Cultura
Il ricatto degli ostaggi

A rendere ancora più tragico il bilancio dell’attacco terroristico di Hamas è il numero, ancora incerto, dei sequestrati tenuti prigionieri a Gaza a dintorni

I numeri sono ancora da definire, una volta per sempre, poiché la questione degli scomparsi, dei dispersi, di coloro che non rispondono agli appelli non è destinata a risolversi in pochissimo tempo. Israele è stato investito da un ciclone quale mai aveva dovuto affrontare nella sua storia. Neanche negli anni, dopo la Prima guerra mondiale, quando ancora lo Stato era ben lontano dall’essersi costituito, nel mentre le sollevazioni antiebraiche iniziavano a succedersi, con non pochi morti tra i civili. Poiché il vero fuoco dell’aggressione terroristica di Hamas è stato un gigantesco, colossale pogrom contro gli «ebrei». Si tratta di un evento evidentemente organizzato nel tempo, sfruttando quindi le molteplici falle organizzative nel sistema di sicurezza (e sulle quali, a cose fatte, quando le armi taceranno, si dovrà pure fare un’inchiesta pubblica), nonché mettendo con le spalle contro il muro un governo – a dire poco – senz’altro disattento rispetto alla crisi che stava nel mentre maturando.

 Al momento almeno 1.200 israeliani risultano uccisi, oltre 2.500 feriti mentre tra i 130 e 150 civili, insieme a militari dell’IDF, sono stati presi in ostaggio. Il 7 ottobre, nel massacro compiuto nel kibbut Be’eri sono stati assassinati oltre 100 civili, tra cui donne e bambini; oltre 260 partecipanti sono stati uccisi durante un festival musicale a Re’im. Al 10 ottobre, oltre 100 persone sarebbero state uccise nel massacro di Kfar Aza, un kibbutz a sua volta a pochissimi chilometri dalla Striscia di Gaza, Tuttavia, il bilancio definitivo delle vittime è ancora sconosciuto. Si hanno semmai i computi che derivano dai singoli atti di aggressione: nove persone sono state uccise a colpi di arma da fuoco alla pensilina dell’autobus a Sderot; si ritiene che almeno quattro persone siano state assassinate a Kuseife; almeno 400 vittime, tra morti e feriti, sono state segnalate ad Ashkelon, mentre altre 280 a Beer Sheva. Nel nord, a Tel Aviv sono stati segnalati feriti a causa di attacchi missilistici. L’esercito al momento ha segnalato il decesso di 169 militari.

Tra le morti accertate figurano quelle del colonnello Yonatan Steinberg, comandante della Brigata Nahal, ucciso vicino a Kerem Shalom; del colonnello Roi Levy, comandante dell’unità multidimensionale «Ghost», ucciso vicino al Kibbutz Re’im; del tenente colonnello Eli Ginsberg, comandante della scuola dell’unità antiterrorismo «Lotar». Il vice comandante della 300a brigata regionale «Baram», il tenente colonnello Alim Abdullah, di origine drusa, è stato invece ucciso in azione, insieme ad altri due soldati, mentre rispondeva a un’infiltrazione dal Libano meridionale il 9 ottobre.

Le brutalità si sono accompagnate agli omicidi seriali. Lo strazio di Kfar Aza e Be’eri, due delle ventidue comunità di confine attaccate da subito, durante il 7 ottobre, è oramai noto. Le modalità degli assassinii, non solo con il ricorso alle armi da fuoco ma con l’uso di quelle da taglio, il fuoco appiccato alle abitazioni per costringere – quanti cercavano di nascondersi – ad uscirne, per essere poi massacrati, la coralità degli omicidi – nei quali i bambini indifesi costituivano un obiettivo fondamentali, ricordano in pieno la strage di Bucha, in Ucraina. Con sinistri rimandi all’Isis e al suo feroce operato in Siria e Iraq. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha quindi dichiarato che «chiunque venga a decapitare, uccidere donne e sopravvissuti all’Olocausto sarà eliminato senza compromessi».

Così come non è ancora del tutto chiaro il numero definitivo delle vittime, poiché l’azione di liberazione dei territori israeliani raggiunti e temporaneamente occupati dai terroristi di Hamas non si è ancora del tutto conclusa, richiedendo semmai una bonifica integrale, casa per casa, luogo per luogo, strada per strada, nascondiglio per nascondiglio, al pari si ha un’idea del numero di rapiti ma non si può ancora definire una lista conclusiva degli ostaggi. Quest’ultimo aspetto è destinato a contare moltissimo in ciò che, d’ora innanzi, accadrà.

Plausibilmente, al netto della dura operazione militare che l’esercito di Gerusalemme porterà a compimento da terra, così come anche della sua concreta durata, il ricatto del destino di quei bambini, di quelle donne, di quegli uomini che sono stati portati a Gaza – e che, in tutta plausibilità, sono già stati divisi e distribuiti in luoghi tra di loro diversi, accomunati comunque dall’essere di difficile penetrabilità – diventerà dirimente nelle scelte che il governo israeliano dovrà, d’ora innanzi, esercitare. Più che probabile che una parte di essi venga trasferita al di fuori della Striscia. Plausibilissimo, peraltro, che già da tempo fossero stati identificati dei “santuari”, a notevole distanza da Israele, nei quali tenere imprigionate le future vittime.

Il primo rischio concreto, dinanzi alle prossime mosse delle Forze di difesa israeliane sul territorio di Gaza è che, anche ad uso e consumo dei media internazionali, gli ostaggi militari possano subire le peggiori ritorsioni. Nella logica ferina del terrorismo, infatti, l’ostaggio in divisa è più “colpevole” di colui che è un civile. In altre parole, è il primo ad essere sacrificato. Civili o militari che siano, tuttavia, in Medio Oriente gli ostaggi possono rimanere nelle mani dei loro rapitori – oppure successivamente ceduti a organizzazioni terze – per anni. La vicenda dei rapiti durante la guerra civile in Libano, tra il 1975 e il 1989, è stata d’insegnamento al riguardo. Così come la prigionia collettiva, durata più di quattrocento giorni (dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981), di coloro che furono sequestrati nell’ambasciata americana a Teheran.

Due variabili entrano pesantemente in gioco, al riguardo. La prima di esse è la netta radicalizzazione del ricorso al terrorismo che sta connotando Hamas, evidentemente entrata in una tale modalità già da tempo: se fino all’ultimo raid, il pogrom generalizzato contro gli ebrei di questi giorni, l’organizzazione colpiva invece prevalentemente obiettivi selettivi (ancorché civili), mantenendo quindi uno spazio, sia pure contenuto, di mediazione attraverso l’Egitto, da sabato 7 ottobre tutto ne è risultato non solo stravolto ma completamente cancellato. È come se l’organizzazione si fosse bruciata definitivamente i ponti alle sue spalle. La seconda variabile è la spettacolarizzazione delle violenze con le quali Hamas ribadisce la sua forza. È purtroppo prevedibile che, se dovesse procedere ad esecuzioni, lo faccia in modo tale da lasciare chiarissime tracce dell’omicidio. La mediatizzazione è parte integrante del terrorismo. Hamas, sposando (da sempre) il secondo, si adegua anche alla prima.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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