioso soprattutto la definizione della natura dei massacri che si consumarono ai danni della minoranza nazionale armena: se per una parte della comunità internazionale si trattò di un atto di sistematico genocidio, per la Turchia – invece – furono violenze – da inquadrare nel torbido clima della Grande guerra. Riprendendo poi la vecchia propaganda antiarmena, Ankara continua ad alimentare l’ombra del tradimento filorusso che la minoranza avrebbe consumato, nel suo insieme, durante gli anni del conflitto mondiale. Le violenze, in altre parole, ancorché deprecabili avrebbero costituito una reazione tanto sproporzionata quanto motivata dinanzi all’intenzione che gli armeni andavano nutrendo di causare il collasso dell’Impero ottomano permettendo agli uomini dello Czar di impadronirsi dei suoi territori. Al netto dei distinguo politici Biden ribadisce comunque un principio, che costituisce l’architrave del diritto internazionale: chi massacra sistematicamente, secondo un piano preordinato, la popolazione, è e rimane, nella memoria collettiva, un criminale.

 

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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