Cultura Cibo
La crostata di visciole, storia di un segreto in pasta frolla

Le vicende delle cucine ebraica e romanesca in un dolce sraordinario. Con ricetta

La cucina romana è ottima. E su questo non si discute. Al tempo stesso, però, si può sindacare sulla sua raffinatezza, viste le sue origini saldamente legate alla terra, a un popolo di pastori che, almeno a dare retta agli storici, mal si prestava a dedicare troppo tempo ai voli pindarici culinari. In questa prospettiva la pasticceria non poteva che risentirne fortemente. Discorso quasi sempre affrontato a parte rispetto alla cucina salata, nel caso della gastronomia della Capitale e del Lazio in genere, la preparazione dei dolci diventa un argomento da liquidare senza troppe complicazioni, che pure le sono proprie. A Roma i dolci sono deliziosi, ma sono perlopiù legati alla materia prima, agli ottimi latticini soprattutto, agli impasti che per l’occasione si arricchiscono di quel tanto di zucchero che consente loro di chiamarsi dessert. Un esempio per tutti, le pizze dolci, che a una base di pasta lievitata uniscono frutta secca, spezie, canditi e ricotta.

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In questa comunque ricca tradizione si inserisce, si può dire da sempre, quella della cucina ebraica, che con una comunità presente nell’Urbe fin dal secondo secolo avanti Cristo ha contribuito in maniera massiccia alla composizione della cucina locale. Al punto che spesso è quasi impossibile distinguere i piatti della tradizione romanesca da quelli giudaici.
E qui, finalmente, il discorso inizia a complicarsi. Già, perché tra norme e divieti, sia religiosi sia imposti dalle autorità locali, anche tra forni e fornelli si individua una corrente contraria e innovativa. Tralasciando per una volta le ricette salate più note e facilmente identificabili (dagli immancabili carciofi alla giudia, alla concia o il tortino di aliciotti e indivia, giusto per citare i più noti) e passando a quelle dolci, in un quadro locale improntato sulla semplicità si delineano deliziose elaborazioni venute da lontano, nate dall’accumularsi di sapori, ricordi e ingredienti.
Nella cucina ebraica e, a maggior ragione, nella pasticceria la complessità è una costante, quasi un obbligo. E se nei piatti salati lo slalom tra precetti e l’esigenza di nobilitare con fantasia e dettagli inediti prodotti poveri è evidente, nei dolci il gioco si fa ancora più creativo, con la massiccia introduzione di canditi, miele, frutta secca e spezie. Ecco così che ebrei e cristiani godono da sempre, a Roma, delle delizie prodotte nel Ghetto (tra i tanti, il Forno per eccellenza, quello della Pasticceria Boccione al Portico d’Ottavia) come i tortolicchi, la nocchiata o la pizza di beridde, una pizza dolce che nella versione ebraica, rigorosamente senza uova e a base di olio d’oliva, si arricchisce di pinoli, mandorle, uvetta e canditi.

Tra dolci sfornati e consumati tutto l’anno e altri legati alle festività religiose, c’è poi una preparazione che spesso viene confusa con quella romana tout court. Parliamo della crostata di ricotta e visciole, nota anche come torta papalina. Simbolo indiscusso della pasticceria locale, è una meraviglia il cui assaggio è d’obbligo nell’ambito di un itinerario capitolino. L’origine di questa ricetta, come quasi sempre capita, non è databile in modo preciso, né è possibile indicarne il vero creatore. Guardando ai suoi ingredienti, pasta frolla, visciole e ricotta romana di pecora, salta però all’occhio quanto essa sia fortemente radicata nella cultura laziale, oltre che per l’uso del latticino, per quello della frutta.
Più acidula della comune ciliegia, la visciola è una varietà di amarena, solo più scura e più dolce. Raccolta in più regioni, un tempo era particolarmente diffusa nella campagna soprattutto del Lazio, tanto da comparire in diverse preparazioni ormai entrate nella storia della cucina. Per limitarsi alle più antiche, vanno citate le visciole in guazzo e la zuppa di visciole (tramandate da Pellegrino Artusi), il visner, vino dolce prodotto facendo macerare la frutta nel vino rosso Aleatico, e la stessa crostata di visciole. Si tratta, in questo caso, di una versione non kasher della torta papalina, preparata con una frolla a base di strutto dal ripieno di soli frutti cotti nello zucchero e insaporiti con la cannella.

Nella sua versione ebraica, le cose si fanno più complesse. Se la frolla infatti ritrova la sua formula basic, senza lievito e, soprattutto, senza grasso di maiale, nella farcitura entra di prepotenza anche la ricotta. Questa, già protagonista di tante preparazioni romane, qui regala al dolce un livello di golosità eccelso, donando cremosità al ripieno e compensando il gusto acidulo delle visciole, usate perlopiù sotto forma di confettura. Oltre a rifarsi alla tradizione gastronomica locale, la presenza del latticino iscrive d’ufficio la torta nella vasta categoria dei dolci a base di formaggio della pasticceria ebraica.

Si tratta naturalmente di supposizioni, ma che si collegano a un altro dettaglio solo in parte leggendario. Tra le caratteristiche di questa crostata, infatti, c’è il suo aspetto finale.
A differenza delle comuni crostate, che hanno il cuore ricoperto da strisce di frolla intrecciate a formare delle losanghe, la torta di visciole e ricotta è chiusa quasi ermeticamente da uno strato compatto di pasta. Le ragioni di questa particolarità parrebbero legate a uno dei tanti fatti drammatici che hanno coinvolto la comunità ebraica e che prende il nome di Editto sopra gli Ebrei. Emanato nel 1775 da papa Pio VI, lo scellerato documento inaspriva le già dure regole che la comunità era costretta a osservare. Tra le sue 24 clausole persecutorie, tutte tese ad annullare i contatti tra il Ghetto e il resto della cittadinanza, ce n’era una di stampo smaccatamente protezionista che proibiva agli ebrei di vendere pane, carne e latticini ai cristiani. Ed è qui che scende in campo l’astuzia dei pasticcieri ebrei. Chiunque sia stato il padre di questo dolce, infatti, è stato senz’altro un genio che, guardandosi bene dal rinunciare alla ricotta (e ai potenziali clienti), l’ha accuratamente chiusa e nascosta dentro a un guscio di pasta friabile. Uno scrigno deliziosamente brunito che rivela i suoi tesori solo al momento del taglio.

Ingredienti per 8-10 persone

Per la frolla:
400 g di farina
200 g di zucchero
200 g di burro
4 tuorli
1 limone non trattato

Per il ripieno:
400 g di ricotta romana di pecora
140 g di zucchero
2 uova
liquore a piacere
350 g di confettura di visciole
1 tuorlo per spennellare

Preparare la frolla. Setacciare la farina, fare la fontana e lavorarla con la punta delle dita insieme al burro freddo a tocchetti fino a ottenere un composto sabbioso. Aggiungere lo zucchero con i tuorli e la scorza del limone grattugiata e impastare velocemente fino a formare una palla non troppo liscia, avvolgerla nella pellicola e lasciarla riposare in frigo per almeno 30 minuti.
Preparare nel frattempo il ripieno. Riunire in una ciotola la ricotta con lo zucchero, le uova e un paio di cucchiai di liquore, quindi mescolare con cura fino a ottenere una crema uniforme.
Riprendere la frolla e dividerla in due parti, l’una il doppio dell’altra.
Stendere quella più grande con un matterello allo spessore di circa 4 mm e trasferirla in uno stampo rotondo da crostata foderato con carta da forno bagnata e strizzata, rifilando la parte eccedente dai bordi con un coltello.
Stendere la confettura sul fondo della pasta, quindi ricoprirla con la crema alla ricotta, distribuendola in modo uniforme.
Stendere la pasta rimasta in un disco dello stesso spessore della base e usarlo per ricoprire il ripieno, sigillando il bordo con una leggera pressione delle dita. Spennellare la superficie del dolce con il tuorlo sbattuto con un cucchiaio di acqua.
Cuocere la torta nel forno già caldo a 170° per circa un’ora, finché la superficie appare dorata e leggermente brunita. Sfornare e lasciare raffreddare la crostata prima di servirla.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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