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Identità, antisemitismo e comunità. Intervista a Ruth Dureghello

Il Presidente della Comunità ebraica di Roma si racconta

“Pronto?”

“Buongiorno, sono Micol De Pas. La disturbo ora?”

“No, anzi, mi chiedevo come mai non avesse ancora chiamato: sono le 9.32 e avevamo appuntamento alle 9.30… Penso sempre alla proverbiale efficienza di voi milanesi rispetto a noi romani così poco curati!”.

Ridiamo. Il sempiterno equivoco efficientista del milanese, in realtà semplicemente vittima di un meccanismo di ansia incontenibile, il mio altrettanto sempiterno desiderio di non disturbare (dunque se l’appuntamento è alle 9.30, meglio aspettare un paio di munuti, così l’interlocutore ha tempo di tirare il fiato…) e l’immortale pregiudizio sul lassismo romano. Un cocktail eccezionale per dare avvio a una bellissima chiacchierata telefonica con il Presidente della Comunità di Roma, Ruth Dureghello. Sarà romana, lei, ma è una di quelle persone che fanno 28 cose alla volte, sempre impegnatissima, con i minuti contati e il telefono perennemente rovente. Avevo avuto indicazioni precise dal suo portavoce: si parla solo di antisemitismo in questa intervista. Ho accettato, mi interessa il punto di vista di questa donna a capo della comunità romana. Già, perché dimenticavo di citare un altro luogo comune puttosto interessante: la comunità di Roma, in Italia, è percepita un po’ come una super comunità, la comunità rappresentativa dell’ebraismo italiano. Non vi sfuggirà il facile paragone con il mondo cattolico: a Roma c’è il Vaticano e la Chiesa delle chiese, dunque anche gli ebrei…

Partiamo. Perché è importante che l’Italia adotti, come altri stati europei, la definizione di antisemitismo messa a punto dall’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance)?
“Per il senso di dare certezza, concretezza e significato a un odio che è in continua evoluzione, dall’antigiudaismo all’antisionismo, che spesso si esprime in maniera difficile da vedere e gudicare. La definizione permette di fornire gli strumenti ai giudici e agli osservatori per evitare di muoversi nell’ambiguità, in quello spazio che da adito al facile commento secondo cui l’antisemitismo è una percezione del popolo ebraico. Ci sono invece molte manifestazioni diverse e le parole e i confini posti dalla definizione sono essenziali per rintracciarle e eventualmente sanzionarle”.

E oggi, in assenza di questa definizione, che strumenti ha la comunità ebraica per contrastare l’antisemitismo?
Dal punto di vista giuridico, quelli stabiliti dalla Costituzione fino alla Legge Mancino (La legge 25 giugno 1993, n. 205 che sanziona e condanna gesti, azioni e slogan legati all’ideologia nazifascista, e aventi per scopo l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali) e l’aggravante sul negazionismo.
Questa, però, è una parte del tema, la modalità di contrasto più efficace è nell’educazione: bisogna racconatre, andare nelle scuole e creare un contesto culturale. Senza di questo avremo fallito. Mi riferisco alla peculiarità italiana in cui le Comunità ebraiche dialogano con la società civile e le sue istituzioni e dell’attenzione, da parte nostra, nel segnalare  fatti discriminatori. Per esempio con l’episodio di Napoli, in cui la comunità ha disertato la manifestazione perché antisionista. O a quanto accaduto nei mesi scorsi qui a Roma con le pietre d’inciampo, le scritte sui  muri antisemite o le immagini esposte negli stadi. Il clima di odio è cresciuto nel Paese ed emerge sempre di più senza vergogna. Se la comunità non è vigile e reattiva, l’interesse intorno a questi temi scema e crescono gli odiatori. Ecco perché non molliamo mai, nemmeno su vignette sciocche, come quelle realizzate da un collaboratore del sindaco, che ha paragonato l’Europa alla Shoah: sono posizioni antisemite, antisioniste e vessatorie. E noi dobbiamo rivendicare il nostro ruolo, dobbiamo pretendere che collaboratori che esprimono simili pensieri vengano allontanati dall’amministrazione”.

Qual è il ruolo della Comunità ebraica rispetto alla società in cui vive?
“Gli ebrei sono da sempre parte attiva della società. Esprimono un modello di diversità come ricchezza. Ovunque si sono insediati hanno portato i valori della Torah di pace e convivenza, insieme alla cultura e all’integrazione. Insomma, il contrario dell’odio. E il dialogo spesso ci è stato negato, è la società che ci ha rinchiuso perché aveva paura, perché portavamo i valori dello studio e del confronto, i principi del Talmud. Ma il dibattito spaventa risulta pericoloso quando l’interlocutore vuole imporsi con il potere”.

Qual è il ruolo del Presidente della Comunità?
“Principalmente riguarda la sua comunità e il senso di appartenenza a questa. Essere comunità significa promuovere l’educazione, dare assistenza a chi ne ha bisogno e questo fa parte proprio dell’essere ebrei: essere uniti nel bisogno e nella crescita. Il presidente è qualcuno che vuole dare e darsi e poi rappresentare all’esterno tutto questo, con esempi concreti, come il nostro Ospedale Israelitico che assiste tutti, ebrei e non. Come le scuole ebraiche dove nell’educazione pubblica si compie un percorso storico e culturale specifico sull’ebraismo che ci rappresenta: Come nella vita comunitaria e culturale. Il presidente è anche qualcuno che vigila su tutto questo per non permettere a nessuno di impedire tutto questo alla comunità”.

Una questione identitaria, dunque?
“Identità è un termine che deve implicare la crescita e non deve essere un concetto difensivo. Deve essere inteso come qualcosa in evoluzione, da riempire continuamente di significati. Dunque significa adattarsi, nei nostri valori, alla società che cresce e matura. E se la società esprime l’antisemitismo, il nostro modo è denunciarlo e contrastarlo. Adesso devo lasciarla, ho il telefono rovente….”

Tempo scaduto, purtroppo. L’efficientismo romano batte quello milanese 1 a zero. Ma mi sono già prenotata per una prossima puntata telefonica…

 

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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