Cultura Cibo
La senape, dalla Genesi al museo di Middleton

Come verdura e come spezia, ha un’origine antichissima e accompagna la cucina ebraica almeno dai tempi di Abramo. Poi un ebreo americano ne ha fatto anche un museo…

Probabilmente quando si parla di senape il Talmud non è la prima cosa che viene in mente. Di certo è più immediata è l’immagine di un panino o di un bollito. Eppure, sembra che nei commenti alla Torah questa spezia sia citata oltre duecento volte. Certo, non vi si parla solo della salsa in senso stretto e tanto meno dell’aspetto in cui la conosciamo oggi, ma di semi e coltivazioni se ne dibatte in abbondanza. Ad essersene occupata ampiamente a livello accademico è stata Susan Weingarten, antropologa del cibo che in un simposio incentrato sull’alimentazione antica ha dedicato una conferenza, La senape nella letteratura talmudica, a uno dei semi citati nel Zera’im, titolo del primo dei sei libri della Mishnah nonché del Talmud che lo commenta.
Dovendo puntare su una sola delle innumerevoli coltivazioni trattate nell’antico testo, la studiosa ha scelto di concentrarsi sui semi di senape, assenti nella Bibbia ebraica ma citati come si è visto nel Talmud innumerevoli volte. La prima cosa che ne deduce, visto che la maggior parte delle fonti talmudiche risale a un periodo compreso tra il III e il VI secolo, è che questa pianta dai vivaci fiori gialli, appartenente con rape, cavoli, crescione e rafano alla vasta famiglia delle brassicacee, fosse conosciuta in Terra di Israele almeno fin dall’epoca romana. Coltivata in Cina da millenni prima della nascita di Cristo, oggi viene distinta sulla base del colore dei semi, dai bianchi della Sinapis Alba ai bruni della Brassica iuncea fino ai neri della Brassica nigra. Scorrendo il Talmud si scopre invece che ai tempi in cui la Palestina era una provincia romana la senape si divideva in coltivata e selvatica, semplice ed egiziana.
Gran parte del libro si concentra sulla coltivazione, indicando luoghi e modalità di semina, con un occhio di riguardo alla prossimità con altre specie vegetali, alle quali le piante di senape potevano fare da bordura solo a patto che non si trattasse di campi di grano. Coltivata sia per i semi sia per le foglie, che venivano bollite e conservate o consumate in insalata (come del resto si può fare ancora oggi), la senape viene trattata diversamente dai rabbini a seconda che sia usata come verdura, destinazione meno comune e non soggetta alla decima, o come spezia, sottoposta invece a regolamentazione.
Senza addentrarsi ulteriormente nell’ambito dei precetti, è interessante notare quanto questi semini fossero noti e diffusi, tanto da essere citati da più fonti (fuori dagli scritti talmudici, li si ritrova anche nella tradizione indiana e in quella araba) come grandezza di riferimento per la più piccola delle cose misurabili. Più avanti, sentiremo discorsi analoghi dal rabbino medico e filosofo Nachmanide così come dal cabalista del XVI secolo Moshe Cordovero, entrambi impegnati nel paragonare l’universo alle dimensioni di un granello di senape. Quello che colpisce è da una parte la dimensione finissima dei setacci utilizzati per pulire e separare i semini, dall’altra la relativa grandezza della pianta che ne deriva. A questo proposito, non mancano le storie (evidentemente metaforiche) in cui la pianta di senape cresce a dismisura, tanto da dover essere raggiunta addirittura usando una scala.

Passando alle questioni squisitamente gastronomiche, dopo avere dettato le regole per il prelievo dei semi dai baccelli e la loro setacciatura, i testi si occupano anche della preparazione alimentare. In particolare, si dibatte intorno all’addolcimento. Che i semi non possano essere consumati così come si presentano in natura è chiarito anche in termini teologici, come quando nel Midrash Genesi Rabbah si ricorda che tutto quanto è stato creato nei primi sei giorni, uomo compreso, ha bisogno di ricevere un qualche trattamento. E se il grano va macinato, la senape va addolcita.
A questo punto il pensiero può correre nuovamente alle immagini contemporanee e all’infinita varietà di senapi proposte sul mercato internazionale. Da quelle inglesi, che lo studioso del cibo Alan Davidson descriveva tra le più forti, dal gusto senza compromessi, alle francesi, tedesche e americane, tendenzialmente ingentilite dalla presenza del miele o comunque da ingredienti dolci. In epoca talmudica le cose sembrano essere state un po’ diverse, anche se non troppo. Si sa che presso i Romani si usava mescolare i semi pestati con il mosto (da qui l’espressione mostum ardens, da cui deriverebbe il termine inglese mustard), per compensare l’elemento pungente, ma è probabile che anche l’ammollo e l’abbrustolimento su braci facessero parte dell’addolcimento. Nei testi ebraici si fa in più punti riferimento all’uso del miele, aggiunto dopo che i semi sono stati puliti e pestati, ma anche in questo caso le pratiche gastronomiche sono dedotte dai precetti che le regolamentano. Nello scorrere i passi in cui si indica quanto si possa o non si possa fare il sabato, si trova così anche la pratica di aggiungere il miele e di mescolarlo ai semi, rigorosamente già battuti e macinati alla vigilia. Sempre sul fronte culinario, è interessante notare che scrittori latini del primo secolo come Lucio Giunio Moderato Columella non citassero l’uso del miele ma l’abbrustolimento sulle braci ardenti, mentre testi di cucina arabi del X secolo parlassero di zucchero e uva passa come ingredienti addolcenti.
Di precetto in precetto, emerge la desiderabilità di questa spezia ormai trasformata in salsa e, soprattutto, la sua golosità in abbinamento a un cibo particolarmente prezioso in epoca antica come la lingua. Tra gli esempi più citati dei commenti rabbinici emerge niente meno che la visita dei tre angeli ad Abramo narrata in Genesi 18. Mentre Sarah, ancora ignara che presto diventerà madre, viene spedita a preparare il pane per gli ospiti, il marito va a prendere un vitello, che viene descritto come giovane, tenero e buono. Dai tre aggettivi utilizzati i commentatori deducono che si trattasse in realtà di tre animali. A questo punto la domanda sorge spontanea: perché ben tre vitelli per tre soli commensali (per quanto di natura angelica)? Abramo avrebbe in realtà voluto ricavarne solo la parte migliore, quella destinata ai re e ai sacerdoti, ossia la lingua. E quale accompagnamento più degno della senape?
Al di là delle ragioni per cui fosse la lingua e non un’altra parte dell’animale a essere cucinata per gli ospiti di riguardo, restano i dubbi su come si usasse la senape per insaporirla. Si va dalla pratica, comune un tempo presso gli ebrei, di cospargere la carne con i semi prima di arrostirla, a quella altrettanto diffusa di intingerla già cotta nella salsa ricavata dai semi, in modo non troppo diverso da quanto facciamo oggi.

Scorrendo i secoli fino al presente, si scopre che per quanto molte cose siano cambiate, la presenza della senape nella cultura gastronomica ebraica è una costante, anche se le aree di consumo si sono un po’ spostate. Come ricorda lo storico Gill Marks, dopo aver conquistato le papille dei romani e degli abitanti delle loro province, Palestina in primis, la senape lavorata in pasta con aceto, vino o acqua sarebbe finita in disgrazia con la caduta di Roma. Pressoché scomparsa dall’Europa fino al XIII secolo, sarebbe risorta nei territori della Germania e della Francia. Ed è da questi due paesi che si può ripartire per comprendere la direzione presa in seguito da questo condimento.
Più amata nella cultura ashkenazita che in quella sefardita, la pungente salsa incontra una felice eccezione alla regola proprio nell’ex provincia romana della Gallia, dove Digione è tuttora il punto di riferimento per tutti i suoi estimatori. Ironia della sorte, sarebbero stati proprio i rabbini francesi medievali ad aver posto il veto alla senape nelle case ebraiche durante la Pasqua. L’ascrizione di questo seme tra gli alimenti kitnyot l’avrebbe reso off limits per gli ortodossi. D’altra parte, vanno ringraziati gli abitanti dell’Europa centrale e orientale se oggi la salsa derivata, pressoché priva di grassi e dalle calorie irrisorie, sia ritenuta uno dei condimenti ebraici per eccellenza.
Per individuarne le ragioni bastano due considerazioni. La prima riguarda la grande capacità di questa spezia di arricchire anche gli ingredienti più insipidi e di mascherare quelli meno gradevoli. Tale aspetto era stato già scoperto in epoca antica, quando masticarne i semini aiutava a coprire anche il sapore della carne non freschissima. Merito di ciò va agli enzimi e agli oli volatili, sprigionati grazie alla battitura, alla macinazione e alla diluizione in un liquido.
L’altra questione si collega alla prima per quanto riguarda le condizioni economiche dei suoi consumatori. Finita l’epoca in cui entrava nei banchetti di re e sacerdoti, questa pianta di facile coltivazione e di generosa produzione, fondamentale anche nella rotazione delle colture di frumento e orzo, non solo dava sapore ai cibi più poveri, ma era anche infinitamente più a buon mercato del pepe, considerato un ingrediente di lusso perché proveniente da terre lontane. Quando il costo della seconda spezia cominciò a diminuire nel Settecento, anche la diffusione della sua alternativa povera subì un calo, non al punto però da scomparire dalle tavole. Soprattutto, come si è visto, da quelle ashkenazite.

Oggi alimenti originari dell’Europa dell’Est come il pastrami o il knish di patate e cipolle sono considerati un tutt’uno con la loro salsa di accompagnamento, soprattutto presso le comunità ebraiche statunitensi. E se è vero che difficilmente uno statunitense rinuncerà alla sua quota di salsa gialla nell’hot dog, sono gli ebrei ad aver imposto sul mercato e sulle tavole dei ristoranti e delle case alcune delle più raffinate e pungenti varietà di condimenti, disponibili nei loro negozi di delikatessen fin dal loro arrivo in America nell’Ottocento.
Per lo stesso motivo, non è certo un caso se sia stato un ebreo, Barry Levenson, ad aver fondato nel 1992 il National Mustard Museum a Middleton, nel Wisconsin. Ex avvocato, l’uomo avrebbe cambiato vita proprio grazie alla senape, che l’avrebbe letteralmente “chiamato” una notte del 1986 mentre lui, deluso dalla sua squadra di baseball del cuore, i Boston Red Sox, girovagava alle tre del mattino in cerca di consolazione in un negozio di alimentari. Deciso a dedicare a questo alimento qualcosa di più di una semplice degustazione o, al più, di una collezione privata, Levenson ha fatto le cose in grande, raccogliendo vasetti e bottigliette da ogni parte del globo ed esponendole gratuitamente al pubblico. Oggi la sua esposizione comprende circa 6.090 salse provenienti da oltre 70 paesi e il museo, dove sono visitabili mostre sulla storia del multiforme condimento e si organizzano competizioni e giornate dedicate, è citato dalle guide tra i più curiosi degli Stati Uniti.

Pollo alla senape e miele

Ingredienti per 4
1 pollo tagliato in 8-10 pezzi, a piacere
1 cipolla dorata grande
2 mele renette
150 g di pangrattato (se possibile panko)
olio extravergine d’oliva
sale
pepe
Per la senape:
120 g di miele
80 g di senape di Digione

Mescolare il miele in una ciotola con il miele, coprire e tenere da parte. Sbucciare la cipolla e affettarla finemente. Sbucciare le mele, privarle del torsolo e tagliarle a fettine sottili, poi disporne metà con tutta la cipolla sul fondo di una teglia leggermente unta di olio.
Adagiare i pezzi di pollo sullo strato di cipolle e mele e condirli generosamente con sale e pepe, quindi distribuirvi sopra il composto di miele e senape usando un cucchiaio. Cospargere la carne con il pangrattato fino a ricoprirla uniformemente.
Distribuire le fette di mela rimaste negli spazi vuoti tra un pezzo di pollo e l’altro, poi condire il tutto con un filo di olio.
Coprire la teglia con un foglio di carta d’alluminio e cuocere in forno già caldo a 180° per circa 1 ora e 20 minuti. Togliere quindi la carta e proseguire la cottura fino a quando in superficie si sarà formata una crosticina croccante e dorata. Sfornare e servire ben caldo.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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