Cultura
Israele: un Paese senza il re, sovrano senza scettro

Gantz in declino, Netanyahu in testa nei sondaggi e un nuovo partito, New Hope, guidato da Gideon Sa’ar, che punta a prendere il posto di Bibi

Non è per nulla detto che dopo la quarta volta in poco meno di due anni non ne possa poi seguire, a breve distanza di tempo, una quinta. Anche perché la frammentazione del panorama politico e dell’offerta elettorale è tale da fare si che sia molto difficile intravedere assetti a venire tali da garantire una duratura coalizione di maggioranza in Parlamento. Come si sarà inteso, ciò di cui si va parlando è il nuovo passaggio alle urne che Israele, a questo punto, dovrà affrontare il 23 marzo dell’anno che sta per entrare. Il casus belli è la mancata approvazione della legge di bilancio, un passaggio strategico per ogni democrazia parlamentare. Dinanzi all’esaurimento dei tempi previsti per il voto, il mancato accordo su una proroga per il lavori in aula comporta inesorabilmente lo scioglimento della Knesset che, in tale modo concluderà la brevissima legislatura in corso, per esattezza la ventitreesima, durata meno di un anno.

Che gli equilibri politici fossero fragili era chiaro a tutti, non meno del fatto che l’alleanza di governo tra Likud (36 seggi) e Kahol Lavan (33 seggi) costituisse una sorta di impianto artificiale, destinato a cadere ben presto. La previsione avanzata a marzo dagli analisi, ad urne chiuse e a negoziazioni in corso, era che qualsiasi governo che avesse previsto una staffetta tra l’attuale premier Benjamin Netanyahu e un altro leader politico, non avrebbe avuto lunga vita. Puntualmente si è verificata la profezia, senza neanche attendere la conclusione “naturale” del mandato del capo del Likud, prevista per l’ottobre del 2021. In verità, fin dal varo del nuovo esecutivo di unità nazionale, tra aprile e maggio, frutto di un difficile accordo tra i due maggiori partiti e come tale da molti giudicato improbabile, ci si era domandati quanto la “creatura” avrebbe retto alla prova dei fatti. Ben pochi scommettevano sulla sua durata naturale, quella per l’appunto di una legislatura. Molti rilevavano tuttavia che, in mancanza di alternative credibili sulla base dell’attuale composizione del parlamento, l’ipotesi di ridare ai cittadini la voce, dopo tre passaggi elettorali in consecutiva, costituisse un azzardo che poteva avere effetti di logoramento del già conflittuale quadro istituzionale. Non solo di quello politico, per intenderci. Poiché oramai da alcuni anni i fermenti si sono trasferiti dall’aula parlamentare, e dalle piazze, ai rapporti e agli equilibri tra i tre poteri. Soprattutto la funzione indipendente della magistratura è da tempo nel mirino della destra, ancora capitanata dal premier uscente, nel mezzo dei suoi guai giudiziari, ma evidentemente alla ricerca di una nuova leadership.

Per inciso, «Re Bibi», malgrado la situazione generatasi in questi ultimi giorni, non mollerà comunque la presa, almeno non finché non dovesse trovare un avversario più forte nel suo stesso campo. Ma ci torneremo quasi da subito nelle prossime righe. Per non pochi elettori, l’accordo da Benny Gantz e Bibi Netanyahu costituiva una concessione del primo al secondo, quest’ultimo in silente attesa di logorare il suo interlocutore-competitore. Di fatto anche in questo caso l’attesa è stata, per così dire, premiata. Ed in tempi piuttosto rapidi. Benché, a conti fatti, a risultare debilitato e consunto è anche lo stesso Netanyahu. Il quadro, infatti, è piuttosto movimentato. Nei tre precedenti passaggi elettorali la contrapposizione prevalente era stata quella che intercorreva tra i due contendenti, il primo collocato a destra, il secondo a capo di una coalizione di tre liste, Blu e Bianco, di centro moderato. Per l’ex generale, era stata una sorta di involontaria incoronazione: dalla contrapposizione con un avversario che sta cercando di eternizzare la sua presenza, vantando oramai venticinque anni di predominio nel campo politico di un Paese che da dopo il 2000 ha visto consolidarsi di molto la destra nazionalista ed identitaria, ne era emerso beneficiato.

Prima della sua identificazione a leader anti-Netanyahu, Gantz poteva vantare un invidiabile curriculum militare ma non certo un carisma da contrapporre all’energico e vitalistico avversario. I suoi consulenti avevano quindi cercato di spendere come carta vincente questa “verginità” politica. Gli era stata attribuita un’immagine non solo di autorevolezza ma anche di credibilità. L’ex capo di stato maggiore dell’esercito è stato presentato come l’unica figura in grado di contrastare quel «mister sicurezza», a capo del partito di maggioranza relativa della destra, proprio sul piano del terreno che aveva costituito lo spazio prediletto grazie al quale fidelizzare i propri elettori. Gantz non ha infatti mai giocato la carta della radicale contrapposizione politica a Netanyahu, semmai invece cercando di fornire ai più l’immagine di un moderato, capace quindi di erodere il consenso anche in quegli elettori del Likud tendenzialmente poco o nulla propensi a riconoscersi nelle posizioni più rigide ed esacerbate.

Ciò facendo, aveva ricevuto anche l’informale investitura da parte degli alleati più importanti, a partire dagli Stati Uniti, che lo avevano riconosciuto come interlocutore di rango. L’intera traiettoria del piano Kushner per la negoziazione del conflitto con i palestinesi, oltre a coinvolgere il premier, aveva interessato anche l’allora leader dell’opposizione. Benché Gantz non avesse ancora fatto nulla di immediatamente significativo, una tale attenzione, che si estendeva e moltiplicava da Washington alle capitali europee, lasciava intendere che il generale potesse costituire una credibile alternativa all’energica (ed egocentrica) leadership likudista. Peraltro, i due contendenti avevano dichiarato pubblicamente, a più riprese, di non volersi in alcun modo alleare tra di loro. Un’affermazione tanto ripetuta quanto poi clamorosamente smentita dall’accordo intercorso nell’aprile di quest’anno tra le due formazioni politiche delle quali sono rispettivamente a capo. Nel nome dell’«interesse nazionale», dinanzi allo spettro di uno stallo politico irrisolvibile, per il quale già si prevedeva un ulteriore ritorno alle urne. Un compromesso, quindi, fragile e, soprattutto, innaturale. Privo di respiro, senza un preciso orizzonte, presago semmai di ulteriori problemi a venire.

Dei due, il più fragile era sembrato da subito lo stesso Gantz, dovendo scontare nella sua stessa lista (composta di tre formazioni diverse, Israel Resilience Party, Yesh Atid and Telem, il cui terreno d’intesa era per l’appunto il rifiuto di Netanyahu) le tante perplessità, per non dire le crescenti opposizioni intestine. L’alleanza Kahol Lavan, infatti, era nata nel febbraio del 2019 come un matrimonio d’interessi basato su una piattaforma liberale, centrista e pluralista. Il target elettorale, ovvero lo spettro di elettori, doveva essere il più ampio possibile. Di fatto la ragione sociale e politica di un tale accordo era la necessità di porre termine al lungo periodo di governo esercitato dal leader del Likud. La previsione era che, dinanzi alla crisi di ciò che restava della sinistra sionista e al voto autonomo degli arabo-israeliani (che nel marzo di quest’anno ha premiato un’altra alleanza elettorale, HaReshima HaMeshutefet, la «lista comune» con ben quindici seggi), ci si dovesse concentrare proprio sul terreno di scontro che a Netanyahu pareva essere il più congeniale, ossia la trasformazione di ogni passaggio elettorale in un plebiscito a favore o contro di sé. Poiché se quest’ultimo riusciva a garantirsi il largo seguito tra i suoi abituali sostenitori, necessitava allora aprire uno spazio politico al suo margine, nel quale cercare di fare breccia, raccogliendone infine la cernita elettorale.

Con la scelta fatta da Gantz (incaricato dopo le ultime elezioni di formare un nuovo governo) di concorrere a formare un esecutivo di coalizione,  rimanendo inoltre speaker ad interim della Knesset fino al momento di occupare il ruolo di vicepremier, l’alleanza elettorale Kahol Lavan si è di fatto interrotta. Il nome del gruppo è stato mantenuto dalla formazione politica dell’ex generale, mentre Yesh Atid e Telem pur continuando a rispettare una parte degli accordi elettorale, si sono ripresi la libertà di azione come entità autonome. Sta di fatto che se il governo di unità nazionale poteva sembrare l’unica formula possibile – posto lo stallo persistente sul piano politico e lo sviluppo della pandemia – l’impegno di garantire una staffetta nel premierato per l’ottobre del 2021 era parso da subito assai poco credibile.

Diversi osservatori avevano espresso le loro perplessità, affermando che sarebbe stato assai improbabile che Netanyahu rispettasse le regole del gioco fino in fondo. Se da un lato i suoi critici da sempre ne contestano la spregiudicatezza e quella contaminazione tra politica e affari personali che caratterizza la sua leadership, dall’altro gli stessi hanno a più riprese evidenziato la cronica fragilità politica di Gantz. All’atto del varo del nuovo governo, non a caso, si era quindi parlato di un vero e proprio suicidio politico del leader di Kahol Lavan. E con lui, della stessa lista elettorale. Di fatto, ciò che è avvenuto è un suo spacchettamento. Ed una messa nell’angolo dell’ex generale, privo peraltro di un profilo e di un progetto politico autonomi rispetto alla capacità onnivore dell’oramai trascorso alleato. Non è un caso se di lui c’è chi ha parlato come di un uomo che ha tradito le promesse e la volontà dei suoi elettori, presentandosi come oppositore e piegandosi poi al gioco delle circostanze e delle convenienze. Su Haaretz, il direttore e corsivista Aluf Benn ne ha sentenziato la decadenza affermando che «gli abbiamo concesso il beneficio del dubbio, abbiamo accettato la sua ingenuità agli esordi in politica, fino a capire che sapeva benissimo quel che stava facendo, al punto di essere pronto a sostenere il piano di subordinare il sistema giudiziario al primo ministro accusato».

Gantz non sarà quindi il leader dell’opposizione a Netanyahu, avendo perso lo scettro che peraltro teneva in mano, da quando gli fu conferito, con estrema difficoltà. Mentre la scomposizione e la ricomposizione, tuttavia, a questo punto non riguarda più il fronte a favore o quello contro Netanyahu ma si inserisce dentro le dinamiche delle singole forze politiche. Già da tempo, anche in questo caso, si era detto che la vera alternativa al premier non poteva che nascere in seno alla sua stessa parte. E ciò per più ragioni, la prima delle quali è la forte predominanza tra gli elettori di Israele delle posizioni di destra, consolidatesi dal 2000 in poi. Un effetto non secondario del fallimento dei round negoziali con la controparte palestinese, con l’allora grande rifiuto di Yasser Arafat, è stato infatti anche quello di svuotare il campo del centro-sinistra (e non della sinistra, che già era in forte contrazione da sé) di un essenziale spazio di manovra, intaccando aspetti strategici della sua identità politica. Così come l’età del populismo e della traduzione dell’identità nazionale in sovranismo ha fatto breccia nel Paese da tempo, divenendo un dei fattori fondamentali sui quali si misurano i differenziali e le polarizzazioni tra le diverse appartenenze elettorali.

Le motivazioni del voto in Israele sono oramai da tempo legate alle scelte in materia di politica interna ed economica, due capitoli dell’agenda pubblica sui quali la pandemia ha inciso non poco, con un buon outlook ma un inedito problema di disoccupazione, che al momento viaggia intorno a tassi del 20%. Sta di fatto che l’iniziativa politica da tempo è passata in mano alle coalizioni di destra, variamente mitigate dal concorso di partiti che non si riconoscono direttamente con quel campo. L’uscita allo scoperto dell’antagonista interno a Bibi, Gideon Sa’ar (foto sopra), che aveva tentato vanamente di sfidarlo alle trascorse primarie del Likud, non andando oltre poco più di un quarto dei voti interni, è quindi il fatto più rilevante di questo scorcio di legislatura in prematuro declino.

Sa’ar, presagendone la repentina conclusione, l’8 dicembre scorso ha depositato nome e logo della sua nuova creatura politica, New Hope, alla quale si sono da subito uniti i due membri alla Knesset di Derekh Eretz (formazione a sua volta nata nel marzo di quest’anno), Yoaz Hendel e Zvi Hauser, insieme ai likudnikim Yifat Shasha-Biton, Michal Shir Segman, Sharren Haskel e Ze’ev Elkin (quest’ultimo più volte ministro e già consulente del premier; nella sua lettera di congedo ha affermato, rivolgendosi in prima persona al suo vecchio interlocutore, che: «sono ormai convinto che i tuoi interessi personali e i capricci del circolo più ristretto che ti sta attorno giochino il ruolo centrale nel processo decisionale. La mia fiducia in te e nei tuoi obiettivi si è spezzata: il tuo tornaconto è mischiato al bene della nazione e spesso lo scavalca»). Tutti sufficientemente giovani per dare una pennellata di “innovazione” rispetto ad un Likud in forte difficoltà, il cui destino sembra essere consegnato nelle mani di Netanyahu, comunque le cose vadano.

I primi sondaggi, non a caso, indicano maretta: se il Likud manterrà il profilo di primo partito, con 25-28 mandati (rispetto ai 36 uscenti), New Hope potrebbe raccogliere tra i 20 e i 22 seggi mentre altre formazioni come Yesh Atid, Yamina, Shas una quindicina a testa, la lista araba (che non si presenterà comunque come soggetto unitario, al pari, invece, delle passate elezioni) una decina, Yisrael Beiteinu almeno 7. In questo ennesimo travaso, Nafatali Bennet, leader di Yamina (formazione di destra radicale, costituita nel 2019 e attualmente presente in parlamento con 5 seggi), ha annunciato la sua candidatura al premierato, concorrendo al picconamento del «regno di Bibi».

Di fatto, si sono aperte le danze per il tentativo di succedergli. Sa’ar non potrà essere attaccato nel suo fianco destro: non solo non è di «sinistra» ma su diversi dossier, a partire dai rapporti con i palestinesi, passando per gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ha posizioni ancora più rigide. Mentre invece ha rivelato una certa capacità nel miscelare posizioni progressiste e liberali nel campo dei diritti civili con quei temi più strettamente identitari che sono maggiormente cari all’elettorato conservatore. Se le elezioni di marzo di quest’anno erano quindi sembrate sia un referendum su Netanyahu sia un pronunciamento su Gantz – laddove entrambi gli antagonisti si erano presentati con due programmi non vicendevolmente alternativi, combattendo però sempre nel versante del conflitto aperto nei confronti della personalità antagonista – ora, la frammentazione che potrebbe derivare dalle nuove elezioni, se di certo non giocherà a favore della potenziale capacità coalittiva di Sa’ar (che per avere i numeri alla Knesset dovrebbe riunire intorno a sé forze tra di loro molto diverse), farà anche in modo che Netanyahu sconti a sua volta il rischio di non riuscire più a cucire alleanze intorno alla sua persona.

Conosciuto anche come «il Mago», soprattutto per la capacità di negoziare e di condizionare i partiti prima ancora dei risultati elettorali, Bibi avrà contro non solo la volontà, a questo punto manifesta, di mandarlo in pensione ma anche le sempiterne vicissitudini di un sistema basato sul proporzionale puro, che costringe il capo del governo a contare su uno o due deputati per restare al potere, spesso cedendo a molte delle  loro richieste. A ciò, inoltre, si aggiunge una crisi di fiducia politica dentro il parlamento, dovuto alla mancata conferma del ticket con Gantz: chi potrà quindi fidarsi delle promesse del premier uscente, quando dovesse formularle, se i fatti, in quest’ultimo frangente, ne hanno smentito la loro concreta attuazione?

In altre parole, come è già stato riscontrato, «se l’offensiva al premier nelle ultime elezioni veniva dalle sinistra, ora viene dalla parte opposta. Sono cresciuti i partiti più radicali, quelli identitari, quelli che considerano Netanyahu troppo moderato. Mentre i moderati, che speravano in Gantz, adesso si trovano senza qualcuno che li rappresenti». Quello che semmai si dovrà capire è se Sa’ar avrà una qualche consistenza o rischi, a sua volta, di presentarsi come l’ennesimo figurante di una lunga successione, da Tzipi Livni a Yair Lapid, da Avigdor Lieberman a Naftali Bennet fino allo stesso Benny Gantz. Tutti talentuosi, tutti alternativi al premier, tutti destinati – più prima che poi – a galleggiare tra i marosi della politica israeliana. Per poi magari sparirne o doversi consegnare ad un ruolo defilato e subalterno.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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