Voci
I ragazzi di Piazza Bologna

Israele, Roma e gli ebrei di Tripoli in un racconto in prima persona

Ariel Arbib ci invia una lettera che è un omaggio alla comunità tripolina romana e un ricordo commosso del giugno 1967. La pubblichiamo qui di seguito, buona lettura

 

Era sul finire di Maggio quando nella mia classe, nell’interruzione tra una lezione e l’altra, discutevo con i miei compagni degli avvenimenti in Medio Oriente. Era un Maggio tiepido e dolce quello del ’67, come a Roma ne capitano spesso, nulla nell’aria che facesse presagire ciò che tra le sabbie del Sinai si scatenò da lì a pochi giorni, cambiando radicalmente la mia vita e non solo la mia.
5 Giugno 1967. 
Con un po’ di quella arroganza e sicurezza  tipica di un diciassettenne, ribadivo con determinazione allo scetticismo dei miei compagni di classe, che Israele non si sarebbe mai potuta permettere di perdere nessuna battaglia e tantomeno una guerra come quella che i ruggiti di Nasser con la sua tipica e più volte reiterata esibizione di muscoli, stava per scatenare.
 La chiusura vitale degli stretti di Tiran nel Mar Rosso, da parte di Nasser preclusi alle navi con la stella di David dirette al porto di Eilat, provocò la reazione di Israele, che colpì di sorpresa e duramente proprio il 6 Giugno di quell’anno.

In casa vivevamo tutti con trepidazione quegli avvenimenti, aspettando con ansia la sera per poterci sedere davanti al nostro televisore in bianco e nero. La sigla d’inizio del telegiornale, squillava nelle nostre orecchie come il suono dello Shofar richiamandoci a raccolta ed il silenzio in casa si faceva improvvisamente totale e profondo.
Stretti l’un l’altro, noi cinque fratelli attorno ai nostri genitori, seguivamo attraverso il video il viso ammiccante di Arrigo Levi, giornalista e speaker del Tg1 che, ammiccando, lasciava intendere quelle che sarebbero poi state le notizie a seguire.
Il suo volto sorridente diceva infatti, ancor prima delle parole, quelli che erano stati gli epiloghi delle battaglie di quella specifica giornata.
Ricordo le nostre urla di gioia il giorno che comunicò, con uno spontaneo lapsus freudiano: “…le nostre truppe sono entrate oggi vittoriose a Gerusalemme”. Grida di gioia e di incontenibile felicità uscirono contemporaneamente dalla bocca e dal cuore, creando, come un coro da stadio un frastuono che riuscirono a sentire pure i nostri vicini dell’ultimo piano del palazzo in cui abitavamo.
Ci abbracciammo e piangemmo, quando giorni dopo vedemmo sventolare la stella di David sul Kotel (Muro del Pianto), appena issata dai quei giovanissimi soldati sorridenti di Tzaal, raccolti attorno ai loro generali Moshè Dayan e Ytzhak Rabin.

Ricordo di quel momento il volto di mio padre Roberto, di solito imperturbabile e serioso, lasciarsi andare con salti e grida di gioia insieme a noi, mentre le lacrime gli segnavano le guance.
E quello eccitato di mia madre, la quale, precipitandosi al telefono in lacrime chiedeva alla centralinista della SIP la linea e di passarle poi un certo numero di Bat Yam in Israele.
Dall’altro capo del filo, a tremila chilometri di distanza, sua sorella le rispondeva poco dopo, raccontando in diretta l’emozione di quanto stava accadendo sotto i suoi occhi.
Furono giornate memorabili, indimenticabili piene del nostro entusiasmo, grazie anche alle immagini incredibili ed i resoconti che ci pervenivano quotidianamente dai fotografi, dai cronisti e dagli inviati di valore quali, tra i tanti, il compianto e caro amico Marcello Alessandri e Paolo Bugialli.

L’entusiasmo accumulato in quei primi giorni di Giugno, divenne una smania irrefrenabile per cui, finita la scuola, mi ritrovai assieme a due amici, poche settimane dopo quei fatti, su di una nave della compagnia marittima israeliana ZIM, la Moledet, diretta a Haifa; nostra destinazione finale il Kibbuz Shahar Ha Makim, in Galilea.
Lì eravamo già attesi da Johanan, un altro caro amico d’infanzia il quale, rinunciando agli agi di una bella vita romana, ci aveva già preceduti, poche settimane prima, deciso a fare di quel paese la sua futura e definitiva Patria.

 Arrivammo in Israele come volontari, assieme ad altre migliaia di giovani giunti come noi da ogni parte del mondo, richiamati dallo stesso entusiasmo e sentimento, con il desiderio di dare una mano al Paese, aiutando e sostituendo nei lavori dei campi, quei ragazzi dei Kibbutzim chiamati alle armi ed allora ancora impegnati sui quattro fronti che la guerra aveva aperto.

Sei di loro, vennero commemorati una sera, sei ragazzi giovanissimi del nostro Kibbutz, caduti sul campo di battaglia in quei primi giorni di guerra. Il più giovane di loro aveva diciotto anni, solo pochi mesi più di me…
 L’eco di tutto quello che avevamo letto sui quotidiani italiani, visto e sentito dalla voce di Arrigo Levi, attraverso le allora due reti Rai, dall’invasione del Sinai e della Cisgiordania, al totale annientamento a terra dell’aviazione egiziana, dalla presa delle alture del Golan e dei luoghi  Sacri, fino alla conquista di Gerusalemme, era diventato, una volta arrivati a destinazione, una meravigliosa e tangibile realtà in ogni suo contesto. Chiunque incontravamo e con chiunque si parlasse ci trasmetteva la sensazione che stessimo vivendo un sogno, un lungo sogno, fino ad allora rimasto inappagato, passando di generazione in generazione per duemila lunghissimi anni. Non fu difficile però rendersi conto, girando un po’ per il Paese, che quel sogno era diventato finalmente una meravigliosa realtà.

Ogni cosa appariva reale, tangibile. Tutto ciò che vedevamo, anche il più piccolo e semplice particolare, sembrava unico ed incredibile. Le bandiere biancoazzurre d’Israele che sventolavano un po’ ovunque, le foto di Moshè Dayan e Rabin esposte in quasi tutti i caffè e le vetrine dei negozi, ma soprattutto l’incontro casuale con qualche giovane militare in attesa di un autostop alla fermata degli autobus, ci riempiva gli animi di entusiasmo e di orgoglio, creando in me una tale forte emozione che non potrò più dimenticare e che porterò dentro di me per tutto il resto della mia vita.

 Gerusalemme era di nuovo riunita e totalmente ebraica!
Le note di una nuova canzone incredibilmente premonitrice, scritta solo pochi mesi prima, si diffondevano in ogni angolo del Paese, librate, tra un notiziario e l’altro, dalle radio sempre accese: Jerushalaim shel  Zahav. Gerusalemme D’Oro! 

Dalle informazioni che ascoltavamo dalla radio più volte al giorno, arrivavano infatti le notizie dal fronte e quasi sempre, la voce dello speaker concludeva con queste parole: “…ha matosenu chazrù be Shalom”; “I nostri aerei sono rientrati salvi ed in pace”. 
Nel preciso momento in cui queste parole mi arrivavano all’orecchio, una commozione ed un irrefrenabile entusiasmo salivano alle stelle, maturando la consapevolezza di essere, proprio io lì, spettatore e testimone di avvenimenti grandiosi che sotto i miei occhi stavano riscrivendo una Storia millenaria.

Ogni tanto arrivavano anche notizie da casa. I miei genitori, che nel frattempo dalla fine di Giugno si erano trasferiti nella casa di Anzio per le vacanze estive, riferivano dell’arrivo da Tripoli degli zii e zie e di un gran numero di nostri cugini, molti dei quali non avevo ancora mai conosciuto.
 Ci rendevano partecipi con i loro racconti, della felicità e della gioia di ritrovarsi di nuovo e finalmente riuniti a quella parte della  famiglia oramai fuori da ogni pericolo e che per lunghissimi anni aveva vissuto in Libia tra soprusi, privazioni e angherie. Percepivo, dalle parole di mia madre la sua commozione quando aveva riabbracciato i suoi fratelli e sorelle e che ora, di nuovo assieme, stavano vivendo quella pace ritrovata in un’allegra confusione fatta di materassi buttati a terra, di festosi via vai di bambini, di tavole sempre imbandite e del costante tintinnare di stoviglie e tegami in cucina, dove le zie si alternavano con mia madre nella preparazione delle nostre tipiche pietanze tripoline. Segnali questi della fine di un incubo e della prospettiva di una vita futura finalmente tranquilla.

Il mio viaggio in Israele finì con la fine dell’estate e con l’arrivo delle festività Ebraiche d’Autunno. I miei cugini con i loro genitori, erano già ripartiti nello stesso periodo per Israele, come Olim hadascim (nuovi immigrati), assieme ad un gran numero di ebrei libici anch’essi giunti a Roma in quel fatidico Giugno del ‘67.

 Erano arrivati a varie ondate, a partire dalla metà di quel mese, come un ennesimo Esodo biblico. Più di seimila da Tripoli e da Bengasi, cacciati come indesiderati da quella terra in cui ininterrottamente avevano vissuto per oltre duemila anni, condividendola nei secoli, con Fenici, Cartaginesi, Romani, Turchi e Arabi, ora costretti ad abbandonarla per sempre.
Alla partenza, fu loro permesso di portar via solo poche cose, raccolte e racchiuse nel poco spazio di una sola e unica valigia. Spazio decisamente insufficiente per custodirvi i ricordi di tutta una vita, di un’infanzia e di una giovinezza rubate ed il sentimento profondo per le antiche tradizioni tramandate e mantenute di generazione in generazione, alle quali non avevano mai rinunciato.
Questo però riuscirono a contrabbandarlo e a portarselo via, questo sì, rinchiuso e custodito nei propri cuori e nella propria anima, impoverendo di fatto ed inaridendo per sempre, il cuore e l’anima di quella terra e di quella gente che ora li stava cacciando.
Furono invece costretti a lasciare ed abbandonare tutto il resto, case, aziende, botteghe, Sinagoghe e soprattutto i loro morti, tra i quali i corpi insepolti, di coloro che vennero assassinati vigliaccamente e fatti scempio in quei primi giorni di Giugno, dalla furia selvaggia di una folla sanguinaria, resa pazza da un assurdo e mai represso delirio antisemita.

Piazza Bologna. Era già da molti anni, e non chiedetemi perché, il punto d’incontro di ebrei libici già stabilitisi definitivamente a Roma con quelli solo di passaggio. Lo era già molto prima del ’67.
Sul finire degli anni ’50 infatti, alcuni di loro, considerati oramai definitivamente ‘stanziali’, avevano fatto della ‘Casina Fiorita ’, un delizioso bar situato in un giardino al centro della piazza, la loro postazione personale, dove poter incrociare, tra un caffè ed una birra, tutti quei tripolini che si trovavano a passare per Roma (mi perdonino i bengasini questa sineddoche non riduttiva, ma puramente semplificativa). 
Da quei tavolini, partivano e arrivavano notizie da e per Tripoli, ma soprattutto arrivavano e partivano pacchi pieni di prodotti spesso introvabili nelle rispettive città che, amici e parenti, facevano recapitare, utilizzando come corrieri coloro che arrivavano a Roma per i più disparati motivi. Un via vai di mercanzie, tra le più disparate veniva scambiata reciprocamente sotto i tavolini del bar. Pacchi colmi del preziosissimo Parmigiano reggiano, Baci Perugina e ancora qualche bella camicia, o magari qualche paio di scarpe rigorosamente “made in Italy”, prendevano la strada per Tripoli, mentre, per la gioia dei “locali” arrivavano in città con ritmo costante, taniche del dolce succo di palma (lagby), o le profumatissime uova di tonno, assieme alle preziosissime spezie come il felfel (polvere di peperoncino piccante) e il kammun, (polvere di kumino), allora quasi introvabili a Roma. Ed infine, per i più chicchetosi, qualche pregiatissimo taglio di tessuto inglese proveniente dallo spaccio della provvida Base americana di Tripoli.

C’era poi un altro locale situato in un lato della stessa piazza, il Caffè Santarelli, che già fin dal Luglio’67, era diventato il ritrovo, il meeting-point, dei giovani teen-agers tripolini appena arrivati.
Ed è lì, che in una calda serata di fine settembre di quell’anno, feci il mio primo “incontro ravvicinato” con i quei miei coetanei d’oltre mare. 
Erano in tanti, chiaccheravano tranquilli e sereni, divisi in capannelli, ragazzi e ragazze, invadendo allegramente quell’angolo della piazza. Le ragazze, per la novità che rappresentavano, attiravano maggiormente la mia attenzione, in quanto, in verità, molte di loro erano deliziosamente carine e attraenti. 
Vederli così riuniti tutti assieme, con i loro visi sorridenti, per me assolutamente nuovi, vestiti perlopiù con jeans, t-shirts e camicie americane e con la brillantina tra i capelli, mi apparvero da subito simpaticamente strani, come personaggi appena usciti dal film “Ameican Graffity”.

Erano decisamente diversi dai miei amici di allora, più disinvolti, estroversi, sicuri di sé, come se questa nuova avventura romana li avesse resi invulnerabili.
 Più tardi mi resi conto e capii! Il motivo era forse che si sentivano, forse per la prima volta nella loro vita, definitivamente e meravigliosamente liberi. 
Ora, senza alcun timore e senza più pericolo, potevano finalmente pronunciare la parola “Israele”, con orgoglio e ad a voce alta, senza doversi guardare prima attorno con sospetto e paura.

 Parlottavano, scherzavano e ridevano tra loro, con una musicalità nelle loro voci non affatto nuova per me. La curiosità di volerli avvicinare e conoscere vinse la mia timidezza e presi quindi a conversare con alcuni di loro. Ammiccando sorrisi mi presentai, spiegando che anch’io appartenevo da una famiglia tripolina doc, dove il cus-cus e il hraimi, era anche da noi di casa. Nato però e cresciuto a Roma, dove i miei genitori avevano mantenuto scrupolosamente le nostre tradizioni e le nostre usanze educandomi a queste ed a quella stessa cultura che ora ci univa.
Ero eccitato e curioso ed alle mie domande, rispondevano con altre domande, con una cadenza e con un modo di parlare a me già così familiare, infarcito da quella ‘erre moscia’ inconfondibile e quell’intercalare fatto di ‘miii’ e di ‘mizzica’. Fui subito travolto dalla loro disinvoltura e simpatia, ma anche dalla valanga di domande che mi rivolgevano, che spaziavano dalla curiosità di sapere com’era Israele e come ci si viveva, al tipo di ballo che più era in voga qui da noi e quali canzoni e cantanti conoscessi… Fraternizzammo subito e per sempre!

Gli anni sono passati, più cinquanta oramai e tra quei fieri ragazzi di Piazza Bologna dai buffi soprannomi, ho ritrovato l’essenza delle mie radici ed una parte della mia storia che altrimenti rischiava di perdersi. Con il loro arrivo, ho riscoperto un sentimento di orgoglio di appartenenza, ritrovando negli occhi di quei ragazzi una mia nuova immagine, come riflessa in uno specchio, riunendo le due metà separate di una stessa moneta.
Inevitabilmente e come logico che fosse, tra alcuni di loro ho trovato nuove amicizie, alcune delle quali si sono cementate in questi lunghi anni in un amalgama indistruttibile che ancora oggi sostiene e riempie una parte della mia vita affettiva.

Grazie quindi ragazzi, grazie per quanto avete saputo dare in tutti questi anni a me, ma soprattutto a questa nostra antica Comunità romana che, fraternamente e generosamente, seppur con qualche iniziale atavica diffidenza, vi ha accolto, ricevendo in cambio da voi quella grande e meravigliosa innata tenacia, vitalità ed intelligenza che avete saputo, queste sì, così bene “contrabbandare”, privandone per sempre chi non l’ha saputa né voluta apprezzare.
Perché è con queste doti che, dopo aver perso ogni cosa, avete saputo ricostruirvi una vita molto più che dignitosa in questa nostra grande città, che forse tra i tanti difetti, sicuramente non conosce l’inospitalità e la diffidenza.


4 Commenti:

  1. Caro Ariel grazie per questo puntuale, emozionato ed emozionante ricordo! Tutto molto ben descritto con semplicità ed onestà. Kol a kavod

  2. MOTEK SHELI
    DENTRO DI ME IL :SAPORE” DELLE TUE PAROLE…AGGIUNGERE ALTRO SAREBBE COME DIMINUIRE UN PO’ LE EMOZIONI CHE PROVO DOPO LA LETTURA.
    FAMIGLIA ARBIB DA ME TANTO AMATA, E “VISSUTA” PER UN LUNGO TRATTO DI VITA.
    SHALOM GHEVER!

  3. MOTEK SHELI
    IL :SAPORE” DELLE TUE PAROLE…AGGIUNGERE ALTRO SAREBBE CODENTRO DI MEME DIMINUIRE UN PO’ LE EMOZIONI CHE PROVO DOPO LA LETTURA.
    FAMIGLIA ARBIB DA ME TANTO AMATA, E “VISSUTA” PER UN LUNGO TRATTO DI VITA.
    SHALOM GHEVER!

  4. MOTEK SHELI
    IL COMMENTO E’ SCOMPARSO…
    MA FORSE DOVEVA ESSERE PERCHE’ TU POSSA IMMAGINARE LE MIE SENSAZIONI DOPO LA LETTURA.
    SHALOM FAMIGLIA ARBIB DA ME TANTO AMATA.
    GRAZIE “RULLO”


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