Cultura
“June Zero”, ovvero di Eichmann processato, in attesa dell’esecuzione

Una sceneggiatura a quattro mani messa a punto da Jake Paltrow e Tom Shoval per il film presentato in anteprima mondiale (e in arrivo al Jerusalem Film Festival a fine mese)

Adolf Eichmann non si vede quasi mai, e mai a figura intera, in June Zero, il film che racconta i preparativi per la sua esecuzione, avvenuta in Israele nel maggio del 1962. Diretta dallo statunitense Jake Paltrow e co-sceneggiato dall’israeliano Tom Shoval, l’opera è stata presentata nei giorni scorsi in anteprima mondiale al Karlovy Vary International Film Festival, nella Repubblica Ceca, e parteciperà a fine luglio al Jerusalem Film Festival.

Come ha raccontato Paltrow a Deadline, l’idea del film era nata da una storia giuntagli all’orecchio diversi anni fa. Riguardava la costruzione di un forno crematorio portatile ordinata dalle autorità e affidata segretamente a una fabbrica israeliana. Iniziate nel 2018, le ricerche di Paltrow puntavano a ricostruire le storie intorno alla costruzione di questo dispositivo destinato a incenerire il corpo di Eichmann subito dopo la sua esecuzione. «Ciò che mi interessava inizialmente era questo dettaglio, sapere come l’avessero smaltito, in un paese e in una cultura che non prevede la cremazione», ha dichiarato il regista a Variety.
Recatosi in Israele a caccia di testimonianze su quello che lui stesso definisce “un dettaglio molto piccolo”, il regista intendeva filmare delle interviste da inserire poi in un film. Da qui all’idea di sviluppare un racconto romanzato sulle persone coinvolte il passo è stato breve, ma a quel punto bisognava chiedere aiuto a qualcuno che fosse più vicino del regista statunitense alla realtà israeliana. Le origini ebraiche bielorusse e polacche del padre Bruce, regista a sua volta, non erano sufficienti. «C’erano strati storici e culturali che non pensavo di poter penetrare. Pensavo di non poter inventare da solo questo tipo di dramma storico speculativo», ha spiegato Paltrow a Deadline nell’articolo citato.

È con l’entrata in scena del regista israeliano Tom Shoval come co-sceneggiatore che la storia ha potuto prendere corpo. Non senza qualche decisiva modifica, come l’idea di fare recitare gli attori in ebraico, nonostante il regista avesse scritto inizialmente i testi in inglese, e di girare gran parte delle scene in Israele. «Era strano scrivere una storia ambientata in Israele nel 1962 con tutti i personaggi che parlavano inglese», ha raccontato Shoval. Sempre il regista e sceneggiatore israeliano, noto soprattutto per i film Youth e Shake your cares away, aveva anche capito che il film doveva essere girato in Israele con attori israeliani che potessero rappresentare e trasmettere la dimensione geografica e politica oltre alla complessità dell’epoca.

Quello che ne è uscito è un racconto che si muove intorno alla figura di Eichmann ma che non lo affronta direttamente. «Trovo poco interessante e problematico cercare di farne un “personaggio”» ha detto Paltrow a Variety«Abbiamo visto quel genere di cose e di solito finisce nel regno della rappresentazione tipo Hannibal Lecter», ha aggiunto. «Nel nostro film, Eichmann funziona come il pozzo petrolifero in The Wages of Fear. Lui è una circostanza, come il tempo. Qualcosa da anticipare e a cui reagire».
Più che il criminale nazista il film mostra quindi l’impatto della sua condanna a morte sulla società israeliana attraverso le storie di tre personaggi che vi gravitavano intorno. In una fotografia volutamente d’antan curata dal direttore Yaron Scharf e favorita dall’uso della pellicola in 16 millimetri, si seguono le vicende di David, Haim e Micha. Si tratta rispettivamente di un ragazzino di 13 anni da poco arrivato in Israele dalla Libia che lavora nella fabbrica di forni industriali per panifici al quale sarà commissionato quello per Eichmann, della guardia carceraria incaricata di proteggere il criminale dal processo fino alla sua esecuzione e di un ufficiale di polizia sopravvissuto all’Olocausto.

Secondo la recensione di Anna Smith uscita su Deadline, il personaggio più riuscito sarebbe il piccolo David, interpretato dall’esordiente Noam Ovadia. Impiegato in fabbrica anche a causa della sua cattiva condotta a scuola, il ragazzo è in cerca di accettazione nel paese che lo ha da poco accolto ma è anche combattuto tra dilemmi morali che sono gli stessi di una parte dell’opinione pubblica israeliana, contraria alla esecuzione.
Sempre secondo la Smith non mancherebbero comunque dettagli coinvolgenti anche legati alle altre due figure. Interpretato da Yoav Levy, il marocchino Haim deve impedire che qualcuno che sia stato direttamente coinvolto con l’Olocausto entri in contatto con il detenuto e acceleri, diciamo così, i tempi della giustizia. Tra le scene clou, quella in cui la guardia osserva con apprensione i gesti del nuovo barbiere incaricato di tagliare i capelli al condannato. L’ultimo personaggio, il poliziotto Micha interpretato da Tom Hagi, è un sopravvissuto di Auschwitz e viene mostrato non al processo Eichmann, ma mentre torna in Polonia (anche se le scene relative sono state girate in Ucraina, poco prima che scoppiasse la guerra), contribuendo così al racconto con il dramma delle sue esperienze.

Oren Moverman, che ha prodotto il film insieme a David Silber e Miranda Bailey, ha dichiarato di essere stato particolarmente colpito da una scena in cui Micha, in una visita ufficiale al ghetto in cui lui stesso era stato rinchiuso prima di essere spedito nel campo, si confronta con il rappresentante della delegazione israeliana. Il punto era se dopo la guerra Israele dovesse concentrarsi sul “non dimenticare mai” o sul “ricordare sempre” l’Olocausto. Secondo il produttore, questo è «un momento cruciale in cui c’è ancora una finestra per discutere dell’anima di un Paese. C’è un modo di vederlo come qualcosa di politico, ma io lo leggo come un argomento spirituale. Come continuiamo a funzionare come esseri umani, dopo aver attraversato questa tragedia? Come esistiamo? Chi saremo? Quel dilemma non è mai andato via». Al riguardo il regista ritiene che «non abbiamo una risposta a quali siano le differenze tra commemorazione e perpetuazione quando si tratta di traumi di questa natura. E come le insegniamo ai nostri figli», ma crede (o almeno si augura) che il film «possa aprire conversazioni su Israele e Palestina, su Russia e Ucraina e su vari altri luoghi». Sperando solo, aggiunge, che non diventino troppo deprimenti: «Come esseri umani abbiamo ancora la capacità di ridere e piangere allo stesso tempo».

Sulla validità della scena tra Micha e il delegato israeliano non ha dubbi anche Jessica Kiang, che sempre su Variety nei giorni scorsi a dedicato a sua volta una recensione al film. La giornalista si mostra tuttavia in disaccordo con la collega di Deadline quando si tratta di valutare la figura di David. Secondo lei gli altri due personaggi, la guardia e l’agente di polizia, hanno una dignità maggiore rispetto al ragazzino, sono mostrati in lotta con quello che viene definito il paradosso centrale dell’intero fenomeno del processo Eichmann: «Devono capire come vivere la loro vita ordinaria e quotidiana in stretta prossimità con una crudeltà inconcepibilmente colossale»David invece, per quanto conquisti subito la simpatia dello spettatore, resterebbe comunque lontano dalla “banalità del male” con la quale fanno i conti i due comprimari più maturi accostando alle loro vicende una nota di leggerezza che potrebbe risultare un po’ stridente rispetto al resto della narrazione. Il titolo? June Zero fotografa un momento, ma non vuole in nessuno modo segnare una data sul calendario per evitare qualunque rischio commemorativo, come aveva fatto un tabloid dell’epoca: seguiva la cronaca del processo, ma aveva deciso che la data dell’esecuzione dovesse restare imprecisata. E in effetti, era un po’ lo zero di giugno quella notte del 31 maggio del 1962.

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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