Hebraica Nizozot/Scintille
La resurrezione? Un’intuizione ebraica, nata da un bisogno di giustizia

Storia di un concetto

Tutti sanno che il racconto della resurrezione di Gesù, dopo tre giorni dalla sua morte, sta al cuore della fede cristiana. Ma ben pochi sanno che la resurrezione, o meglio l’idea religiosa per la quale Dio fa risorgere i giusti dopo la loro morte, riunendo anima e corpo al fine di “ricompensarli” delle sofferenze patìte in questo mondo, è un concetto che si sviluppa nel mondo ebraico già a partire dal III secolo avanti l’era comune [a.e.c.] e si consolida nei secoli successivi fino a una sua sistematizzazione con Maimonide nel XII secolo. Il che equivale a dire due cose. La prima: la fede nella resurrezione nasce e si afferma all’interno del nascente movimento farisaico il quale, forte delle sue radici popolari, si contrappone al partito dei sadducei, i quali, stando alla lettera della Torà, di resurrezione non trovavano traccia. Quindi si può dire che il mondo debba tale credenza ai tanto ingiustamente vituperati farisei, cioè a coloro che interpretavano oralmente la Torà scritta facendola “aumentare e crescere” con i bisogni spirituali del popolo di Israele. Seconda cosa, non meno importante: il cristianesimo può nascere, credendo nella resurrezione di Gesù, soltanto perché esiste già questa credenza ebraica; e in certo senso, ciò conferma che la radice del cristianesimo è nella fede dei farisei, che su un tema così cruciale diventa conditio sine qua non anche per l’esistenza della fede cristiana.

Il mondo ebraico antico, come si riflette in gran parte del Tanakh, non conosceva l’idea che l’essere umano, una volta morto, potesse tornare a vivere. Tuttavia, nel corso del III secolo a.e.c., cioè nel momento dell’espansione ellenistica (e della traduzione della Torà in greco ad Alessandria d’Egitto) nell’area mediorientale e mediterranea, entrano progressivamente nel pensiero ebraico sia l’idea greca dell’immortalità dell’anima (si veda nel Fedone platonico) sia la dottrina della remunerazione post mortem, come premio per i giusti e castigo per i malvagi. Anche un testo profetico come Ezechiele 37, dove si narra la visione delle ossa rinsecchite che ripresero vita, contribuì a far immaginare che i morti potessero risorgere (sebbene quella visione sia da leggersi come speranza politica di una “resurrezione nazionale” e metafora del ritorno in Giudea dopo l’esilio a Babilonia). La letteratura henochico-apocalittica, datata alla fine di quel III secolo, in particolare il Libro dei vigilanti, già presuppone sia l’immortalità dell’anima sia la resurrezione dei corpi, una duplice credenza che ritroviamo nel testo di Daniele (nel Tanakh come parte dei khetuvim e tra i profeti nella Bibbia cristiana), in un passo ad oggi tra i più citati in materia di resurrezione e retribuzione: «Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si desteranno [si risveglieranno], gli uni per la vita eterna, gli altri per l’obbrobio, per l’infamia eterna. E i saggi rifulgeranno dallo splendore del firmamento e coloro che avranno attratto molti alla giustizia saranno come stelle in etermo» (12,2-3).

L’equiparazione della morte al sonno era un tropo comune nelle culture antiche; anche il termine cimitero, dal greco, significa “luogo di quanti dormono” nelle sepolture; il mondo ebraico l’ha poi chiamato bet chayim o “casa dei viventi”, appunto perché i morti dormono in attesa di essere richiamati alla vita. I libri dei Maccabei, elaborati nella seconda metà del II secolo da ebrei per ebrei ma in lingua greca, attestano ormai la certezza della resurrezione dei giusti, anzi dei martiri che vennero messi a morte per la loro resistenza agli editti antiebraici di Antioco IV Epifane. Non solo diventeranno “stelle del firmamento”, secondo l’immagine di Daniele, ma risorgeranno con i loro corpi a ricompensa e come atto di giustizia divina (cfr. II Maccabei 7,23-36). Anche Giuseppe Flavio, nel I secolo e.c., ricorda nei suoi scritti che tanto gli esseni quanto i farisei credevano nella sopravvivenza dell’anima dopo la morte e persino nella metempsicosi cioè nella reincarnazione delle anime in nuovi corpi, idea che perdurò in alcune corrrenti mistico-qabbalistiche e tornò in auge con il chassidismo.

Ma è nella letteratura rabbinica, come i Pirqè Avot e la Mishnà, e poi il Talmud, che la fede nella resurrezione e nell‘olam ha-bà o “mondo-che-viene” (futuro) si mostra quale un caposaldo della visione ebraica della vita e della morte. Nelle Massime dei padri, infatti, si legge: «Questo mondo è come un’anticamera [un corridoio, traducono alcuni] che precede il mondo futuro; prepàrati nell’anticamera affinché tu possa entrare nella sala del banchetto» (IV,16). Il trattato mishnico Sanhedrin, al capitolo X, affronta invece il tema di chi risorgerà per aver parte al mondo futuro: «Tutto Israele avrà parte al mondo futuro…», certo, tranne chi non crede nel mondo futuro, e nella resurrezione dei morti, secondo il principio middà ke-neghed middà, misura per misura. Perché dare la resurrezione a chi non la vuole?

Non solo, il Talmud – in un’epoca in cui tale fede è assodata e condivisa – insiste piuttosto sul fatto che tale fede “si deduce” dalla stessa Torà, e ne è escluso, dall’aver parte al mondo futuro, chi non crede che tale fede si ricavi dalla stessa Scrittura! Anche l’antico midrash halakhico della Mekhiltà de-rabbi Ishmael (capitolo Shiratà, sulla Cantica del mare) insiste su questo punto: «Abbiamo ricavato la resurrezione dei morti dalla Torà». Ovviamente i temi dell’immortalità dell’anima, della remunerazione e della resurrezione dei morti sono intrecciati e non sempre facilmente separabili tra loro. L’escatologia non è il punto forte della teologia ebraica e questi concetti sono fluttuanti nelle fonti (ad esempio, nel trattato talmudico Rosh ha-shanà si afferma che l’inferno per i peccatori dura solo un anno…). Maimonide cercherà di far ordine in questo coacèrvo chiarendo che la resurrezione (per i giusti soltanto) è un miracolo divino che avverrà nell’epoca messianica, la quale va tenuta distinta dall‘olam ha-bà. Inoltre, il Rambam afferma che anche i “giusti delle nazioni” – i non ebrei che abbiano a “seguir virtute et canoscenza” per dirla con Dante – avranno parte nel mondo futuro (cfr. Hilkhot ha-teshuvà III,5).

L’attestazione ebraica più chiara e profonda a riguardo dell’idea teologica e della fede religiosa nella resurrezione la troviamo nei testi liturgici, soprattutto nella preghiera della ‘Amidà o della Diciotto benedizioni, fissata in epoca antichissima e dunque di origine farisaico-rabbinica. Nella seconda di queste benedizioni, detta ghevurot e tesa a esaltare la forza divina, Iddio benedetto è chiamato «Mechayè ha-metim» cioè Colui che richiama i morti alla vita; e ancora: «Meqayim emunatò li-shenè ‘afar» ossia Colui che mantiene la Sua fedeltà verso coloro che dormono nella polvere. Si tratta di espressioni teologiche forti, che ricordano come, benché oggi molti ebrei non credano più in questi “dogmi” (li chiamo tali, nella misura in cui fanno parte dei tredici principi di fede ebraica elencati ancora da Maimonide nel suo commento al capitolo X della Mishnà di Sanhedrin), l’intuizione della resurrezione resta centrale nel giudaismo forgiato dai maestri farisei e dall’intera tradizione rabbinica. Tale credenza costituisce inoltre un efficace principio di teodicea, esigito da una visione religiosa che vuole restaurare la giustizia divina in un mondo in cui, di giustizia, se ne vede ben poca.

Infine, si noti quel dice Paolo di Tarso (ebreo cresciuto, a suo dire, alla scuola farisaica di Rabban Gamliel che fu membro del sinedrio): «Se non esiste resurrezione dei morti, neanche Cristo è risuscitato…». E ancora: «Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto» (Prima Corinzi 15,13.16). È un ragionamento, quello di Paolo, che fa dipendere la resurrezione di Gesù dalla credenza che i primi cristiani condividevano con gli “esseni” (quelli che Giuseppe Flavio chiama così) e con i farisei, di contro ai sadducei che non ritenevano tale fede fondata nei testi sacri. Anche su questo punto il cristianesimo è debitore al mondo religioso ebraico, il quale, pur non enfatizzando premi e castighi eterni, professa che Iddio benedetto è giusto e misericordioso e non lascia che la morte e l’ingiustizia abbiano l’ultima parola.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


1 Commento:

  1. Complimenti per la chiarezza di pensiero espresso. Come per tante verità che oggi diamo scontate nella comprensione dell’intero “messaggio biblico” ci sono voluti anni e a volte secoli affinché venissero elaborate ed assimilate con equilibrio.
    Grazie, una buona giornata.
    Pietro Provinzano.


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