Hebraica Nizozot/Scintille
Il Siracide, sapienza ebraica in lingua greca

Nella Bibbia l’Egitto è rappresentato come terra di schiavitù, simbolo di un passato che gli ebrei dovevano lasciarsi per sempre alle spalle. Ma fu proprio nell’Egitto di quei secoli che si sviluppò una delle più significative ‘simbiosi culturali’ della storia antica, quella tra ebraismo ed ellenismo

Ancora poco nota, quando non rimossa, è la storia della grande comunità ebraica di Alessandria d’Egitto nei secoli che precedettero la nascita del giudaismo rabbinico e del cristianesimo. Sebbene nella Bibbia l’Egitto sia rappresentato come terra di schiavitù, simbolo di un passato che gli ebrei dovevano non rimpiangere più e lasciarsi per sempre alle spalle, fu proprio nell’Egitto di quei secoli che si sviluppò una delle più significative ‘simbiosi culturali’ della storia antica, quella tra ebraismo ed ellenismo. Tale simbiosi si manifestò certamente nella monumentale opera esegetico-filosofica di Filone Alessandrino a cavallo tra le due ère (egli fu contemporaneo di Gesù di Nazareth), ma prima ancora nella traduzione in greco dei cinque libri della Torà, nel corso del III secolo avanti l’era comune, alla quale si aggunsero poi i profeti e altri scritti ritenuti sacri, dando così forma a quel corpus canonico di testi religiosi che prese nome di Septuaginta o Bibbia dei Settanta, secondo il mitico numero dei traduttori narrato sia dallo stesso Filone sia dall’autore della Lettera di Aristea. Fino a tutto il primo secolo quella traduzione greca fu accettata anche dal mondo farisaico-rabbinico; solo in seguito, dopo la distruzione del secondo Tempio, fu rifiutata in quanto poco fedele all’originale ebraico. Ma questa è un’altra storia…

Cosa ha a che fare il Siracide con queste antiche vicende ebraico-egiziane? E soprattutto, chi è questo ‘figlio di Sirà’ il cui nome vero in ebraico è Joshu‘a? Per rispondere ad entrambe le questioni si deve partire proprio dal testo chiamato Siracide o Ben Sirà, che non si trova nel Tanakh, nel canone ebraico dei libri biblici, ma solo nel cosiddetto Antico Testamento cioè nel canone cristiano. Eppure è un testo di ben 51 capitoli i cui contenuti sono tutti ebraici, scritti da un aristocratico laico di Gerusalemme all’epoca della transizione politica dai Tolomei ai Seleucidi, ma prima della guerra civile degli asmonei ‘contro i greci’; risalirebbe dunque ai primi due decenni del II secolo a.e.c. Tale scritto venne portato poi ad Alessandria d’Egitto e qui tradotto in greco dal nipote del suo autore. Come sappiamo tutto ciò? L’autore ha firmato, per così dire, il colophon al capitolo 50, mentre nel prologo il traduttore si auto-presenta come il nipote di Joshu‘a ben Sirà ammettendo inoltre le difficoltà di rendere in greco certe espressioni ebraiche… anzi, dice apertamente che le Scritture tradotte nella lingua greca non hanno la stessa efficacia di quando sono lette (e comprese) nella loro lingua originale. Ecco forse la ragione principale per cui questo testo, pur essendo espressione di un giudaismo antico, non fu accolto – in greco – nel canone fissato dai rabbanim tra I e e II secolo dell’era comune. Non di meno, esso era noto e venne più volte citato dai maestri di Israele, anche nel Talmud, come Sefer ben Sirà o anche come Musar ben Sirà e, in aramaico, Chekhmatà de-bar Sirà ossia sapienza del figlio di Sirà. Inoltre, parti del Ben Sirà in ebraico sono state trovate nella famosa ghenizà o rispostiglio della vecchia sinagoga del Cairo, segno che il testo è circolato per secoli anche nella lingua sacra.

Dunque la sapienza, la chokhmà, è il tema principale attorno a cui ruotano le dotte riflessioni di questo saggio di Gerusalemme, sebbene il testo raccolga argomenti eterogenei: ad esempio un ampio discorso cosmogonico, questioni di teodicea, episodi chiave della storia di Israele, elogi di quegli “uomini illustri che furono i nostri padri”: Enoch e Noach, i patriarchi, Mosè e Aronne, Giosuè ben Nun… A ben vedere, però, il filo conduttore che unisce la più parte dei capitoli del Ben Sirà sono le ammonizioni morali rivolte a un figlio ipotetico, o forse no, per istruirlo nell’ethos di Israele, nell’osservanza dei comandamenti – specie l’onorare i genitori e gli stessi maestri – e, non ultimo, nel valore dello studio, quest’ultimo un tratto che caratterizzerà tutta la successiva tradizione rabbinica. Tali ammonizioni richiamano da vicino il libro di Qohelet e il Mishlè ossia i Proverbi, entrambi attribuiti al saggio re Salomone e che stanno nel Tanakh, tra i khetuvim. Ecco alcuni esempi presi dal capitolo 10: Figlio, non irridere colui che ha l’animo amareggiato; rifiuta di proferire anche una minima menzogna; non essere logorroico nel consesso degli anziani; non maltrattare il domestico che lavora onestamente; non dare garanzie oltre le tue disponibilità; non esitare a far visita a un malato; non metterti a litigare con un potente; onora tuo padre con tutto il cuore e non dimenticare le doglie di tua madre; ricordati della fame quando sei sazio; se in tutte le tue decisioni rammenterai che devi morire, non peccherai più… e via elencando, spesso con illustrazioni – mashalim, appunto, exempla – prese dal mondo animale, come le laboriose api o come i cavalli, che diventano restii al lavoro se non sono domati. Questa sapienza non è affatto ‘teologica’ ma nasce dall’esperienza; forse dovremmo chiamarla saggezza popolare più che sapienza, ma qui sta il punto: non c’è una sapienza per i dotti e una per il popolo minuto, gli ‘am ha-aretz, gli ignoranti. Colti e semplici, ricchi e poveri, giovani e vecchi, giusti e malvagi, tutti sono soggetti alle leggi di natura e per tutti esiste, a ben vedere, una sola sapienza, quella che deriva dalla Legge divina (la Torà), dall’esperienza (la ragione) e dagli insegnamenti dei maestri (la tradizione).

Il testo apre, nel primo capitolo, con un solenne inno a quest’unica sapienza che viene dal Signore, similmente a quei midrashim che parlano della Torà come prima interlocutrice e consigliera di Iddio benedetto, scrigno dei segreti della creazione. “Il Signore in persona ha creato la sapienza, l’ha vista e calcolata, l’ha effusa su tutte le sue opere, su ogni essere vivente secondo la sua generosità… il timore del Signore è motivo di onore e di vanto, è gioia e corona per la festa… Chi coltiva il timor di Dio concluderà bene la propria vita e nel giorno della sua morte lo benediranno. Il principio della sapienza è nel timore del Signore” (vv.9-14). Sta qui l’idea centrale di quest’antologia di insegnamenti etici per condurre una ‘vita felice’, che significa moralmente sana e socialmente utile, oltre che religiosamente kasher. Quest’idea è il faro della sifrut ha-musar, della letteratura etica che attraversa un po’ tutta la storia del pensiero religioso ebraico, dal Tanakh ai filosofi e teologi del medioevo, dalla qabbalà alle scuole dei mitnagdim lituani. In fondo, nel mondo ebraico antico la ‘religione’ – la dat in senso moderno – non esisteva se non nella forma di questa chokhmà pervasiva di ogni aspetto della vita quotidiana. Nessuna felicità umana era pensabile al di fuori di tale saggezza. Gli ‘ebrei ellenistici’, meglio ellenizzati, di Alessandria d’Egitto ne erano così convinti che vollero tradurla nella lingua universale di quel tempo, il greco. Ed è in quella simbiosi, e nei suoi testi come il Siracide, che affonda le proprie radici il mondo occidentale.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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