Cultura
Gli ebrei a Firenze, una mostra a Palazzo Pitti

Curata da The Medici Archive Project, l’esposizione racconta la storia ebraica della città toscana, il suo ghetto, la sua demolizone e una terribile coincidenza accaduta ai tempi del nazifascismo

Se capitate a Firenze fermatevi a Palazzo Pitti e visitate la mostra Gli ebrei, i Medici e il Ghetto di Firenze.  L’esposizione è curata da  Piergabriele Mancuso, Alice S.Legé e Sefy Hendler (The Medici Archive Project) e avete tempo per vederla fino al 28 gennaio. Una mostra piccola ma densa, che illustra il rapporto tra i Medici e la città di Firenze proprio attraverso la costruzione del ghetto. Unico caso di proprietà privata medicea, al contrario delle edificazioni precedenti di  Venezia e di Roma, sul ghetto fiorentino è rimasta un’ampia documentazione di carte, progetti, descrizioni che hanno reso possibile ricostruirlo in dettaglio in tutte le sue fasi, dall’ideazione fino alla distruzione finale, momento in cui la parola stessa, ghetto, torna ad assomigliare a quel significato che gli si dà in età moderna, ovvero un luogo di segregazione e violenza, di diseredati ai margini della società.

Filippo Napoletano, Il mercato vecchio a Firenze, sec. XVII (foto da ufficio stampa)

La presenza ebraica in Toscana è nota fin dall’alto medioevo; Cosimo il Vecchio aveva concesso a poche famiglie di abitare a Firenze dando loro una “condotta”, un permesso di dimorare in città e di esercitare l’usura, proibita ai cristiani. Non si devono immaginare grosse somme: piccole quantità di denaro concesse in prestito e ricambiate con un modesto interesse, di grande utilità pubblica. In questo contesto vengono aperti i primi banchi e iniziano anche i primi rapporti di scambio tra mondo ebraico e cristiano come testimoniano ad esempio manoscritti realizzati da amanuensi ebrei sotto committenza medicea o di casati cittadini importanti.

Nonostante l’opposizione della chiesa la politica tollerante di Cosimo  continuò anche durante il granducato di Lorenzo il Magnifico che protesse gli ebrei e si avvalse della loro presenza culturale, valorizzandola a corte. La sua morte nel 1492 segnò un momento nefasto e coincise con la cacciata dalla Spagna; a Firenze con l’avvento del regime popolare l’antigiudaismo trovò un efficace strumento di diffusione nei predicatori degli Ordini minori con gravi episodi di persecuzione come lo strazio subito dal giovane diciottenne Bartolomeo de Cases condannato a morte per aver sfregiato una statua della Madonna e fatto letteralmente a pezzi dal popolo inferocito.

Particolarmente complesso fu il ruolo di Gerolamo Savonarola che pure conosceva l’ebraico e la cabala e la fece studiare ai suoi discepoli; ma in funzione antiebraica, per non incorrere in quelli che riteneva essere malefiche influenze, errori da non ripetere. La Gerusalemme celeste che si augurava per il destino di Firenze, purificata dal male e trasformata in città eletta da Dio, non comprendeva la presenza degli ebrei, corpo estraneo. L’immaginario mediceo e quello repubblicano dell’epoca trasformarono numerose figure bibliche in eroi civici e politici cristiani come si vede per David, Giuditta e Giuseppe (il  duca Cosimo volle farsi ritrarre proprio nelle vesti di Giuseppe – è glabro ed efebico mentre i fratelli hanno barbe e tratti più esotici, lo stesso esotismo che si ritrova nel ritratto di Cristo di Sodoma dove, ai lati del viso di Gesù, si intravedono sullo sfondo i due volti di un africano e di un  levantino fortemente caratterizzati). Nei quadri dell’epoca l’ebreo è il traditore, Giuda, come nel dipinto del Maestro di Marradi, dalla barba rossiccia, che porta un’aureola ma con sopra delle corna: uguale, confondibile con gli altri apostoli ma nello stesso tempo leggermente diverso, quasi una metafora ambigua della presenza ebraica in città, modesta ma indispensabile per differenziarsene.

Il Cinquecento segna un punto di svolta decisivo. L’unità spirituale della Chiesa si incrina, inizia per la comunità ebraica l’era della diaspora e della segregazione. Nel 1555 viene pubblicata la bolla papale Con nimis absurdum che escluse gli ebrei dal possesso dei beni immobili e sancì l’istituzione dei ghetti; anche a Firenze il duca Cosimo I iniziò una serie di misure restrittive, come l’obbligo di vestire il segno dal 1567: per gli uomini una toppa gialla, per le donne una manica dello stesso colore, proprio come la indossavano le prostitute. L’anno successivo il burocrate Carlo Pitti venne incaricato di compilare un censimento che evidenziasse l’esistenza di tutte le comunità del territorio. L’ottimo rapporto della moglie di Cosimo, Eleonora di Toledo, con esponenti di spicco del mondo ebraico come Benvenuta Abrabanel che pare fosse la sua nutrice a Napoli non impedirono al governo mediceo di accarezzare l’idea di un’espulsione di massa poi convertita nell’idea del ghetto nei pressi del Mercato vecchio a pochi passi dal Duomo. Una serie di case che furono tolte ai cristiani che vi abitavano e a loro rivendute e dove gli ebrei furono costretti ad abitare pagando un affitto altissimo e potendo esercitare soltanto il commercio degli stracci e la piccola usura.

Ciò nonostante all’interno continuava a fervere un universo fertile di cultura e di arte, testimoniata ad esempio dalla pittura di Iona Ostiglio e David o Isaia Tedesco, artisti apprezzati anche dal mondo cristiano. Dalla metà del Settecento  con l’avvento degli Asburgo Lorena la rete della segregazione si allentò e diverse famiglie riuscirono perfino ad acquistare case e botteghe, e soprattutto delle sinagoghe. La fine venne ufficializzata nel 1799 con l’arrivo in Toscana di Napoleone; ma dopo la sua caduta di nuovo il percorso verso l’emancipazione divenne arduo e accidentato fino al 1861 con il riconoscimento della cittadinanza e dei diritti civili, senza distinzioni di culto. La comunità cominciò allora a trasferirisi in altre zone della città mentre le vecchie catapecchie furono occupate dai poveri e dagli indigenti e l’area divenne il paradigma del degrado urbano e morale. Insieme al Mercato Vecchio venne infine demolito tra 1892 e 1895; i suoi vicoli e le sue piazze vennero immortalati in dipinti dal gusto pittoresco e romantico e al suo posto sorsero i moderni edifici che si ergono oggi in Piazza della Repubblica. A conclusione dell’esposizione una foto dell’arrivo di Hitler a Firenze mostra una parata proprio in quella piazza e ci riporta con un salto storico al Novecento. Il palco dove siede Hitler è costruito davanti all’entrata dell’antico ghetto. Una coincidenza, sicuramente. Ma una coincidenza che oggi ci fa accapponare la pelle

Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

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