Simbolo della diversità, della ribellione e del disvelamento della verità. La seconda giovinezza della creatura d’argilla
E se il golem fosse una icona queer? Se il mostro del folklore ebraico diventasse il nume tutelare di tutte le persone che si sentono, per qualche ragione, di genere ma non solo, escluse? La domanda posta da un articolo di Alma può avere diverse risposte. Per capirle si deve partire dai diversi modi di considerare la creatura fantastica creata dall’uomo con l’argilla.
Già all’origine di narrazioni fantasy diventate mainstream come il Frankenstein di Mary Shelley, il golem, come ricorda My Jewish Learining, in ebraico indica qualcosa di incompiuto, un embrione.
I cabalisti vedevano la creazione di un golem, cioè di una creatura inanimata portata magicamente alla vita attraverso la parola, come una sorta di compito alchemico, il cui compimento dimostrava l’abilità e la conoscenza della Kabbalah. Nella leggenda popolare, spesso poi il golem diventava un eroe, tanto da salvare la comunità ebraica dalla persecuzione. L’esempio più famoso è quello dell’essere creato nella seconda metà del Cinquecento dal rabbino Judah Loew, il Maharal, per mettere in scampo gli ebrei di Praga dagli attacchi antisemiti. Dopo aver difeso la gente del ghetto, il golem si trasforma poi da salvatore in minaccia, diventando violento e rivoltandosi verso il proprio stesso creatore. Caratteristiche molto simili a quelle del golem protagonista dell’omonimo film espressionista di Paul Wegener del 1920.
Dunque il golem è un eroe, una vittima o un pericolo? Nella leggenda praghese, per disattivare la sua stessa creatura che ha acquisito poteri ormai illimitati, il Maharal modifica la parola ebraica emet, cioè “verità”, che aveva inciso sulla sua fronte eliminando la prima lettera, la א. E trasformandolo così in met, cioè morto.
L’autrice del pezzo di Alma individua nel golem non pochi motivi di interesse, sia per la propria appartenenza all’ebraismo, sia al suo definirsi persona queer. Non sono pochi i parallelismi con il golem, il più importante dei quali starebbe nel suo essere stato plasmato dalle aspettative degli altri, con il continuo timore da parte di questi che possa invece diventare una identità al di fuori del controllo del mondo esterno.
Per convalidare la propria teoria, Michele Kirichanskaya si confronta con diversi autori e artisti ebrei queer. Shira Glassman, ebrea, femminista e bisessuale, autrice della serie fantasy Mangoverse, riconosce il bisogno particolarmente sentito dai gruppi di persone più fragili di ricercare un simbolo soprannaturale che li protegga, e vede negli ebrei queer una categoria doppiamente sotto tensione. Ammette però di non vederci una particolare affinità con il golem.
La pensa diversamente Aden Polydoros, autore di The City Beautiful (in uscita il prossimo settembre), un thriller storico ambientato nella Chicago di fine Ottocento con protagonista un ragazzo ebreo, Alter, posseduto dal dybbuk del suo migliore amico ucciso da un serial killer e impegnato nelle indagini per scoprirne l’assassino. Per Polydoros tutta la questione ruota intorno all’amore. Sarebbe questo sentimento a rendere il golem di Praga umano, permettendogli di affrancarsi dal suo creatore, ma sarà questo stesso amore a portarlo alla rovina. Nel desiderio di liberarsi dalle aspettative di un padrone, che può essere anche la società, e di vestire un ruolo diverso da quello per cui si è stati modellati, lo scrittore vede una metafora dell’essere queer.
Di metafora in metafora, anche il fatto di venire allo scoperto, di affermare quella verità inizialmente impressa sulla fronte, è rimarcato nell’articolo come atto di ribellione, di nuova creazione di sé. In modo simile, si azzarda, a quanto fatto dalla regina Ester nel racconto di Purim, capace di salvare se stessa e il proprio popolo solo trovando il coraggio di affermare la propria identità (in questo caso ebraica) agli occhi del sovrano che l’ha sposata.
L’articolo giunge infine a un’artista che del golem ha fatto esplicitamente il simbolo di se stessa, tanto da intitolare la propria autobiografia Golem Girl. Nata con la spina bifida, Riva Lehrer è una disegnatrice, pittrice, insegnante e scrittrice ebrea. Sottoposta a innumerevoli operazioni chirurgiche fin dalla più tenera età, nel suo libro Riva racconta con ironia e cruda sincerità che cosa significhi essere disabili e messi ai margini della società, costretti metaforicamente a urlare per farsi sentire.
Più o meno direttamente, la cultura popolare ebraica è un elemento che la accompagna fin dalla nascita. A partire dal nome. Oltre a sottoporla a tutti gli interventi possibili e immaginabili per consentirle una vita completa e dignitosa, i genitori con la figlia hanno giocato in anticipo chiamandola Riva Beth Joan o Riva Brina Yocheved, una raccolta di nomi scelti per confondere la morte. Come racconta nel libro la Lehrer: «Nel folklore ebraico, l’Angelo della Morte è piuttosto stupido. Vaga per il mondo con i suoi appunti e scartoffie, cercando le sue vittime per nome. Se un bambino nasce con una malattia, gli dai più nomi. Questo confonde l’angelo, che si gratta la pelle in fiamme e dice: “Chi è questo? Riva? Brina? Non lo so. Penso che tornerò più tardi”».
Proseguendo, l’artista prende in esame il golem nella sua accezione di “massa informe” e, impietosa, scrive: «Il giorno in cui sono nata ero una massa, un corpo con bordi irregolari. La forma del mio corpo è stata ridotta secondo i contorni normali, ma questa normalità non è durata molto a lungo. Il mio corpo insisteva sull’aberrazione. Mi è stata negata l’autonomia che è il diritto di nascita o la normalità».
Impegnata nel rappresentare artisticamente persone con disabilità senza cadere nei cliché che le vorrebbero solo apparentemente felici, Riva rivendica il diritto a mostrarne il corpo, forte delle conoscenze mediche sviluppate a causa (o per merito) dei suoi trascorsi personali e della sensibilità nei confronti dello sguardo dell’altro, della filosofia del corpo.
Come dichiara in una intervista su Art Papers: «Quando vediamo una persona abile essere felice, non supponiamo che stia effettivamente soffrendo e che la sua felicità sia una risposta alla sofferenza. Quindi, immagini neutre fino a gioiose di persone disabili vengono lette come compensazione. Ci sono conversazioni simili su immagini di persone queer e persone di colore». Con l’adesione al concetto di diverso che mette in luce la verità, come riporta Alma, la Lehrer giunge quindi a concludere: «Io sono un golem. Il mio corpo è stato costruito da mani umane. Eppure, se una volta ero monere (mostro), mi trasformo in monstrare: uno che svela».
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.